Il non finito romanesco

“Gli italiani alla manutenzione preferiscono l’inaugurazione”. Già nel lontano 1957, Leo Longanesi, giornalista e intellettuale, era stato capace di sintetizzare, con una frase semplice e tagliente, un antico vezzo del nostro belpaese: l’incapacità di gestire il quotidiano come tale, la necessità di realizzare progetti faraonici e sempre nuovi, di avviare lavori interminabili, col fine dichiarato di raggiungere delle agognate magnifiche sorti e progressive. Lavori che però non si riescono quasi mai a tradurre in qualcosa di compiuto, di utile, di curato giorno dopo giorno e giorno dopo giorno utilizzabile.

Roma, che di questa Italia, dei suoi vizi e delle sue virtù, è la capitale, capitale lo è anche di queste italianissime “inaugurazioni non manutenute”, di questi lavori avviati e lasciati ammuffire, di questi cantieri perennemente aperti per anni, per decenni, per secoli, abbandonati per mancanza di fondi, poi ripresi, modificati, inaugurati, di nuovo abbandonati. A partire dalla storica e proverbiale fabbrica di San Pietro, un cantiere che per centinaia di anni fece sfoggio di sé, accompagnando la vita di intere generazioni, ma che perlomeno, anche se non prima di essere stato la causa di scismi religiosi, di guerre, di calate dei Lanzichenecchi, di pestilenze, di tracolli finanziari, alla fine è riuscito a mettere il suo ultimo mattone e a dare vita a un capolavoro.

In tempi decisamente più recenti e a noi vicini, qualcuno ricorda senz’altro la realizzazione della stazione ferroviaria di Vigna Clara, inaugurata in pompa magna per i mondiali di calcio del 1990, alla presenza delle più alte autorità politiche e religiose, poi richiusa qualche giorno dopo per l’assenza di collaudi, poi ristrutturata, di nuovo inaugurata, di nuovo chiusa. Oppure la meravigliosa Vela dell’archistar Calatrava, sede della futura Città dello sport, che si staglia all’imbocco dell’autostrada Roma-Napoli, col suo ammasso di affascinanti geometrie d’inutile ferraglia, lasciata a fare ruggine da ormai più di un decennio.

Sono due esempi di opere pubbliche, a cui si affiancano centinaia di cantieri privati. Dopo oltre un secolo di cura del mattone, di espansione continua, disordinata e spesso immotivata, oggi Roma è una città ricca di scheletri di palazzi mai finiti, di bandoni di metallo che racchiudono aree di futura edificazione mai edificate, di strade che terminano nel nulla. A questo si aggiungono i vecchi edifici abbandonati per avviare lavori di ristrutturazione mai avviati, le fabbriche dismesse, le rimesse di automezzi non più operative, in cui spesso si cominciano lavori di riqualificazione, che però vengono presto lasciati incompiuti, per mancanza di fondi o per cambi di programma.

Il nuovo fiore all’occhiello, che negli ultimi anni sta dando di Roma l’idea di un enorme cantiere a cielo aperto, è poi l’usanza, sempre più diffusa, di non coprire subito le buche che si creano nell’asfalto cittadino (visto che spesso non ci sono i fondi sufficienti per avviare i lavori, o non è chiaro quale ente pubblico o privato debba occuparsene, con lunghi rimpalli di responsabilità), bensì di circondarli con bandoni di plastica arancione, con transenne, con strisce bianche e rosse, con cartelli triangolari su cui sono dipinti degli omini neri, che restano ad abbellire quei viali per interi lustri.
Oppure, come accaduto dalle parti del mercato di Valmelaina, di fronte al problema di una strada dissestata, vengono dipinte a terra delle eleganti strisce gialle di lavori in corso, una soluzione provvisoria che sta provvisoriamente dando indicazioni agli automobilisti di passaggio da circa cinque anni.

Con una popolazione la cui età media è sempre più avanzata, viene quasi da pensare che tutto questo non sia il frutto dell’improvvisazione o dell’approssimazione con cui viene gestita la città, bensì risponda a una precisa e lodevole scelta, di notevole valore sociale: fornire agli anziani, sempre più numerosi, la possibilità di uno svago da loro molto apprezzato, come è quello di guardare i cantieri, di cui la città è ormai sempre meglio fornita, in ogni sua zona e per periodi sempre più lunghi.

Gli “umarell”, così vengono chiamati da qualche anno quei vecchi che trascorrono gran parte delle loro giornate ad osservare i cantieri. E’ un neologismo inventato nel 2005 da Danilo Masotti, un blogger emiliano (in dialetto bolognese “umarell” suona un po’ come “uomo da poco, omuncolo”), che qualche anno fa ha letteralmente inventato questa parola e questa categoria umana, diffondendola poi in tutta Italia grazie alla rete, con immediato e grande successo.

Se oggi a Bologna esiste un “Premio Umarell” e persino una “Piazzetta degli Umarell” (inaugurata nel 2018), è sicuramente Roma la città in cui la “filosofia degli umarell” sta ottenendo il più grande successo, ai più alti livelli istituzionali. Fino a pochi anni fa, infatti, le comunicazioni ufficiali da parte del Campidoglio avevano per oggetto le grandi decisioni politiche, sociali, le più importanti trasformazioni che i vari sindaci avevano previsto per la città e di cui volevano portare a conoscenza i romani, ma oggi non è più così, oggi si parla, quasi sempre e quasi solo, dei piccoli cantieri cittadini.

Osservando le pagine ufficiali della sindaca Virginia Raggi e dei membri della sua giunta, la maggior parte delle informazioni per la cittadinanza non riguardano più le grandi scelte per Roma, i “massimi sistemi”, bensì le piccole necessità del quotidiano, coi mille lavori in corso in città: la riasfaltatura di una strada, la sfalciatura dell’erba in un giardino pubblico, l’inizio della rimozione di sampietrini da una piazza, la ritintura della facciata di un palazzo, il tutto corredato da belle foto dei cantieri. E’ davvero musica celestiale per le orecchie e arte eccelsa per gli occhi di ogni “umarell” capitolino, cui la giunta in carica dimostra la propria vicinanza umana e la propria affinità spirituale. Fornendo, oltre tutto, la possibilità di osservare i lavori anche in modo “virtuale”, cosa assai utile in epoca di covid e di possibili lockdown.

Forse la sindaca ha letto Longanesi e vuole finalmente dimostrare che a Roma, anziché pensare alle faraoniche inaugurazioni, abbiamo finalmente cominciato ad occuparci delle quotidiane manutenzioni. Dunque è soprattutto di queste che si vuole dare conto alla cittadinanza. O forse la sindaca non ha letto affatto Longanesi, però non ha nessuna grande inaugurazione di cui potersi vantare ed è costretta a rifugiarsi su qualche piccola opera di manutenzione.

In entrambi i casi, noi romani siamo stati trasformati in tanti giovani e vecchi “umarell”, immobili e brontoloni ad osservare i lavori di riasfaltatura di qualche metro di strada, a dividerci sui social in “guelfi e ghibellini”, che si azzuffano per come viene realizzata una ciclabile, o ridipinta una striscia pedonale. Senza però più nessuno che riesca, non dico a comunicare, ma nemmeno a immaginare un’idea, anche minima, di sviluppo complessivo, economico, sociale, urbanistico, della nostra città.

 

[La foto del titolo è di Rumenta ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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