La Superlega e la corsa al Campidoglio

Dopo tanto scandalo mediatico, con minacce di ritorsioni partite dall’Uefa e da diversi governi nazionali – a cominciare da quello britannico, guidato da Boris Johnson – il progetto della Superlega di calcio è battuto in ritirata. Dopo tutte le compagini inglesi si sono sfilate le milanesi ed infine anche il giovane Agnelli ha dovuto ammettere che la Superlega non esiste più senza i club inglesi. A pochi giorni dall’annuncio che sembrava destinato a rivoluzionare il mondo del calcio, l’invincibile armata delle superpotenze calcistiche europee sembra essersi arresa. Una guerra lampo al contrario.

Ebbene, in ottica romana, questa è davvero una pessima notizia per alcuni candidati a sindaco di Roma. Penso a Carlo Calenda, oppure a Vittorio Sgarbi, con le loro ambizioni di conquista della poltrona di primo cittadino. Mentre, al contrario, questa stessa notizia è un incoraggiamento per il centrosinistra, che ha da pochi giorni deciso ufficialmente di fare le primarie cittadine. Del centrodestra, al momento, taccio, in attesa di tempi migliori, visto che per ora in città se ne sono perse le tracce.

Cosa c’entrano Calenda e Sgarbi, due che di calcio s’interessano molto poco – per non dire affatto – con la Superlega calcistica europea? E cosa c’entra la Superlega con la lotta per il Campidoglio? Direttamente davvero nulla. Però, se la Superlega, come è stato detto e scritto da più parti, è anche una sorta di straordinaria metafora degli equilibri economici e politici del nuovo millennio, se è un simbolo della lotta fra le élite e il popolo, fra i ricchi e i poveri, allora il discorso cambia e un’eventuale sconfitta della Superlega è un’indicazione importante, da poter tradurre a tutti i livelli politici, incluso quello locale.

Tra i vari articoli apparsi in questi giorni sul tema, ce n’è uno a firma di Igor Giussani, che a mio avviso chiarisce abbastanza bene la lettura metaforica che della vicenda Superlega può essere fatta, in chiave di nuovi equilibri politici ed economici, globali e locali. Scrive Giussani: “la Super Lega è anche la riproposizione sportiva dell’ideologia antidemocratica e neoaristocratica alla base del ‘governo dei competenti’… dove i ‘peggiori’ (cioè chi non appartiene alla ristretta oligarchia) devono sostanzialmente sparire o al più limitarsi a guardare”.

La Superlega aveva il pregio di aver bandito l’ipocrisia di una élite che lascia agli altri solo le briciole

Il governo dei competenti… Ecco che arriva il primo forte legame con le prossime elezioni romane. In chiave romana, infatti, chi più di Carlo Calenda ha battuto sul tasto della competenza quale valore assoluto – autoproclamandosi, ovviamente, il più competente di tutti – per avvalorare la propria candidatura? Chi ha impostato la propria campagna elettorale in un senso letteralmente aristocratico – dove per aristocrazia si intende il suo originario significato greco, cioè quello di “governo dei migliori e dei più competenti” – additando i suoi avversari politici come incompetenti? Lo ha fatto anche di recente, in un’intervista apparsa su La7, per giustificare – devo dire, anche in modo convincente – la propria mancata partecipazione alle previste primarie del centrosinistra.

Sul fronte del centrodestra, un’analoga posizione, quasi perfettamente speculare, ha assunto Vittorio Sgarbi, anch’egli sempre pronto a rimarcare la propria competenza, perlomeno nel campo artistico e comunicativo, nonché la sua intenzione di correre da solo, senza sottostare ai diktat dei partiti a lui più vicini, con una squadra di competenti di sua fiducia, pronti ad assumere i ruoli di assessori. Un concetto ribadito anche qui su Romareport, in un’intervista recentemente rilasciataci.

In questa chiave di lettura, Calenda e Sgarbi finiscono dunque per essere l’equivalente di una Juventus e di un Real Madrid delle elezioni romane, cioè quei candidati che, per storia e per curriculum, sono una spanna sopra agli altri e che dunque, alla fine, decidono di non passare più per i barocchismi delle federazioni e dei tavoli di partito, ma di mettersi in proprio e lanciare la sfida privatamente, senza insegne e beneplaciti “pubblici”, puntando solo sulla propria competenza e superiorità individuale.

Di conseguenza, proseguendo questa metafora, la parte dell’Uefa e delle federazioni calcistiche nazionali, cioè della tradizione e della democrazia, se la vede assegnata d’ufficio il centrosinistra, con le sue primarie, che all’apparenza sono un modo per permettere a tutti di partecipare e di vincere, anche a chi non ha santi in paradiso, né grossi budget da spendere, anche a candidati poco noti e che per questo, giornalisticamente, sono stati definiti “i sette nani”.

Sono loro i Leicester della politica romana, quelli che, come quella piccola squadra, all’epoca allenata da Claudio Ranieri, che veniva dalla seconda divisione e che vinse pochi anni fa il campionato inglese, superando le superpotenze del calcio britannico, dal nulla, potrebbero riuscire a farsi conoscere e a diventare sindaci.

 

Così sarebbe, sotto metafora, se si fosse d’accordo con quanto scrive alla fine Giussani nell’articolo prima citato: “Mentre scrivo, pare che il Manchester City si sia ritirato dalla Super Lega e che anche altre squadre inglesi siano intenzionate a farlo, specialmente Chelsea e Liverpool dopo le vibranti reazioni di protesta dei propri tifosi. Lo so che non si tratta del risveglio delle coscienze che servirebbe al nostro povero pianeta, ma a suo modo è un segno di vigore morale”.

Praticamente, parlando di una sorta di risveglio morale, in questa lettura dei fatti, si avvalora la tesi per cui la Superlega rappresenta l’élite di cattivi e insensibili affaristi, mentre l’Uefa rappresenta i sani valori popolari della democrazia, in cui tutti hanno uguali diritti e uguali possibilità. È una lettura rassicurante, ma abbastanza fuorviante, che personalmente non condivido affatto.

Semmai, a mio avviso, la Superlega è, paradossalmente, un passo avanti nel disvelare l’ipocrisia delle istituzioni falsamente “democratiche” del calcio, che, se è vero che lasciano ancora la possibilità a un Leicester di vincere un importante campionato nazionale, caso unico nel secolo  – e in Italia bisogna tornare indietro di quasi quarant’anni, quindi al secolo scorso, per trovare un caso analogo, con la vittoria dello scudetto da parte del Verona nel 1984 – in realtà, dietro queste briciole, mascherano e giustificano i favori da sempre accordati ai “cattivi”, cioè proprio a quelli che ora vorrebbero la Superlega, da decenni aiutati e protetti in ogni modo dall’Uefa e dalle federazioni nazionali, con buona pace della democrazia e delle pari opportunità.

Per esempio il favore di trasformare la vecchia Coppa dei Campioni – nella quale a volte potevano vincere carneadi come la Steaua Bucarest, il Nottingham Forrest, la Stella Rossa – nella più moderna Champions League, nel cui palmarès non c’è nessuna Steaua Bucarest presente, ma solo superpotenze calcistiche, vista la formula che protegge la qualificazione di queste superpotenze, anche in caso di una o più partite giocate male e perse.

È proprio questo il motivo per il quale io, in controtendenza rispetto agli umori della maggioranza, facevo il tifo per la Superlega, pur detestandola, poiché avrebbe permesso di smascherare l’ipocrisia e mostrare il re nella sua autentica e oscena nudità.

A Roma le candidature  di Calenda e Sgarbi sono più vere e democratiche delle primarie eterodierette

Per analoghe ragioni, trovo a Roma molto più oneste, sensate e persino più democratiche, le apertamente aristocratiche candidature di un Calenda e di uno Sgarbi, rispetto a quella pantomima falsamente partecipativa che sono le primarie del centrosinistra. Una pantomima alla quale partecipano anche ottimi candidati, in perfetta buona fede e animati dalle migliori intenzioni, a cui molti danno il loro appoggio con la stessa ottima buona fede, ma che sono poi, nei fatti, solo una foglia di fico e un gioco di apparenza, in cui quello che conta e vince davvero sono i giochi di partito e non il volere popolare.

Ne furono un esempio lampante le primarie di centrosinistra del 2013, quando per mesi e mesi si spesero e lottarono per la carica di sindaco David Sassoli e Paolo Gentiloni, ma in cui poi, l’ultimo giorno utile, fu catapultato in campo, per volere dall’alto, un quasi ignoto Ignazio Marino, che, guarda caso, stravinse. Certo, per poi venire sacrificato a sua volta sull’altare delle stanze dei bottoni, fin dal giorno successivo alla vittoria, ma questo è un altro discorso.

Sicuramente, c’è anche da dire che, se la Superlega ha generato reazioni popolari tanto negative, che probabilmente ne decreteranno la sconfitta, un motivo c’è: la democrazia, di fatto, può essere calpestata, eliminata, ma guai a dirlo apertamente. Non verrebbe accettato. La maggior parte delle persone non te lo perdonerebbe. Perché abbiamo tutti bisogno di illusioni, di finzioni, di apparenze, di ritualità. Ciascuno di noi può essere un servo e accetterà questa condizione per tutta la vita, senza reagire, ma solo a patto di non sentirselo mai dire in modo palese. È la vecchia, ma sempre valida, storia del mito della caverna di Platone.

Le superpotenze calcistiche sono state perciò ingenue a pensare di poter fare a meno di quel velo d’ipocrisia falsamente democratico, costituito dall’Uefa e dalle federazioni nazionali. È la storia che ce lo insegna: il velo d’ipocrisia è indispensabile. Nemmeno Mussolini, dopo la marcia su Roma, si dichiarò apertamente dittatore, ma anzi si sottomise formalmente al Re e formò un primo governo di coalizione. Né si dichiarò tale fin da subito Hitler, che si preoccupò di partecipare disciplinatamente alle elezioni e di rispettare il vecchio presidente Hindenburg, attendendo pazientemente la sua morte.

Certe cose, se fatte all’improvviso, risultano troppo leali, troppo oneste, nel loro disvelamento del male, per essere accettate. Perciò i veri cattivi si guardano bene dal disvelarsi subito. La Superlega – per la quale, come detto prima, paradossalmente tifavo, pur trovandola orrenda, proprio perché meno ipocrita degli attuali equilibri del calcio – ha dunque sbagliato i tempi.
Adesso, mi auguro per Roma che Calenda e Sgarbi – per i quali tifo per altrettanto paradossali motivi – imparino a memoria la lezione.

 

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