Roma, lo stato dell’arte

Incontro Andrea Valeri a Palazzo Merulana, un luogo simbolo di ciò che l’arte e la cultura capitolina potrebbero essere, un esempio in totale controtendenza con quella Roma alla deriva e priva di iniziative che sempre più spesso si sente raccontare dai media. Tra i rari frutti positivi e concreti della cosiddetta “rigenerazione urbana”, Palazzo Merulana è infatti un museo, un luogo d’incontri e di eventi, nato nel 2018, che ha ridato vita agli spazi a lungo abbandonati dell’ex Ufficio d’Igiene. Un esempio virtuoso, subito premiato dal pubblico, che ne ha spesso affollato le sale, almeno fino allo scoppio della pandemia.

Esperto di politiche culturali, già assessore alla cultura nel Municipio Roma I Centro, durante la breve stagione della giunta Marino, con Valeri ci incontriamo per ragionare di cultura a Roma, di quanto importante essa sia anche per l’economia della città, di cosa è stato fatto negli ultimi anni, di ciò che occorrerebbe fare, per un settore che, insieme al turismo e al commercio, è fra i più fortemente colpiti dalla crisi pandemica.

Andrea Valeri, l’arte e la cultura sono in fortissima sofferenza: teatri, cinema e musei chiusi, eventi vietati dopo gli ultimi DPCM. Non si tratta solo di un grave perdita per lo spirito di una comunità, che dall’arte e dalla cultura viene ravvivato e nutrito, ma anche di un gravissimo problema economico e di occupazione. Cosa significa la cultura a Roma oggi? Quante persone e realtà coinvolge questo ampio settore?
L’intero comparto culturale in Italia produce circa 100 miliardi di euro di fatturato ogni anno e occupazione per più di un milione e mezzo di lavoratori, arrivando oltre gli otto milioni se si considera tutto l’indotto, con una crescita che, fino alla pandemia, era dell’1,5%, superiore a quella del complesso dell’economia (+0,9%). A Roma, in base ai dati di Unioncamere, circa il 9% dell’economia cittadina è mosso dall’industria culturale.
La Capitale, insieme a Milano, costituisce uno dei due maggiori poli nazionali del settore. Ora, purtroppo, questi dati rischiano di venire travolti dalla nuova situazione creata dal Covid che ha fatto emergere tutte le criticità che vi erano prima della pandemia, soprattutto la mancanza di politiche di sviluppo del settore e il mancato riconoscimento del ruolo sociale ed economico dei lavoratori della cultura. C’è sempre la tendenza a considerare la cultura come un qualcosa di superfluo e quindi di sacrificabile, anziché uno dei comparti fondamentali nella nostra società.

Quali interventi sono indispensabili per cambiare il segno di questa situazione? Qual è la priorità numero uno?
Sicuramente avere una visione organica e di lungo respiro, per rompere lo schema ormai incancrenito e assolutamente inefficace delle sovvenzioni e dei finanziamenti a pioggia, con fondi, tra l’altro, sempre più limitati, che risultano essere solo un palliativo e non risolvono, alla lunga, le vere esigenze strutturali dei vari comparti culturali. Occorre invece concentrare le risorse ed investire in politiche culturali di asset, che migliorino complessivamente la condizione di poter fare cultura e dare ad ognuno la possibilità di vivere del proprio lavoro.

A Roma, in base ai dati di Unioncamere, circa il 9% dell’economia cittadina è mosso dall’industria culturale

Naturalmente la scelta di dove allocare le risorse dovrebbe essere il frutto di una decisione condivisa con gli stessi operatori, in modo partecipativo. Occorre superare una volta per tutte la contrapposizione istituzioni/cultura, cedere un po’ della propria sovranità e arrivare insieme a scelte concordate insieme fra tutti i soggetti coinvolti.
Ho visto che il Ministro Dario Franceschini ha deciso di inaugurare a livello nazionale una serie di tavoli, finalmente aperti all’associazionismo, un dialogo che manca a Roma ormai da troppo tempo. Inoltre non tutti gli strumenti necessari hanno un costo. Ad esempio, la sburocratizzazione e la semplificazione dei permessi necessari non implicano una spesa, ma spesso sono un discrimine e scoraggiano l’emersione della proposta culturale. O la valorizzazione di ciò che già si possiede e non viene giustamente impiegato. Penso alle scuole di arti e mestieri del Comune di Roma, veri e propri centri di eccellenza per la formazione e la sensibilizzazione all’arte e alla cultura, capaci di instradare giovani alle arti, che si basano su grandi professionalità ma che da troppo tempo non sono valorizzate come meriterebbero.

Nonostante la gravissima situazione, so che tu resti moderatamente ottimista, ritieni cioè che questo problema possa ancora, se si opera correttamente, essere trasformato in una opportunità.
Sì, le crisi sono spesso un’occasione per riflettere sulle situazioni e per avviare nuove strade. Servono però alcune riforme fondamentali, riforme fin qui disattese, ma facilmente realizzabili, anche in tempi di crisi. Il merito indiretto che può essere attribuito a questa pandemia è di aver ancora di più fatto emergere le criticità dei vari settori della società e gli errori commessi nel passato. Penso alla sanità pubblica, ai trasporti, al sistema economico e alla tutela delle fasce deboli, ma anche ai problemi del settore culturale, flagellato ormai da anni da pesanti tagli e dalla mancanza di politiche di sviluppo.

Le crisi sono spesso un’occasione per avviare nuove strade. Servono però alcune riforme fondamentali, riforme fin qui disattese, ma facilmente realizzabili, anche in questi tempi

La cosa che appare ancora più incomprensibile è che i problemi, ma soprattutto le soluzioni sono noti, frutto di incontri, campagne, tavoli, che da anni si fanno sulla cultura con gli operatori del settore. Ma sembra che, ad ogni cambio politico, si ricominci da capo. Quello che sino ad ora è mancato è stato il coraggio politico di metterci mano in modo concreto. È la politica che deve dare un indirizzo all’amministrazione, non il contrario.  La crisi oggi mostra come tali questioni non siano più rinviabili e soprattutto stiano cominciando a far sentire più unito e più sindacalizzato un settore che tradizionalmente è stato spesso attraversato da molti personalismi. Rimanere divisi e in competizione l’uno con l’altro, non aiuta ad essere riconosciuti dalla controparte come interlocutore di peso.

Il comparto culturale deve essere trattato al pari di altri settori produttivi, al di là delle sue peculiarità? Di quali forme di sostegno ha principalmente bisogno?
Al pari di qualunque altro settore economico, se si è convinti e si vuole dimostrare di voler supportare la cultura, è giusto prevedere forme di defiscalizzazione al pari di quegli aiuti che da anni vengono erogati ad una qualunque impresa o azienda di altri settori, per consentirne la sopravvivenza e lo sviluppo. A Roma personalmente ho conosciuto più di 2500 realtà culturali, ma immagino che il numero possa essere tranquillamente 2 o 3 volte superiore. Il concetto è che un’amministrazione che volesse, non solo a parole, puntare sul rilancio della cultura, in una scarsità fondi da destinare, dovrebbe innanzitutto attuare forme di agevolazione fiscale come riconoscimento del valore produttivo di questo comparto, attraverso l’ammortamento delle voci Tosap e Cosap, estendendo a tutti i teatri, i cinema, le librerie, le associazioni e le fondazioni culturali un credito di imposta per gli affitti degli immobili e l’esenzione dell’Irap.
In questa direzione, ad esempio, ha cominciato a muoversi la giunta di centrosinistra del Comune di Milano che, già da tempo, tra diverse misure introdotte, ha dimezzato i canoni di locazione per gli immobili pubblici adibiti a librerie.

Il settore pubblico quali altre risorse deve mettere in campo?
Un punto importante è quello del riutilizzo del patrimonio pubblico dismesso per quella che io chiamo Piano regolatore culturale per la città di Roma. Occorre ripartire dai territori, verificando i bisogni in termini di assenza culturale per riconvertire gli spazi inutilizzati, realizzando biblioteche, cinema, teatri, centri di produzione culturale, ribaltando lo squilibrio che esiste tra centro e periferia. La rigenerazione urbana del patrimonio pubblico costituisce una delle sfide centrali di un’amministrazione che voglia sviluppare politiche di asset culturale. Una ricchezza che non può essere gestita solo per fare cassa, o peggio ancora, alienata a privati, ma ripensata sull’intera città per fornire in tutte le zone servizi culturali al territorio che spesso laddove ci sono svolgono una funzione di surroga in termini di aggregazione e promozione sociale che l’amministrazione, soprattutto nelle zone più periferiche non è in grado di garantire.

Un’amministrazione che volesse, non solo a parole, puntare sul rilancio della cultura, in una scarsità fondi da destinare, dovrebbe innanzitutto attuare forme di agevolazione fiscale come riconoscimento del valore produttivo di questo comparto

Occorre pertanto partire da un censimento e una mappatura degli spazi utilizzabili e dalle necessità di un determinato quartiere, creando nuovi centri di produzione culturale, che garantiscano al tempo stesso il mantenimento della natura pubblica del bene, la sua funzione sociale e culturale e la messa a disposizione di spazi per operatori, studenti e cittadini. Spazi per la realizzazione e la diffusione di progetti, alla multiculturalità da istituire in maniera decentrata e valorizzando le istanze di auto-organizzazione delle realtà sociali già attive. Sino ad oggi si è assistito invece ad un’azione dell’amministrazione indirizzata nel senso opposto, con revoca delle concessioni a numerose associazioni culturali e chiusura o sgombero di spazi autogestiti. Una battaglia da portare avanti, invece, deve essere quella del pieno recupero e della valorizzazione a fini sociali e culturali del patrimonio immobiliare non utilizzato, sottratto al profitto e considerato come bene comune da rendere disponibile alla collettività. Se il patrimonio è pubblico deve essere un bene fruibile da tutti e non un profitto per pochi.

Durante i tuoi anni da assessore alla cultura, hai spesso portato avanti il concetto di “Distretto Culturale Evoluto”, facendone il faro della tua azione politica. Hai spesso detto che è questa una delle più impellenti necessità per far crescere la cultura a Roma. Ci spieghi in breve di che si tratta?
È un ecosistema culturale integrato tra risorse e necessità da parte degli operatori culturali. Da assessore mi sono accorto che speso le esigenze che mi venivano richieste erano tra loro complementari come ad esempio teatri senza pubblico e associazioni o artisti con un grande seguito ma senza una sede. Attraverso la messa in rete delle realtà culturali spesso è possibile soddisfare le reciproche necessità ed inoltre creare progetti articolati che vadano oltre le individualità, in grado di attrarre capitale privato. Da questo punto di vista un’amministrazione deve essere un facilitatore, un fluidificante di questi scambi, sia per il ruolo che riveste, sia per la possibilità di intervenire nella rimozione di quei vincoli burocratici ed economici che impediscono il fare rete. Qualcosa già sperimentato in molte città d’Europa e di cui Roma avrebbe molto bisogno.

Il più noto assessore alla cultura della storia di Roma, Renato Nicolini, diceva che “Roma crea immaginario, non vende e non compra”, intendendo con questo che è soprattutto la cultura, l’arte, l’immaginazione, più che l’economia classica, quella fatta di industrie e di commercio, il vero motore della città. Sei anche tu di questo parere?
Diciamo che il vero motore economico per questa città dovrebbe essere il turismo, o meglio i turismi come mi piace pensare: una differenziazione dell’offerta turistica che Roma può offrire e che spinga i visitatori non solo a venire per il giro canonico di due giorni e mezzo di media, ma anche a tornare come succede in molte capitali europee.
Legato al turismo c’è un grande indotto, fondamentale non solo per i servizi turistici o quelli alberghieri, che produce reddito per molte categorie, come ad esempio il commercio e la ristorazione, la cui crisi è strettamente legata al quasi azzeramento dei flussi turistici durante il Covid.
La cultura invece è la cartina al tornasole del benessere morale e materiale di una città: maggiore è l’effervescenza culturale, la qualità degli eventi e la sua natura diffusa per il territorio, maggiore è il suo stato di buona salute rispetto a decadenza e degrado sociale e maggiore la partecipazione dei cittadini alla vita sociale ed artistica di una città.

La cultura è la cartina al tornasole del benessere morale e materiale di una città

In conclusione, cosa ti auspichi per la città e per chi a Roma si occupa di cultura?
Che si smetta di perdere tempo, almeno a sinistra, in una discussione tutta incentrata sul nome del candidato e si lavori invece ad una proposta credibile di governo e di trasformazione di questa città, coinvolgendo le migliori competenze e le migliori esperienze che nei diversi settori, anche in questi tempi difficili, hanno saputo portare avanti con esempi di buone pratiche dal basso. Occorre rimuovere definitivamente il modello Roma e lavorare invece per una Roma modello, fatta di riscatto, innovazione e modernità, al pari delle altre capitali europee.

 

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