Elezioni 2021: non ce n’è Covid!
Sebbene la data per le elezioni capitoline sia slittata di qualche mese, dalla primavera all’autunno 2021, in una forbice compresa fra i mesi di settembre e di ottobre, la battaglia politica per il Campidoglio è ormai entrata nel vivo già da diverso tempo.
Ma quella che sembra essere assente, per il momento, è proprio la pandemia, che ha causato il rinvio del voto. E che soprattutto causa non pochi problemi, o veri e propri drammi, per Roma.
Da una parte, la sindaca uscente Virginia Raggi punta alla riconferma, avendo ottenuto anche l’endorsement del padre nobile del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo. Dall’altra, gli schieramenti di centrosinistra e di centrodestra, giudicando entrambi fallimentare l’esperienza della giunta Raggi, tentano di scalzarla, pur non avendo ancora trovato un accordo rispetto ai nomi su cui puntare.
A sinistra si parla insistentemente di Roberto Gualtieri, ma qualcuno ripropone anche l’ex segretario PD, Nicola Zingaretti, o il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.
Senza contare i vari nomi che già da mesi scaldano i motori e puntano a vincere eventuali primarie di coalizione: da Giovanni Caudo ad Amedeo Ciaccheri, oltre a Sabrina Alfonsi, Monica Cirinnà, Tobia Zevi, Paolo Ciani.
Infine c’è Paolo Berdini, che pare smarcato dal PD e, soprattutto, c’è Carlo Calenda, che sembra intenzionato a fare corsa a sé.
A destra si vorrebbe invece convincere Guido Bertolaso a tentare la sfida per il Campidoglio – anche se lui ha più volte negato di essere disponibile per una candidatura – oltre ad avere proposto il nome un po’ meno noto di Andrea Abodi, lanciato nell’agone capitolino qualche settimana fa, ma senza suscitare forti entusiasmi neanche all’interno della sua stessa area politica.
Ci sono poi alcuni candidati indipendenti, come Vittorio Sgarbi, o come la presidente del settimo Municipio, Monica Lozzi, che si presenta alla guida di una sua lista civica, oltre al candidato dei Liberisti Italiani, Andrea Bernaudo e a quello del neonato movimento della “Giovane Roma”, Federico Lobuono.
Tanti i nomi in lizza e altri ne spunteranno sicuramente nei prossimi giorni, ma in questa sfida romana continua ad esserci un grande assente, dicevamo, un convitato di pietra, finora mai entrato nel dibattito in corso per accaparrarsi la poltrona di primo cittadino di Roma. Un elemento ignorato sia da tutti i potenziali candidati che da tutti gli schieramenti in campo: il Covid.
Se da oltre un anno, a livello nazionale, questo è sicuramente l’argomento principe, se non unico, di tutte le discussioni politiche, con scontri sempre più aspri su aperture e chiusure di negozi e categorie economiche, su cure e vaccini, su zone gialle e zone rosse, su ristori e sostegni, su distanziamenti e tracciamenti, nel dibattito romano il problema pare non esistere.
Certo, si dirà, non se ne parla perché non è affatto nelle competenze di un sindaco poter affrontare questioni di natura sanitaria, che competono alle regioni e al governo nazionale. Però questo è vero solo in parte, visto che la pandemia è ormai non più un problema di natura squisitamente sanitaria, ma ha generato una crisi che investe settori su cui il sindaco può e anzi deve intervenire, anche con una certa urgenza.
Il virus ha infatti stravolto l’intera economia cittadina, rendendo necessario un radicale ripensamento di tutto il tessuto urbano, del suo modello di sviluppo economico e urbanistico, del suo sistema di trasporto pubblico e di mobilità privata, della sua organizzazione sociale.
Per decenni Roma ha vissuto essenzialmente di turismo, di commercio, di terziario, di industria culturale e dell’intrattenimento, di ristorazione, cioè dei settori maggiormente colpiti dalla crisi, con un tessuto economico fatto principalmente di piccole e medie imprese a conduzione familiare, quelle che hanno oggi – e avranno anche in futuro – le maggiori difficoltà a ottenere risarcimenti e prestiti, indispensabili per poter risollevare l’attività dopo mesi di chiusura.
Da parte nostra l’allarme lo avevamo lanciato già durante il primo lockdown del 2020: senza interventi decisi e rapidi, tutto il commercio romano rischia ora di finire in mano alle mafie, o, nella migliore delle ipotesi, alle grandi multinazionali, che per loro natura, hanno logiche poco attente alle esigenze dei romani e che possono dunque depauperare fortemente l’economia della città, anche a pandemia finita.
Come si pensa poi di far sopravvivere il centro storico, ormai quasi privo di residenti e, da trent’anni almeno, basato economicamente sulla monocultura del turismo? Cosa ne sarà dell’area simbolicamente più importante di Roma, ora che di danarose comitive di russi o giapponesi, in giro, non se ne vede più l’ombra?
E come si pensa di fare vivere anche le periferie, nate e cresciute con uno sviluppo urbanistico insensato, a macchia di leopardo, come quello a cui abbiamo assistito fin dal secondo dopoguerra, oltre che con un sistema viario inadeguato e una rete di trasporti insufficiente e vetusta?
Il tutto pensato in ben altro momento storico, un periodo nel quale i lunghi spostamenti dai quartieri della cintura urbana, spesso carenti o del tutto privi di servizi, verso il centro – in cui riversarsi per accedere a quei servizi altrove assenti – non veniva considerato un problema.
Sono o non sono questioni centrali per il futuro sindaco della Capitale? Mi pare di sì. Eppure, di tutto questo, il dibattito politico romano pare non accorgersi, se non marginalmente e molto di malavoglia. Ci si concentra e si litiga sulle possibili alleanze giallo-rosse, si fanno sondaggi sui nomi dei candidati, ci si azzuffa su quanto sia stata brava o incapace la Raggi. Punto. Niente di più.
Sul perché di questo imbarazzato e imbarazzante silenzio della politica romana nel suo complesso, provo ad avanzare alcune ipotesi. C’è di sicuro una questione di generale scadimento del personale in campo.
Scomparse le scuole di partito e quasi scomparsi gli stessi partiti, è venuto meno quel meccanismo interno di scrematura e di selezione che, in linea di massima, riusciva a portare nei ruoli apicali di ogni schieramento delle persone che avevano acquisito un minimo di competenza politica e amministrativa e che conoscevano, dunque, i problemi da affrontare.
Senza quel setaccio, oltre che senza il supporto delle ideologie, la politica è sempre più spesso una pura questione di marketing, di slogan, di immagini, di pressioni di questa o quella lobby. È dunque ben difficile immaginare e men che mai realizzare una visione complessiva di città, una città da ripensare totalmente a causa della crisi epocale in corso, per chi ha costruito la propria carriera solo a colpi di meme e di pressioni esterne.
Non è un caso se i pochi che hanno provato e stanno ancora provando a immaginare una Roma proiettata verso il futuro – penso ad esempio a Walter Tocci, autore di un libro sul futuro della Capitale, da noi recentemente recensito – appartengano a una generazione politica più adulta, per non dire anziana, rispetto a quella oggi in campo. Una generazione ormai fuori dai giochi.
C’è però, sempre a mio avviso, una questione ancora più importante. Parlare di quanto il Covid abbia sconvolto Roma e di quanto potrebbe sconvolgerla in un futuro, sia imminente che più lontano, cercando delle soluzioni al problema, significa anche tentare, per forza di cose, di uscire dagli schemi abituali dello scontro politico degli ultimi decenni.
Il Covid, con le sue devastanti conseguenze sociali, infatti non conosce la destra e non conosce la sinistra, non si preoccupa di politica o di antipolitica, né di sovranismo e globalismo, nemmeno di porti aperti e porti chiusi, non dice uno vale uno, non dice Prima gli italiani e non è neanche mai stato antifascista.
In parole povere, affrontare le questioni che la pandemia pone sul tappeto, significa dover uscire dalle rispettive comfort zone nelle quali si trincerano abitualmente tutte le forze politiche, costringendole a ripensare il mondo in un modo nuovo.
Questo vale ovviamente anche a livello nazionale, oltre che cittadino. Ma a livello nazionale la politica ha trovato, recentemente, un’arma formidabile da poter giocare. Può infatti permettersi di parlare della crisi e della pandemia perché all’orizzonte sono comparse le possibili soluzioni al problema: una si chiama Recovery fund e l’altra si chiama vaccino.
L’attesa messianica e – probabilmente – eccessiva, dell’effetto salvifico di questo combinato composto fra soldi a pioggia e difese immunitarie, fa sì che la politica nazionale si senta sollevata dal peso delle responsabilità (anche perché, se le cose andassero male, si può sempre incolpare l’Europa nel caso dei fondi e le case farmaceutiche in quello dei vaccini) e si permetta dunque di affrontare la questione, almeno a parole.
A Roma no. Qui in città non c’è l’Europa a salvarci, o c’è molto limitatamente, non c’è la task force di esperti, non c’è nemmeno la Pfizer né Moderna a poter dare una mano per affrontare i nodi cittadini di cui parlavo poc’anzi. Occorre quindi che ciascun candidato sindaco studi il problema di suo e proponga soluzioni che siano farina del suo sacco, della sua capacità di analisi, della sua competenza.
Ecco perciò che praicamente nessuno corre il rischio di farlo. E allo stesso tempo nessuno solleva il problema come arma contro il nemico, neanche per mettere in difficoltà l’avversario meno preparato sul tema, in un tacito e forse persino inconsapevole accordo multipartisan per un silenzio generalizzato.
Negare un problema non aiuta certo a risolverlo. Questo è risaputo. Anzi lo aggrava. E allora, se pensiamo che l’onda della crisi non sarà indolore per la città, d’ora in poi facciamoci un po’ più caso quando sentiremo parlare i futuri candidati sindaci. Vediamo chi e come affronterà anche le questioni legate al Covid.
E se qualcuno, prima di altri, sarà in grado di fornire qualche spiraglio di idea di fronte ai problemi post pandemici che Roma si troverà ad affrontare, votatelo senza esitazioni, chiunque esso sia e di qualunque area politica. Anche se diversa dalla vostra. Io farò così.