Rampa del Monte Aureo
Il cartello che sta alla base fa già effetto: è marrone, che nel codice cromatico della segnaletica verticale – rosso divieto, azzurro possibilità – significa sciccheria.
Sopra c’è un segno grafico che vuol dire scalini, e la scritta Gianicolo. Praticamente il Machu Picchu, limitandosi alla città.
Un minuto prima stavi a piazza San Cosimato, brulicante e affaccendata come un quadro di Bruegel, con le persone che sono tutte qualcuno e un’idea di armonia almeno possibile.
Ma dopo un breve tratto in salita, il lato opposto di via Goffredo Mameli è puro ingresso nel mistero.
A sì e no cinque metri da un palazzo c’è in pratica una scala nel bosco, che dopo una decina di gradini si infila nella vegetazione, inghiottita verso qualche chissà.
Si chiama Rampa del Monte Aureo, ed è chiusa. Sicché per cercare l’oro del Gianicolo bisogna infilarsi oltre uno sbarramento, in effetti sormontabile, e provare a salire.
L’accesso vagamente furtivo, le curve e le piante intorno rendono esplorazione febbrile il passaggio nella terra di tutti diventata di nessuno, giungla di tufo forse interdetta perché qualche pezzo del muro che fiancheggia la rampa è venuto giù.
Gli scalini semisepolti di foglie calpestate poco o niente e altri segni di cedimento accompagnano la sorprendente ascesa verso via Garibaldi, ma subito prima della strada dedicata al capo un’altra recinzione, mostrandosi impenetrabile, vorrebbe impedire lo sbarco nel secondo dei due mondi.
L’intero percorso è punteggiato da incredibili limoni verdastri, grossi e bruzzolosi, caduti dagli alberi intorno.
Frutti selvatici, è chiaro. Oppure meteoriti, a sottolineare l’unicità di questo pezzetto di Roma che sarebbe bello, e piuttosto garibaldino, provare a riconquistare del tutto.
[L’immagine del titolo è una rielaborazione di una foto pubblicata dall’account Twitter @TrastevereRM]
Alessandro Mauro è l’autore di Se Roma fatta a scale (Exòrma, 2016) e Basilio – Racconti di gioventù assoluta (Augh!, 2019)