La Roma, il Mago e Mou

Adorato e odiatissimo. Sprezzante, sicuro di sé, dalla lingua tagliente e dalle frasi fulminanti. Ha rivoluzionato il modo di allenare e vinto tutto ciò che era possibile vincere, grazie all’Inter di Moratti. Poi, un po’ a sorpresa, l’arrivo a Roma, sulla panchina giallorossa.

Sto certamente parlando di José Mourinho, detto Mou, il carismatico tecnico portoghese, fresco di nomina a futuro allenatore romanista, penseranno molti di voi. E invece no, perché questa è la storia del “Mago”, all’anagrafe Helenio Herrera Gaviàn, per molti semplicemente HH, ovvero acca acca.

Una storia che, per tantissimi aspetti, ricorda da vicino proprio quella dello Special One, a iniziare dal fatto di essere stato subito ribattezzato con un soprannome degno di un supereroe. Una storia di successi internazionali, di vagabondaggio per il mondo, di prime pagine sui giornali, di frasi ad effetto.

«Cosa sarebbe il calcio senza di me?» disse una volta Herrera ai cronisti che lo intervistavano. Non sapeva che un giorno, il suo futuro omologo portoghese, avrebbe sviluppato quella sua frase, arricchendola e trasformandola in un: «Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia meglio di me».

Se, per stile dialettico, Helenio Herrera era davvero il padre putativo di José Mourinho, lo stesso si può dire per il suo carattere strabordante, per l’uso di tecniche di allenamento rivoluzionarie – che all’aspetto atletico univano quello psicologico – e per l’impatto fortissimo avuto sul mondo del calcio della propria epoca.

Pensa velocemente, corri velocemente, gioca velocemente.

Helenio Herrera nasce a Buenos Aires, nel quartiere Palermo, uno dei più poveri della città. Il padre, un falegname, è dovuto scappare anni prima dalla Spagna per le sue idee anarchiche, che gli sono valse anche il sospetto di coinvolgimento in un tentativo di attentato contro il Re.

Fin dalla querelle sulla sua data di nascita, si capisce di che pasta sia fatto HH e quanto peso abbia nella sua vita un certo narcisismo, che lo rende subito un protagonista, in un calcio, oltre tutto, non ancora così spettacolarizzato. Per anni, infatti, dichiara di essere classe 1916, ma solo per apparire più giovane. In realtà, i documenti ne attestano la nascita ad aprile del 1910.

Da ragazzo è un calciatore piuttosto mediocre. Ben altro spessore acquista una volta diventato allenatore. La sua carriera si sviluppa soprattutto in Spagna, dove conquista i suoi primi due campionati sulla panchina dell’Atletico Madrid. Poi ne arrivano altri due con il Barcellona, oltre a una Coppa nazionale. Ma soprattutto, nel 1960, arriva il trionfo nella Coppa delle Fiere – la progenitrice della futura Coppa Uefa e dell’attuale Europa League – dopo avere eliminato, nel corso del cammino, l’Internazionale Milano.

È lì che Angelo Moratti, padre di Massimo e – come sarà poi per il figlio – presidente dell’Inter, se ne innamora. Pur di portarlo a Milano, gli offre un contratto sontuosissimo e la direzione totale di tutte le squadre nerazzurre, incluse le giovanili. Herrera accetta. È la stagione 1960-61.

Con l’arrivo di Herrera, gli spogliatoi dell’Inter si cominciano a ricoprire di cartelli motivazionali, scritti di proprio pugno dal Mago, per galvanizzare i giocatori. L’è mat! qualcuno bisbiglia. Inoltre, in prima squadra, vengono aggregati una serie di ragazzini giovanissimi, che Herrera ha adocchiato nel suo tour fra le giovanili. Fra questi, un certo Giacinto Facchetti e un certo Sandro Mazzola, figlio di Valentino, il capitano del grande Torino, scomparso a Superga.

Mentre Facchetti viene messo ben presto in prima squadra, Mazzola dovrà però fare un anno di anticamera. «Suo padre è stato un grande giocatore, lei si vedrà». Herrera lo fulmina così, fin dal suo primo incontro, per metterlo in riga e, soprattutto, per fargli capire che il suo importante cognome non gli sarebbe valso nessun occhio di riguardo. «Me lo disse con un tono così gelido, che ci rimasi davvero malissimo» dirà Mazzola anni dopo.

Cosa sarebbe il calcio senza di me?

I primi due anni sono altalenanti. Poi, nella stagione 1962-63, arriva il primo trionfo in campionato. L’anno dopo è una marcia trionfale in Coppa dei Campioni, dove l’Inter non subisce neanche una sconfitta e dove viene sbaragliato, in finale, il Real Madrid, con un secco 3-1. Infine, nel 1964-65, ecco il primo triplete nerazzurro: scudetto, Coppa dei Campioni – la seconda consecutiva – e Coppa Intercontinentale.

È la grande Inter di Moratti padre. È la grande Inter di Suarez, di Jair, di Mariolino Corso e degli ormai affermati Facchetti e Mazzola, divenuti idoli di una tifoseria nerazzurra, che Herrera organizza e galvanizza, per farla diventare dodicesimo uomo in campo, per farla urlare, cantare, sostenere i giocatori per tutti i novanta minuti, anziché assistere in silenzio alla partita, come usava fino ad allora.

“Taca la bala!”

Il segreto di quel cambiamento, di quella trasformazione dell’Inter da buona squadra a corazzata invincibile, sta anche nella capacità di Herrera di sapersi adattare alle situazioni, pur mantenendo sempre il proprio stile. Il calcio italiano esigeva squadre più equilibrate, meno aggressive di quelle allenate in Spagna e così il Mago non disdegnò l’uso del catenaccio difensivo. Dimostrando di avere ragione.

«Le cose difficili esigono tempo, quelle impossibili ne esigono di più» disse un giorno, con l’aria di chi sa che nessun traguardo, a lui, è vietato. Poi, dopo aver concesso le sue perle di saggezza, tornava ad allenare come se nulla fosse, al grido di “Taca la bala!” una sua esortazione che, in quegli anni, divenne proverbiale.

«Herrera era avanti anni luce rispetto alla media degli allenatori – dirà Sandro Mazzola, ormai dimentico della rudezza del loro primo incontro – È toccato a lui rivoluzionare gli allenamenti. A noi sembrava matto, ma da ragazzo, quando mi allenavo con le giovanili e guardavo che cosa facevano quelli della prima squadra, restavamo incantati. Lui allenava prima le testa e poi le gambe».

Le cose difficili esigono tempo, quelle impossibili ne esigono di più.

Intanto, a Roma, stava per arrivare una nuova dirigenza. Il Friedkin di allora si chiamava Alvaro Marchini e, come spesso succede nella Capitale – insieme anche al vecchio presidente Ranucci, che gli stava passando le consegne – aveva deciso che una squadra che porta il nome e i colori della Città Eterna, non può restare una compagine di seconda fascia, ma deve puntare molto più in alto. Per riuscirci, ecco spuntare l’idea di portare sui Sette Colli l’allenatore più forte del mondo.

Così, nella stagione 1968-69, con un contratto favoloso da 259 milioni di lire, Herrera arriva sulle sponde del Tevere. Il rapporto fra Marchini ed Herrera, però, non decolla. I due si detestano reciprocamente. La squadra, in campionato, non va oltre un ottavo posto. Arriva comunque un inatteso successo in Coppa Italia. È questa la Roma di Fabio Capello e Luciano Spinosi, di Ginulfi e Pizzaballa, di Peirò, Santarini, Cordova.

La vittoria in Coppa Italia galvanizza l’ambiente e convince Marchini a rinnovare la fiducia ad Herrera anche per la stagione successiva. D’altronde, si sa, le squadre del Mago ci mettono un po’ a carburare. Era successo anche all’Inter. Ma la stagione 1969-70 si conclude senza successi, eliminati in semifinale dalla Coppa delle Coppe e con un mediocre undicesimo posto in campionato.

Per Marchini la delusione è troppa. HH viene esonerato in tronco e sostituito da un allenatore di seconda fascia, l’ex portiere Luciano Tessari. Per ripianare i debiti, quelli che proprio il contratto di Herrera aveva provocato, Marchini è poi anche costretto a vendere alla Juventus i suoi gioielli: Fabio Capello e Luciano Spinosi prendono la via di Torino. I tifosi, però, non la mandano giù e chiedono a gran voce le dimissioni di Marchini. Dimissioni che, puntuali, arrivano a fine stagione.

Ora sulla poltrona di presidente dell’AS Roma siede Gaetano Anzalone. Il suo primo pensiero è proprio quello di richiamare subito il Mago a risollevare le sorti della squadra. In campionato non va benissimo, con quella rosa ormai dimezzata non si va al di là di un settimo posto. Però la stagione 1971-72 è anche quella del secondo – e finora ultimo – successo internazionale della Roma: la Coppa Anglo-Italiana, che viene sollevata dal neo capitano Ciccio Cordova.

Per Herrera, seguirà un’altra stagione opaca, poi, nel 1973, il ritorno all’Inter, dove però, una crisi cardiaca lo costringerà forzatamente a interrompere la carriera. Eppure HH, all’inizio degli anni ottanta, riuscirà ancora a risorgere dalle proprie ceneri. Tornato in forze e chiamato a guidare il Barcellona, a settant’anni suonati, otterrà l’ultimo dei suoi successi nel 1981: la Coppa nazionale di Spagna.

Mou e l’eredità del Mago

«L’ho incontrato mago e l’ho riscoperto bambino, seguendolo con voi traverso mari e contrade di ogni continente. Io francamente non so come sia riuscito a mostrarvelo, per quante facce, da quanti lati. Importante, per me, è che il personaggio non sia mai fasullo, neppure quando si sforza di esserlo. E HH è sempre vero, se non proprio accettabile». Ne raccontò così il grande Gianni Brera, in un suo articolo. Parole che calzerebbero a pennello anche per il suo figlioccio spirituale José Mourinho.

Questa sorprendente analogia fra i due destini, forse non è frutto del caso. Attorno al Mago, fiorì subito la leggenda dei quaderni di appunti e strategie, che Herrera custodiva gelosamente, in gran segreto. Alla morte di Helenio, nel 1997, quei quaderni li ereditò la moglie, la signora Flora Gandolfi. Unico autorizzato a leggerli l’ex capitano dell’Inter, Giacinto Facchetti:

«Perché Giacinto rappresentava la purezza – disse la signora Flora – Non era un uomo corrotto. Era come Helenio».

Sarà così a lungo, con una donna e un ex calciatore unici custodi di quegli antichi segreti. Poi, qualche anno dopo, arriva una strana telefonata alla signora Flora. Dall’altro capo del filo c’è un uomo dall’accento portoghese. Gli chiede di quei quaderni, della possibilità di leggerli, di averne una copia.

«Sì, era José Mourinho – confesserà in seguito la signora Flora – Glieli ho fatti pervenire con piacere, perché Mourinho ha l’intelligenza e la stessa grande passione che aveva Herrera per il lavoro scientifico. Mi ha poi ringraziato al telefono, in piena notte. Sono poche le persone che oggi ti dicono grazie».

No, davvero non è un caso se dietro la carriera, lo stile, i successi di Mou sembra esserci sempre la mano invisibile e vincente del Mago. Una mano che pare guidarlo dall’alto, anche adesso che sta per sedersi su quella scottante, ambita, pericolosissima panchina della Roma.

Daje Mou, che Herrera ti guarda!

 

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