Fra’ Cazzo da Velletri e i suoi fratelli
Il latino parlato dai legionari per tutto l’impero ha dato vita al volgare dal quale sono nati i dialetti, le lingue romanze e a Roma, preti a parte, ha dato vita al romanesco.
Il vernacolo di Roma quasi non esiste più, si è italianizzato o meglio conformato alla koinè prima televisiva ed ora social-televisiva, anche con qualche concessione agli anglismi. Del resto il vero divulgatore del nostro idioma non è il don Lisander, che in famiglia parlava francese o lombardo, che scrisse i Promessi Sposi ma il caro Mike Bongiorno, che veniva dall’America e che condusse il Rischiatutto.
C’è di buono però che alcuni di questi anglismi vengono romanizzati: ormai generazioni intere si rivolgono l’un con l’altro, senza alcun imbarazzo, appellandosi bro’, che deriva proprio dall’inglese brother, e sono serie mentre lo fanno, a volte bro’ può diventare quasi bra’, comunque è indeclinabile.
Tre cose però, mantiene il romanesco: l’accento inconfondibile, l’indolenza che genera troncamenti sulle proparossitone, anche se compatti prestiti stranieri (vieni a magnà o te devo [da] menà?), e una passione per un immaginifico turpiloquio che può rivaleggiare solo con quella che in alcune zone della Toscana si ha per le bestemmie e la blasfemia.
Il parlare sporco a Roma è ossigeno, non è proprio pensabile sostenere una conversazione di qualche genere privandosi del colore e delle infinite sfaccettature connotative (diciamo per semplificare di significato) offerte anche solo dalla parola cazzo.
Che è stata cantata dal più grande poeta romanesco di tutti i tempi, e tra i più grandi in assoluto, con un immortale sonetto dal geniale titolo Er padre de li santi.
Er cazzo se po di’ radica, ucello,
Cicio, nerbo, tortore, pennarolo,
Pezzo-de-carne, manico, cetrolo,
Asperge, cucuzzola e stennarello
[…]
Con il primo nome del “Padre de li santi” a Roma si chiamano molte cose e si manifestano infiniti stati d’animo. Come se non bastasse, quasi per partenogenesi, sono nati anche personaggi proverbiali chiamati proprio così. Il più familiare e a me caro è Fra’ Cazzo da Velletri.
Sul buon frate velletrano circolano varie storie e leggende. Certamente è stato immortalato dall’indimenticabile battuta di Vittorio Gassman in “Brancaleone alle crociate”, per la verità in modo un po’ spurio «Chi sei tu, Fra Cacchio da Velletri?».
Il parlare sporco a Roma è ossigeno
Allo stesso tempo fonti incerte, al limite dello scherzo, attribuiscono a un musico velletrano, uno stornellatore d’altri tempi, una raccolta di opere musicali firmata proprio Fra’ Cassio da Velletri, 1930.
Un’altra leggenda vuole che fosse un vero frate rabdomante che si aggirava per quei luoghi sempre Cassio di battesimo, per altri ancora è la stessa persona in gioventù stornellatore e poi rabdomante.
Sta di fatto che i velletrani stessi hanno alimentato queste dicerie e queste leggende per burlarsi di noi romani creduli e un po’ cazzoni, e forse per far buon viso a cattivo gioco, perché su una cosa non ci sono discussioni filologiche: Fra’ Cazzo viene proprio da Velletri.
Il modo di dire serve a indicare persona che qualcuno crede sin troppo autorevole a sproposito, o per sottolineare la stupidità di una particolare domanda su una precisa persona. E chi sarà mai Fra Cazzo da Velletri? / Che lo devo da fa io? E no, sta avvede che lo fa Fra Cazzo da Velletri!
La pronuncia esatta è con il raddoppiamento fonosintattico quindi FRACCAZZO.
Poi ci sarebbero il cazzimperio, il cazzo che ha messo l’unghia, il cazzo che te se frega, ma, come si suol dire, so’ artri cazzi.
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