Roma, la mia macchina del tempo
Dal 9 luglio mi sono trasferita a Roma, praticamente in fuga da una New York impoverita, diminuita e intristita dal Covid-19. Rientro a casa per qualche anno, mi sono detta. Anche se sono nata a L’Aquila dove ho passato infanzia e adolescenza, per me Roma è casa. All’inizio pensavo che sarei scivolata nella mia condizione di residente, dotata di certificazione ufficiale, con la facilità e la noia con cui si infilano le pantofole. E invece quando oggi cammino per le strade, a cominciare dal mio quartiere, mi trovo spesso in uno stato di eccitamento.
[Questo post è stato pubblicato origininariamente su Fogli e Viaggi]
Cercando come meglio illustrare cosa mi succede, mi viene in mente la bilocation di Francisco Goldman nel suo meraviglioso romanzo The Divine Husband, che intreccia la vita del personaggio immaginario della giovane Maria de las Nieves e quella dello storico, realissimo, poeta e patriota cubano José Martí – una possibilità tutta letteraria di poter vivere allo stesso tempo in posti diversi. A Roma, io vivo nello stesso posto ma viaggio nel tempo.
Questa settimana, per esempio, il Tevere è in piena, e tutte le banchine sono sott’acqua. Passando sul Ponte Cavour, alla fine di via Tomacelli, sono all’asciutto ma guardando gli alberi immersi nel fiume mi ritrovo indietro di quattrocento anni, quando le banchine non c’erano proprio e neanche il ponte. È da queste parti che Plautilla Ricci, l’architettrice, si innamora di Elpidio quando la barca che attraversa il Tevere viene ribaltata dalla corrente del fiume in piena e loro si ritrovano abbracciati sul fondo. Il lungotevere mi sembra improvvisamente irreale, un’alterazione innaturale della discesa di terriccio e detriti al Porto di Ripetta.
Quando esco dal portone di casa sento dilagare l’odore non dell’immondizia che pure a Roma abbonda, ma dei “miasmi: vapori di vino, erbe putride, urina, bulicanti dall’acqua marcia che infettava gli scalini melmosi dell’antico porto” che non esiste più, ma di cui ho sentito parlare da Lenòr, l’undicenne Eleonora Fonseca Pimentel, che viveva proprio dietro casa mia. È la scena cinematica sul porto fluviale di Ripetta che apre Il resto di niente di Enzo Striano a permettermi questa bilocation. Nello stesso luogo vedo Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, che grande e grosso com’è trasporta casse di vino dei Castelli dalle barche alla sua osteria, quasi di fronte alla casa di Lenòr, ma diversi decenni dopo.
La giovane nobildonna e l’oste furono giustiziati perché combattevano per la repubblica: la prima a Napoli, il secondo sulla via di Venezia con Garibaldi, dopo aver perso a Roma. Mi sento un po’ più eroica all’idea che i miei vicini di casa erano dei “martiri” della libertà, come si legge sulle placche commemorative. Cambiando secolo, in uno dei portoni adiacenti si sale all’appartamento da dove scappava, per non farsi arrestare dalla polizia fascista, la moglie di Ruggero Grieco, il Bordighiano fondatore del Partito Comunista in esilio tra la Svizzera e Mosca. Con lei erano i bambini, tra cui Bruno, critico teatrale dell’Unità che dopo la guerra abitò sul mio pianerottolo. Con questi personaggi mi sento praticamente in famiglia.
La bilocation temporale funziona. Nonostante i rapidi spostamenti da un secolo all’altro non mi disorienta. Anzi, mi radica sul luogo come non sarebbe stato possibile senza questi compagni immortali che danno senso al mio rapporto con la temporalità e di conseguenza la mortalità. Non sono tutti personaggi noti. Quando passo davanti alla chiesa di San Girolamo degli Illirici, proprio lí su via Tomacelli e Ripetta, mi chiedo se ci fossero anche Albanesi tra i profughi dei Balcani sbarcati a Roma dopo la battaglia del Kosovo e l’invasione Ottomana, accolti dal Papa con il dono di questo pezzo di terra dove poi costruirono la chiesa.
Da vent’anni mi occupo di Kosovo, proprio quello della famosa battaglia del 1389 tra forze cristiane e ottomane. Ho anche scritto un libro sulla praticamente sconosciuta epica albanese che celebra l’assassino del Sultano Murat I, Milosh Kopiliq, come eroe albanese, una sorprendente sovversione della più nota leggenda Serba, centrata sull’assassino Serbo del Sultano, Miloš Obilić. La verità è che nessuno sa con certezza chi abbia ucciso il Sultano. Ma più d’uno si arroga la paternità dell’assassino, come è del resto normale quando si parla di regicidio, in questo caso, azzardando un neologismo, “sultanicidio.” I serbi da qualche secolo hanno costruito sulla battaglia del Kosovo addirittura il mito di fondazione della loro nazione come baluardo contro il selvaggio oriente islamico, che include gli albanesi, in Kosovo al 99% mussulmani. Questo mito si regge su due pilastri: il principe Lazar, che preferisce la morte alla resa, e Obilić. È praticamente impossibile convincere i Serbi che andrebbe fatta una distinzione tra storia e mito e che a combattere gli Ottomani alla fine del 1300 c’erano anche gli albanesi, convertiti all’Islam solo diversi secoli dopo.
I miei amici del Kosovo hanno trovato divertente che di tutti i luoghi dove avrei potuto abitare a Roma mi trovi a due passi dalla chiesa dei profughi dai Balcani. Per me è un segno del destino: il Kosovo mi ha seguito fino a via Tomacelli. Passo davanti alla chiesa ogni volta che vado al mercato della frutta e verdura in piazzetta Monte D’Oro, uno dei luoghi dell’architettrice. Dovrei sentirmi più vicina a Plautilla e ripercorrere con più solerzia le sue deambulazioni nel quartiere, ma da quando ho riletto Il Conte di Montecristo l’architettrice ha perso un po’ della sua attrazione.
Solo un isolato a nord della chiesa di San Girolamo c’è via dei Pontefici, dove la banda di Luigi Vampa mette in scena il rapimento del visconte Albert de Morcef, figlio di Mondego e Mercedes, durante il Carnevale del 1829. Attirato da Teresa, la donna di Vampa, Albert si allontana dal traffico di carrozze di via del Corso e così viene catturato. Via del Corso, con i suoi negozi kitsch e soprattutto sotto Natale con le sue decorazioni pacchiane non mi sembrerà mai la stessa dopo il racconto travolgente del Carnevale romano di metà ottocento fatto da Dumas. Svoltando da via del Corso in via Vittoria si va al Carrefour, ma è proprio lì che svolta anche la carrozza del Conte quando comincia la corsa dei cavalli e bisogna sgombrare la strada. È questione di pochi minuti, poi si torna allo “struscio” delle carrozze. Per sapere chi ha vinto bisogna aspettare i colpi di cannone sparati da Castel Sant’Angelo in numero pari a quello che contrassegna il cavallo vincente.
Non so se affitterei una camera a Piazza del Popolo sopra l’attuale bar Canova, come fa il Conte di Montecristo, per assistere alle esecuzioni che aprivano festivamente il Carnevale. Quando oggi gli agenti immobiliari parlano del Tridente, l’area urbana che si apre a partire dall’incrocio di via del Babuino, via del Corso e via di Ripetta, fanno gli occhi a dollari come nei cartoni animati, decantando le virtù di un quartiere elegante. Duecento anni fa, all’imbocco del Tridente, si alzava il palco delle esecuzioni. Il popolo faceva da spettatore in piazza, i nobili e i ricchi dalle finestre. I condannati passavano la notte a Santa Maria del Popolo, chiusi dentro una cappella, e il giorno dopo attraversavano Piazza del Popolo, tutti in fila dietro al boia e le confraternite incappucciate. Sul palco, le opzioni erano la ghigliottina o la mazzolatura, una specialità dello stato Pontificio che consisteva nello spaccare il cranio della vittima con un maglio. È ovvio che la ghigliottina fosse una conquista civile.
Cerco di non vedere le lucine patetiche appese a mo’ di tetto su via del Corso. Come sarà stata la stessa strada durante la gara dei moccoli, alla fine del Carnevale? Invece delle lucine, c’erano migliaia di fiammelle, con tutti i festaioli a cercare di spegnere quelle degli altri e tenere in vita le proprie, fino all’annuncio della fine del Carnevale e il ritorno al buio completo della strada dell’Ottocento senza illuminazione.
[Anna Di Lellio, che è anche autrice delle foto nel post, scrive di sé: sono Aquilana di nascita, ma mi sento più a casa a New York, Roma, e Pristina. Un po’ accademica, un po’ burocrate internazionale, e un po’ giornalista. Ovviamente ho lavorato per l’Unità. Tra le mie grandi passioni giovanili c’erano lo sci, la lettura, i viaggi, il cinema e la politica. A parte lo sci, sostituito dallo yoga, le mie passioni attuali sono rimaste le stesse]
[La foto del titolo è di Andrés Nieto Porras ed è stata diffus asu Flickr.com con licenza creative commons]