25 aprile, razza partigiana
“Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica…La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i Popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori…”.
Con queste parole risponde il partigiano Giorgio Marincola, arrestato con il nome falso di Renato Marino e conosciuto dai suoi compagni con quello di Mercurio, alle domande di nazisti che lo avevano costretto a parlare a Radio Baita, creata nell’autunno del 1944 per trasmettere messaggi di propaganda anti-partigiana.
Un episodio che colpisce, fu infatti riportato nella motivazione della medaglia d’oro al valore militare e ricordato da coloro che lottarono con lui. Ma non solo, quell’episodio viene menzionato anche dal tenente colonnello Richard Thornton Hewitt (capo del comando inglese), in cui l’ufficiale britannico afferma che “Catturato dal nemico, egli non solo non svelava nulla, ma trovava il modo di esaltare il Movimento partigiano attraverso la radio fascista, alla quale era stato costretto a parlare”.
A ricostruire la storia di Giorgio Marincola, ci hanno pensato Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, nel volume Razza Partigiana (Iacobelli editore), un libro uscito per la prima volta nel 2008, che tuttavia rimane necessario per comprendere “la storia della Resistenza antifascista con la rimossa storia coloniale del Paese mostrandone i molteplici incroci e attraversamento che gli storici non sono riusciti finora a percepire e rappresentare” (dalla Prefazione di Alessandro Triulzi).
Sì, perché Giorgio Marincola nasce in Somalia nel 1923, da un sottoufficiale dell’esercito italiano, e da una donna somala: viene riconosciuto e registrato dal padre poco dopo la nascita, a Mogadiscio. Due anni dopo nasce Isabella, anche lei subito riconosciuta. Il padre lascerà poi la Somalia, portando con sé i due figli. Nell’Italia coloniale accadeva spesso il contrario, gli italiani residenti sul posto (per lo più militari), si accasavano con donne indigene, da cui avevano figli non riconosciuti e abbandonati.
Il fascismo inizialmente tollerava il meticciato, subendo poi un percorso involutivo a partire dalla guerra in Etiopia (1935-’36) che segna una svolta nelle politiche razziali del regime “avviando, oltre al rabbioso abbaiare di pubblicisti, antropologi e sedicenti scienziati, anche un processo normativo che ha portato al mutamento dello status giuridico dei meticci”.
Un esempio riportato nel libro è quanto scrive nel 1938 l’antropologo razzista Lidio Cipriani in un articolo sulla rivista “La difesa della razza”: “E’ nostra salda opinione che l’incrocio con gli Africani sia un attentato contro la civiltà europea perché la espone a decadenza: dato che essa è un prodotto possibile solo nell’ambito delle razze europee.[…] Con la situazione antropologica determinatasi lentamente in Africa, non stupirà se il miscuglio vi fu sempre deleterio, come lo è per i popoli civili che assorbono sangue africano. Ha ben motivo, dunque, la decisione del Gran Consiglio Fascista per l’inasprimento delle misure contro il meticciato: grave piaga i cui effetti si proiettano, ingigantendo, nel tempo, e della quale i responsabili mai saranno puniti abbastanza.”
Nelle aule di quello che era il liceo Umberto I, Giorgio Marincola matura “l’educazione al dissenso”, grazie al professor Pilo Albertelli (l’istituto scolastico prenderà poi il suo nome), partigiano ucciso alle Fosse Ardeatine. Giovanissimo decide da che parte stare, un inequivocabile antifascismo che lo spinge ad aderire nella Resistenza romana nei nove mesi di occupazione nazista della città.
Milita nelle squadre armate del Partito d’azione. Poco prima dell’arrivo degli alleati, decide di entrare a far parte di una missione britannica destinata a precedere l’avanzata dell’esercito d’invasione alleato. Addestrato in Puglia, viene paracaduto in Piemonte, nella zona di Biella. Nel gennaio del 1945 viene arrestato e incarcerato e poi trasferito nel lager di Bolzano dove resta sino alla fine di aprile; dopo l’insurrezione generale del 25 aprile, viene prelevato da un mezzo della Croce Rossa.
A questo punto accade qualcosa che non è facile capire. Perché Giorgio, invece di riparare in Svizzera, in attesa della ritirata delle truppe tedesche, insieme a due compagni di prigionia si unisce ad una formazione partigiana della Val di Fiemme. Rimane ucciso, il 4 maggio 1945, nell’ultima strage nazista a Stramentizzo. Tracce della sua vicenda riemergono nell’armadio della vergogna, presso la Procura generale militare di Roma, dove sono stati occultati 695 fascicoli riguardanti crimini compiuti dai nazisti e fascisti in Italia. Gli autori si domandano cosa abbia spinto il giovane ventiduenne a tornare a combattere, dopo quattro mesi di prigionia, e con gran parte del territorio italiano oramai libero. Non trovano una risposta facile, se non ricorrendo alla stessa ostinazione de Il partigiano Johnny, lì dove Fenoglio fa dire al protagonista: “Molto probabilmente finirà in un pasticcio – disse Johnny – ma ha da esser fatto”. In questa volontà di “seguitare” si “percepisce una ribellione profonda da parte di Giorgio, una ribellione etica e forse disperata ai quasi quattro mesi di prigionia e sopraffazione”.
La storia di Giorgio Marincola, senza girarci troppo attorno, ci parla del nostro presente. Di un’Italia avvolta dal temuto pericolo che sarebbe dovuto arrivare dai barconi dei migranti, che invece è stata buttata giù dal contagio portato da un manager lombardo in affari coi cinesi e che viaggiava regolarmente con un aereo in Business Class. Ci parla della rimozione storica e culturale che viviamo, ci parla dell’esclusione etnica e della sicurezza che sono diventate l’unico collante del Paese. Con Giorgio dobbiamo continuare a chiedere un’Italia inclusiva, giusta e libera.