Abbiamo ancora bisogno di Tocci e Rutelli
Francesco Rutelli e Walter Tocci sono tornati a Roma. No, non per fare i candidati al Campidoglio. Sono tornati con due libri, usciti in contemporanea, molto differenti tra loro ma che condividono, alla fine, un’idea di fondo: e cioè, che per salvare la città, anche nella sua quotidianità disgraziata, occorre pensare in grande, riportare Roma alla sua dimensione internazionale e coltivare la sua millenaria vocazione al pluralismo.
Ecco, se siete pigri e volete solo un giudizio sintetico, un tweet, potete fermarvi qui.
Però, la questione merita più attenzione di quella che si potrebbe voler riservare a due “vecchi politici” romani che si dilettano a scrivere libri che, tanto, come si sa, “non legge nessuno”.
Prima di tutto. Rutelli e Tocci sono stati i principali protagonisti dal Campidoglio di una svolta importante, quella del 1993, quando Roma scelse, nella prima elezione diretta del sindaco, un’inedita alleanza arcobaleno: perché c’erano il rosso e il verde, ma anche il rosa delle donne, il bianco dei cattolici, e tanti altri colori.
Fu un fatto politico, ma anche civico, importante. Perché quella linea aveva un consenso vasto nella Capitale, univa centro e periferie. Una linea che trasformò Roma in alcuni anni, ammodernandola, portandola fuori dalle secche degli anni Ottanta, che avevano fatto di Milano la città da Bere ma che nella Città Eterna portarono solo uno stanco riflusso.
due libri, usciti in contemporanea, molto differenti tra loro ma che condividono un’idea di fondo: per salvare la città, anche nella sua quotidianità disgraziata, occorre pensare in grande, riportare Roma alla sua dimensione internazionale e coltivare la sua millenaria vocazione al pluralismo
La svolta però – e questo ovviamente lo diciamo col senno del poi – non arrivò fino al punto di trasformare in modo radicale, profondo, strategico, la città dal punto di vista sociale, generazionale, di ricomporre davvero la città consolidata, quella dell’Anello Ferroviario, della Fascia Verde, e la sua “Corona”. Come si è visto poi nel 2008, quando a vincere le elezioni è stato il leader della cosiddetta “destra sociale” Gianni Alemanno, proprio contro il Rutelli Reloaded. In quel momento l’elettorato romano si è probabilmente anche sentito tradito dalla nomenclatura del centrosinistra e dalle sue operazioni politiciste: non solo Walter Veltroni lasciava la città in anticipo sulla scadenza del mandato, ma si ricandidava un ex sindaco che nel frattempo aveva fallito l’obiettivo nazionale (ora ci torniamo).
Nel 2013, quando Ignazio Marino aveva sbaragliato alle primarie i candidati figli del Modello Roma (cioè del sistema di centrosinistra), si era parlato di populismo. Ma l’elettorato in realtà aveva dato al centrosinistra un’altra chance. Peccato che quell’esperienza, pure coi suoi limiti (che non erano pochi) fu vanificata in soli due anni dai contrasti di potere nello stesso Pd. E così si è arrivati al 2016, quando i romani hanno votato massicciamente per una sconosciuta la cui lista prometteva un cambiamento radicale contro “quelli di prima”.
Dicevamo del Rutelli Reloaded. Il Rutelli tornato alla politica capitolina nel 2008 non era il politico giovane ma insieme esperto del 1994, né il popolare sindaco che l’aveva lasciata nel 2001, prima della scadenza del secondo mandato, convinto di essere una promessa nazionale.
Dopo una serie di (ulteriori) cambi di sigle politiche e di incarichi nazionali, Rutelli era invece diventato, suo malgrado, una promessa mancata. Un personaggio politico di un certo livello – a un certo punto vicepremier e poi candidato premier del centrosinistra – visto però a un certo punto con indifferenza se non con ostilità da larga parte della stessa opinione pubblica di centrosinistra che un tempo lo aveva amato. E nonostante questo, alle elezioni municipali del 2008 Rutelli ottenne al ballottaggio, è bene ricordarlo, oltre il 46% dei voti. Un risultato che fotografò una città divisa e con una forte astensione, soprattutto a sinistra.
Dopodiché, Rutelli abbandonò il Pd (con una riflessione non scontata ma non abbastanza articolata sulla sinistra, nel libro del 2009 “La Svolta”) e tentò inutilmente la strada di un centrismo tutto sulla carta, quello di Alleanza per l’Italia, l’ennesimo partito che non decollò mai. Dopo aver lasciato la politica – o quel genere di politica – Rutelli si è dedicato ad altro, ed è rifiorito, in fondo.
Ma torniamo a oggi, e ai libri.
Walter Tocci, prima presidente di Municipio negli anni Ottanta, poi vice sindaco dal 1994 al 2001 (quando il governo di Roma passò alla squadra di Walter Veltroni: e sulle differenze tra prima e dopo forse non si è ancora indagato abbastanza, descrivendo invece il Rutelli-Veltroni come un unico passaggio storico-politico), poi parlamentare Ds e Pd fino alla rottura definitiva con il renzismo – che non aveva mai sopportato – è sempre stato il teorico, nella coppia che formava con Rutelli, ed è rimasto uno che studia, un ricercatore, che del resto è stata la sua professione giovanile.
Pur essendosi occupato di tanti temi – dalla scuola alla scienza, passando per le riforme istituzionali e i trasporti – Tocci ha continuato a cercare di capire Roma, come funziona la città e cosa non ha funzionato nell’esperienza di governo di quelli che lui chiama “i sindaci del consenso”. Un’esperienza che ovviamente è anche la sua: perché se è vero che è stato Goffredo Bettini a inventare la formula politica di governo di quegli anni, il modello Roma di cui parlavamo, è vero anche che è stato Tocci il teorico e l’attuatore di cose importanti come la cura del ferro, tanto per citarne una, cioè l’uso delle ferrovie (e del tram) per ricucire l’enorme territorio romano.
E Tocci – il cui nome è stato lanciato ogni tanto da qualcuno per il Campidoglio – non ha mai smesso di continuare a fare proposte politiche e istituzionali per la città, pur se spesso in solitudine. L’ultima, quella di una lista unitaria del Pd (o meglio del centrosinistra) e del M5s, ma senza simboli. Ma sul tavolo c’è anche la proposta di fare dell’enorme sprawl romano, dell’unione della città e della sua provincia, una Regione. Come Bruxelles, città e regione-capitale del Belgio, composta da numerosi Comuni. Un’idea diffusamente spiegata nel suo nuovo libro, “Roma come se” (Donzelli editore, 25 euro, 263 pagine).
“Roma come se” è la continuazione ideale di “Non si piange su una città coloniale”, il volume del 2015, ed è in sostanza la ricerca di un futuro per la Capitale, come recita il sottotitolo, partendo da un’analisi dettagliata delle tendenze che emergono dalla sua storia negli ultimi 150 anni, cioè dalla “conquista” di Roma da parte del neonato Stato unitario (di qui la definizione di coloniale, che è originariamente di Pier Paolo Pasolini). E c’è una quantità di riflessioni interessanti, sulla “città statale, senza statualità”, sulla lingua (il neoromanesco e l’italiano de Roma), sulle invenzioni dell’antagonismo giovanile, su Renato Nicolini e su numerosi altri spunti.
Un libro che sta nell’attualità, perché parla dell’emergenza Covid e del suo impatto su Roma, e che propone una visione di governo che potrebbe essere adottata da una nuova coalizione arcobaleno. Se esistesse, e se non fosse, come sembrerebbe oggi, una confederazione instabile di signorotti, maestrini e manager de noantri.
Aldilà delle proposte specifiche (ce ne sono tante: non è la lista della spesa, ma una discussione ragionata), quelle che Tocci invoca sono “nuove ambizioni” per Roma, che è sempre stata una città-mondo, a partire dalla capacità di accogliere gli altri, di garantire il pluralismo etnico e religioso.
Il libro di Rutelli, “Tutte le strade partono da Roma” (Laterza editore, 16 euro, 235 pagine), si presenta come una specie di memoir: racconta la grandezza della città, la sua importanza nel mondo e nella cultura, intrecciando l’aneddotica romana, sui luoghi e le storie della città classica, con la narrazione personale e familiare, nel più classico Rutelli style, quello piacione (perché Rutelli lo è; come è ogni tanto davvero il personaggio à la Sordi delle imitazioni di Corrado Guzzanti, oltre a essere capace di dialogare con persone di ogni rango, provenienza, cultura, etc: l’ho visto in azione da sindaco, dalle borgate ai ricevimenti internazionali, ed era impressionante). Se date solo un occhio all’indice dei nomi nel libro, ve ne rendete conto subito: riesce a citare potenti della Terra attuali e passati, intellettuali e artisti, banchieri, scienziati di fama mondiale, ma anche politici romani, con cui ha scambiato magari soltanto una battuta.
Tanto il libro di Tocci in fondo, parla di noi, ed è fin troppo ricco di note e citazioni bibliografiche dettagliate, tanto quello di Rutelli è concentrato sul proprio sé, sulla rivendicazione della propria storia e delle proprie relazioni.
Rutelli oggi è il presidente dell’Anica (l’associazione dei proprietari dei cinema), e, come dicevamo, ha lasciato la politica in senso classico, ma si è riavvicinato al mondo del centrosinistra e dell’ambientalismo, si occupa soprattutto di soft power e ha fondato una specie di “scuola” per giovani aspiranti amministratori (che qualche maligno chiama la Frattocchie dei giovani moderati, riferendosi alla storica scuola di formazione dei giovani del Partito comunista).
E nonostante le premesse che facevo, nel suo libro si ritrova però a un certo punto una tensione vicina a quella che c’è nello scritto di Tocci. Il senso della squadra (perché non si governa da soli), l’importanza dello “spazio pubblico” e della “regia pubblica”, la comprensione che non si può fare buona amministrazione senza una visione strategica e senza al tempo stesso senza lavorare su un orizzonte temporale definito, la necessità di far dialogare tra loro gli “strati” di cui è composta questa vecchia città sempre sull’orlo della decadenza (che è stratificata per definizione), l’impossibilità per Roma di rinunciare al pluralismo di cui parla anche Tocci. E anche nelle proposte, perché ce ne sono anche nel libro di Rutelli, per quanto indicate rapidamente: ogni tanto si ha l’impressione che l’ex vice sindaco e l’ex sindaco scambino ancora suggerimenti e idee. O forse, più semplicemente, è quello che potremmo definire “comune sentire”. Che sarebbe saggio almeno ascoltare, mettendo da parte preconcetti e astio.
[La foto del titolo è di Jacques Lebleu ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]