Aridaje e i suoi fratelli

“Roma ha bisogno ancora di te. Chi sta con Virginia, sta con il Movimento”, scriveva su Twitter Beppe Grillo il 20 febbraio, accompagnando questa frase con una bella foto in cui appariva a fianco della sindaca di Roma, sotto una grande scritta “Aridaje!”.
L’intenzione del comico genovese, guru del Movimento 5 Stelle, era, con ogni evidenza, quella di dire simpaticamente alla prima cittadina della Capitale: “Daje un’altra volta Virginia, io sono con te per un nuovo mandato”. Peccato però che, come chi è romano sa bene, “Aridaje”, a Roma, non significhi esattamente “Daje un’altra volta”.

E così il povero Grillo ha dovuto subire l’ironia e il sarcasmo dei social, incluso quello di avversari politici come Carlo Calenda, lui sì romano, che con una punta di veleno gli ha ricordato: “Beppe secondo me non ti è chiarissimo l’uso romano dell’espressione “Aridaje”. Una roba tipo “Virginia ricandidati”. Risposta dei romani (tono stanco con una punta di paura): “Ancora?!! Eh no”.

Aridaje è infatti l’espressione utilizzata a Roma, non per esortare qualcuno a rinnovare un impegno, bensì, tutto al contrario, per stigmatizzarne la fastidiosa e inopportuna ripetizione di parole o di azioni.
Insomma non proprio un bel viatico per il rinnovo del mandato della Raggi. Senza considerare che fu Ignazio Marino il primo a utilizzare il “Daje” come motto da sindaco della Capitale. Dunque non esattamente un buon auspicio, visto come finì quell’esperienza in Campidoglio.

Ignazio Marino: ecco un altro genovese che, per tentare di arruffianarsi l’animo dei romani, provò per qualche tempo a usare il nostro dialetto e le sue espressioni tipiche, finendo però per risultare, in questa sua operazione simpatia, assai goffo e inadeguato.
Di questa sua caratteristica ne fece una divertente parodia il comico Max Paiella, che trasformò il “daje” del suo slogan elettorale, in un improbabile “dagie”, pronunciato proprio così, a sottolineare l’estraneità di Marino dal vero spirito capitolino.

Che chi non è di Roma combini spesso disastri quando tenta di parlare romano, lo sa bene poi anche il romanissimo Marco Giallini, colui che un paio di anni fa, non senza difficoltà, nelle vesti del personaggio di Rocco Schiavone, provò a spiegare in dettaglio al suo uditorio ed all’Italia intera, la differenza che c’è fra uno “sticazzi” e un “mecojoni”.
Una differenza chiarissima ed enorme per un romano, molto meno per chi viene da oltre il GRA.

Ci sono casi in cui, anche quando le espressioni usate sono corrette, vuoi magari perché scritte su un copione da qualche sceneggiatore capitolino, è l’improbabile accento dell’interprete a suscitare ilarità.
È ad esempio il caso di Adriano Celentano, che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si cimentò per ben tre volte in lungometraggi ambientati dalle nostre parti. Da “Serafino”, a “Er più”, a “Rugantino”, quell’improbabile Celentano de’ noantri, ha generato in seguito una spassosissima imitazione, interpretata da Max Tortora.

Per chi immagina che Tortora abbia volto calcare troppo la mano a fini comici, ecco un confronto con la scena originale di cui l’attore romano parla nel video: assolutamente conforme.

Ci sono per fortuna anche esempi positivi. Per un Celentano che risulta ridicolo nei panni del trasteverino, c’è in compenso un Papa polacco, quello che aveva iniziato il proprio pontificato in uno stentato italiano, con l’indimenticabile e incespicante “Se mi sbaglio mi corrigerete”, ma che, quando nel 2004 pronunciò il suo famoso “Damose da fa!”, non mostrò più errori di pronuncia, scaldando il cuore di tutti i romani.

Più di recente, potremmo annoverare fra gli esempi positivi, facendo le dovute proporzioni, anche il pavese Max Pezzali, che nel 2019 sdoganò l’uso dello “sticazzi” nella musica pop di largo ascolto. Un uso tutt’altro che maldestro, con il testo della sua canzone “In questa città”, tutto dedicato a Roma, capace di cogliere bene lo spirito della Capitale.

Efficace e divertentissima, senza essere ridicola nella sua romanità d’importazione, era anche la “Sora Cecioni“, il personaggio ideato dalla compianta Franca Valeri, attrice sì milanese, ma capace d’interpretare in modo efficacissimo lo spirito di una piccolo borghese capitolina.

C’è da dire che gli ultimi tre esempi citati sono quelli di persone che a Roma, pur non essendovi nate, hanno vissuto diversi anni. Ed è forse questo che potremmo consigliare a Beppe Grillo: venire a stare un po’ qui in città, prima di avventurarsi nel suo prossimo “Aridaje”, o in altri motti romaneschi di sostegno a Virginia Raggi.
Anche per evitare che la reazione dei romani possa in futuro essere quella di Nino Manfredi, nella famosissima scena di quel film dal titolo interminabile, “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, in cui, indispettito dall’insistenza dei suoi amici, rispose col suo personale “Aridaje”, però tradotto in un oscuro e misterioso idioma africano: “Aritanga aromba coyota!”

 

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