L’indagine scatologica: epilogo

Ultima puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica”. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.
Prossimamente, tutti i capitoli saranno raccolti in una versione gratuita, sia pdf che ebook, scaricabile dal sito di Roma Report.

 

25 dicembre

 

Se c’è una festa che rispettano tutti, ladri e infami compresi, è Natale. Perché Natale, be’, è Natale. Dunque, chiamate poche, reati quasi zero. Al massimo, qualche cretino che si fa male con i botti. Qualche incidente stradale. Qualcuno che alza il gomito. Certo, c’è anche chi sbrocca, magari durante il cenone o il pranzo, e vorrebbe ammazzare il suocero, la cognata o tutta la parentela. Ma non succede quasi mai. Al novantanove per cento. Assicurato.

Ecco perché Mario Marco aveva chiesto di tornare a lavorare, proprio il giorno di Natale. Magari qualche collega avrebbe pensato che fosse per una questione di soldi. Qualcun altro lo avrebbe ringraziato per la gentilezza. Ma per Mario Marco non era un gran problema. Tanto, sapeva di poter stare tranquillo. E poi non aveva famiglia, nessun impegno. Galletti l’aveva invitato a pranzo dai suoi, ma il vicecommissario aveva gentilmente rifiutato. Meglio non intristirsi troppo. Aveva telefonato al padre, a un paio di zie, a due o tre vecchi amici. E naturalmente a Lidia. Poi si era messo a guardare il circo di Mosca alla tv. Una vecchia abitudine.

 

26-27 dicembre

 

Mario Marco era diviso a metà. Una parte camminava a passi veloci sul lungomare, l’altra si limitava a seguirne i passi, si guardava attorno distratta.  Le onde, invisibili dietro la fila delle cabine e l’inferriata rovinata dalla salsedine, facevano un rumore strano, come un furgone con la marmitta rotta. Gli vennero in mente le parole di una canzone: Cammino come un dissidente, un deragliato, come un disertore, senza nemmeno un cappello o un ombrello…

Si era addormentato nel pomeriggio, esausto. Si era risvegliato poco dopo in preda a un’altra crisi di panico. Aveva smaniato a lungo. Alla fine, aveva vomitato. Con lo stomaco contratto, si era costretto a uscire. Era già buio.

Le vide. Le due donne camminavo una dietro l’altra senza parlare. Una si reggeva con la mano il cappello, l’altra teneva gli occhi bassi. Quando li alzò, e si accorse della presenza di Mario Marco, ritrasse la borsa e se la portò a un fianco, con la mano stretta sulla fibbia. Il vicecommissario la guardò con un sorriso storto, e continuò a camminare. Mi ha preso per un ladro, pensò. Poi si fermò, tornò indietro.

– Signora – disse quasi con un lamento. La signora si arrestò, anzi frenò all’istante, come una macchina con il motore a pieni giri e il freno tirato, con i piedi che volevano avanzare e il busto che invece no, tirava all’indietro. Sotto la luce del lampione, voltò la testa, solo la testa, verso di lui.

– Signora, se la tiene così, la borsa gliela fregano lo stesso.

– Scusi? – disse quella, con l’aria preoccupata, sempre in quella posizione innaturale. Adesso le viene il torcicollo, pensò Mario Marco.

Il commissario avanzò di un altro passo. – La borsa… se fossi stato un ladro, gliel’avrei portata via lo stesso – e allungò una mano per dimostrarglielo – Se la deve mettere attorno al collo, sennò gliela strappano – Aggiunse.

Adesso anche l’altra donna, quella che camminava più in fretta, si era fermata, perché le sue chiacchiere non trovavano risposta. – Meri? – chiamò con voce incerta. Meri si girò verso di lei, poi guardò Mario Marco, con la bocca aperta.

– Signora, ha capito che le ho detto? La borsa – indicò l’oggetto che la donna adesso teneva stretto con tutte e due le mani.

– La borsa non deve portarla così. Eppoi quegli orecchini lunghi… – La donnà si portò istintivamente una mano all’orecchio sinistro, toccando il lobo con due dita: – Che c’entrano gli orecchini?

– Meri? Andiamo? – disse l’altra donna.

Mario Marco non ci fece caso. – Non li legge i giornali? Se passa un malintezionato, le strappa gli orecchini dai lobi. Le fa un male cane. Porti orecchini più piccoli, senza pendaglio, dia retta, se va in giro a quest’ora sul lungomare.

– Meri? Vieni via! – gridava adesso l’altra donna.

– Chi è lei? – si mise a strillare Meri.  – Guardi se ne vada, chiamo la polizia, chiamo la polizia!

– La polizia? – Mario Marco avanzò di un altro passo. – La polizia? Sono io la polizia! La polizia! Chi chiama lei, la polizia? Sono io la polizia!

All’improvviso la donna si voltò e si mise a correre, tenendo con una mano il cappello e con l’altra la borsa.

– Sono io la polizia! Sono io la polizia, signora! La sto aiutando!

Fu più o meno in quel momento che la vide. O meglio, fu in quel momento che scoprì una figura scura, esile, in cima al pontiletto, uno dei tanti che costellavano la spiaggia in quel tratto, mangiati dall’acqua e dall’incuria. Magari è lei, pensò, magari fosse lei.

Milva non riusciva a stare in piedi. Si staccò barcollando dalla ringhiera. Per un attimo, Mario Marco pensò che sarebbe caduta in acqua, e che lui non sarebbe riuscito a salvarla in tempo. Rimase a guardarla nell’ombra. Il mare era molto mosso, soffiava e risucchiava, come un’enorme bocca.

Ogni tanto, lo spruzzo di un’ondata attraversava il pontile. Il commissario si chiese se la ragazza sarebbe riuscita a passare senza bagnarsi. A un certo punto Milva cercò di accendersi una sigaretta. Non ci riuscì, disse qualcosa – ma lui era troppo lontano per sentirla – e si accasciò per terra. Mario Marco si guardò attorno. Lei si rimise in piedi e continuò ad avanzare barcollando, trascinando la borsa per terra, cercando di accendersi quella cazzo di sigaretta.

Mario Marco si sentì improvvisamente stanco. Forse è il caso di tornare in albergo, pensò, sennò lo so come va a finire. Invece uscì dall’ombra e fece un cenno alla ragazza. Lei continuò a trascinarsi avanti. Si accorse di lui soltanto quando andò praticamente a sbattergli contro.

– Ah, sei tu – disse con la voce più tossica che aveva.

– Stai male. Vieni che ti accompagno a casa.

– Non voglio andare a casa.

– Fa lo stesso. Ti accompagno dove vuoi andare. Dove vuoi andare?

– Non lo so.

– Va bene. Ti accompagno lo stesso.

Erano naufragati nella stanza di Mario Marco, alla pensione. Infilati sotto le coperte, mezzi nudi.  L’ora precedente l’avevano passata in auto, girando a vuoto, ascoltando musica a basso volume. Milva era rimasta in silenzio. Mario Marco aveva provato a fare qualche domanda, a cui lei non aveva risposto. Poi aveva parlato praticamente da solo, finchè non si era sentito stupido e aveva smesso. Ma non riusciva a smettere di pensare a Bordone e alla ragazza insieme, a cosa c’era stato, se c’era stato qualcosa, tra loro. Questo, però, non glielo avrebbe chiesto. Non ancora. Non quella sera.

Inutile cercare un perché – diceva la radio – non c’è mai stato niente di inspiegabile. Tutto doveva succedere, niente sembrava possibile. Un imprevisto prevedibile, e la mente si fa labile. Ma saprò rispondere se mi vorrai chiedere qual è la versione integrale dei tuoi pensieri, qual è la traccia nascosta dei tuoi desideri.

Lei all’improvviso gli aveva chiesto di portarla da lui, aveva paura. Va bene, aveva risposto Mario Marco. Ho paura di addormentarmi da sola, aveva detto lei. Va bene, veglierò su di te, aveva detto lui.

– Perché fai il poliziotto?

– Che cazzo di domande che fai, certe volte – Mario Marco continuò a guardare il soffitto.

– No, davvero, perché fai il poliziotto? Perché non fai il musicista? O l’avvocato? O l’informatico, o il consulente, o l’arredatore, o l’imbianchino, o il fioraio…

– E basta! – sorridendo, sempre guardando il soffitto, Mario cercò con la mano destra la bocca della ragazza, a tentoni. – Perché fai tante domande?

– Perché, le domande le puoi fare solo tu? – chiese Milva, mentre aveva preso a mordicchiargli la mano.

– Volevo fare l’eroe.

La ragazza rise: – Che coosa?

– L’eroe.

Rimasero tutti e due in silenzio. Milva continuava a mordergli e a leccargli le dita, come un gatto.

– E adesso?

– E adesso che cosa?

– Adesso perché lo fai? Non vuoi fare più l’eroe, no?

– Boh. Non so fare nient’altro. Non so fare il musicista, l’avvocato, l’arredatore, il fioraio… – Mario si voltò verso la ragazza, accarezzandole il fianco nudo con la mano libera. – Potrei fare l’imbianchino, il pittore… quello lo so fare, quand’ero bambino ho imparato a mettere la carta alle pareti.

– Ti trovo un lavoro nella ditta di mio padre, allora. Un imbianchino serve sempre – Scoppiarono tutti e due a ridere.

Poi rimasero di nuovo in silenzio.

– E tu, perché fai… – Mario si interruppe.

– Cosa? Faccio cosa? – chiese Milva.

– Perché… Perché ti comporti così? Da pazza?

La ragazza afferrò strettamente la mano di Mario Marco, quasi a infilarle le lunghe unghie nel palmo.

– Non sono pazza. Penso – disse con un sorriso che voleva essere cattivo – Penso cose. Cose che non pensano gli altri. Le sistemo. Le ordino.

– E a che serve?

Milva ricominciò a stringergli la mano con forza.

– Serve. Per esempio, è da giorni che penso una cosa importante.

– Che cosa?

– Che nessuno muore veramente – La ragazza guidò la mano di Marco sul suo petto, tra i seni. – Che quando muori, stai sognando. Non che la vita ti scorre davanti come un film o stronzate così. Che fai proprio un sogno. E non ti accorgi di morire, perché resti dentro il sogno. Allora, sei morto per gli altri, ma non sei morto davvero. Perché sei nel sogno che ti sei creato. Capisci? – Milva si mise a sedere sul letto, appoggiata alla spalliera.

Mario Marco continuava a guardare il soffitto.

– Continui a vivere, come succede nei sogni. Certe volte è reale, ti sembra vero, certe volte sai che stai sognando, certe volte è tutto senza capo né coda, come nei sogni. Solo che c’è un pericolo.

– Quale?

– Che il sogno è brutto. Che soffri, stai male. Come se sei finito all’inferno. É quello lì, l’inferno. É un brutto sogno, senza che ti riesci a svegliare. Se invece fai un bel sogno, sei in paradiso. Ti va sempre bene. Più o meno. Non sempre sempre, abbastanza. Dipende tutto da come muori. Da quello che pensavi quando sei morto. E basta. Ecco perché voglio morire bene. Senza essere preoccupata.

Mario rimase in silenzio. Per un po’.

– C’é solo una cosa che non capisco – disse all’improvviso.

– Quale?

– Se è così, se quando muori non muori perché sogni… come fai a sapere che non sei già morta?

La ragazza si infilò di nuovo tra le lenzuola. – Magari sono già morta, perché questo mi sembra sempre un brutto sogno – disse. – Adesso dormiamo – E si girò dall’altra parte.

La luce filtrava attraverso le persiane, insieme al rumore. Mario Marco non riusciva a capire se facesse bello o se piovesse. Restando sdraiato, raccolse il suo orologio dal pavimento. Le sei e mezzo. Troppo presto per alzarsi. Solo allora si accorse che la ragazza non c’era, lì accanto. Tastò il materasso e sentì che era ancora caldo.

Sarà andata al bagno, pensò. Dal resto dell’appartamento non veniva nessun rumore. I vestiti di Milva erano sulla sedia.

Mario Marco si alzò. Mentre andava verso la porta, sentì il freddo del pavimento nudo sotto i piedi. Percorse il breve corridoio, e si fermò davanti alla porta del bagno. Pensò di bussare, poi invece si chinò per guardare dal buco della serratura. Dall’altra parte, c’era qualcosa di bianco, un asciugamano, che però non copriva interamente la vista. Guardò meglio, mentre il pene gli diventava duro.

La ragazza era china sul bidet, nuda. Stava maneggiando qualcosa, una busta. I capelli le cadevano sul viso. Sulle prime, Mario Marco non capì. Poi, all’improvviso, si rialzò e mise la mano sulla maniglia. La porta non era chiusa a chiave.

La ragazza lo guardò, senza dire nulla. Immobile. Indossava un paio di guanti di lattice, gialli. La busta sembrava contenere qualcosa di pesante. Mario Marco avanzò verso di lei, con la mano protesa. – Dammela – Sapeva già cosa c’era dentro.

che bontà, ma che bontà, ma che cos’è questa robina qua? Il ritornello gli venne in mente all’improvviso. Avrebbe voluto darsi un pugno in testa.

Erano tornati a letto, in silenzio. Il commissario teneva ancora in mano la busta. – Perché? – chiese sottovoce.

– Sono cazzi miei – rispose lei.

– Guarda che non ti denuncio, non lo dico a nessuno. Dimmi solo perché, per favore. Solo perché. Poi, se vuoi, te ne vai. O ti accompagno dove vuoi.

Milva prese a mordersi la pelle del pollice. – Che cazzo te ne frega? Ah, lo so perché. Perché fai l’investigatore.

Mario Marco avrebbe voluto prenderla a schiaffi. O baciarla.

Ping pong di sguardi.

– Tu lo sai qual è la cantante preferita di mio padre? – chiese la ragazza all’improvviso.

Ecco, adesso facciamo una bella sterzata nel surreale, pensò Mario Marco. Di nuovo.

– No, non lo so – Poi pensò al manifesto di Mina che aveva visto nel soggiorno del Geometra, la prima volta. – Mina? – chiese.

– Lo vedi? – la ragazza gli era balzata adosso. – Lo vedi? Lo vedi? – prese a colpirlo, mentre lui cercava di coprire il viso con le braccia.

– Che cazzo c’è? Che ho detto? Ferma, ferma, buona – Il vicecommissario la strinse nelle braccia, immobilizzandola.

Lei si calmò. O almeno lo sembrava, calma. Fin troppo. Poi cominciò a parlare come un automa: – Mio padre ama Mina. Conosce le canzoni a memoria. Compra i dischi. Tutti. I giornali con le foto di Mina. I giornali dove scrive Mina. I libri su Mina. Ecco perché ha chiamato Mina mia sorella. A me invece, m’ha chiamato Milva. Ma a casa non c’è un solo disco di questa cazzo di Milva. Manco una cassetta. Un 45 giri vecchio. E lo sai che fa papà, mio padre, quando c’è Milva alla televisione, o alla radio? Cambia canale. Lo so. Lo guardo di nascosto, da quando ero piccola. L’ho capito. Eppure, gliel’ho chiesto tante volte: papà, ti piace Milva? E lui mi ha sempre detto sì, sì, mi piace anche Milva. Ma non è vero, solo bugie. In realtà non gli piace, gli fa schifo. E allora, perché cazzo m’ha chiamato Milva? Perché non mi ha chiamato Nada, Rosanna, Caterina, che cazzo ne so? Perché non mi ha chiamato Mina pure a me?

Non è possibile, pensò Mario Marco. Sono diventato scemo per questa storia, mi sono sbattuto a destra e a manca, non è possibile. Cercò di accarezzarla.

– Lasciami – La ragazza si scansò, come se lui avesse un ferro bollente al posto della mano. – A te ti piace, Milva? – Non gli lasciò il tempo di rispondere. Manco mi ricordo che faccia ha, pensò lui. – Col cazzo che ti piace. E la sai una cosa? A me Milva mi fa schifo. Mi rompe i coglioni. Mi fa cacare. Mi sembra un travestito, con quella voce che c’ha – Scoppiò a ridere. – E lo sai come si chiama mio fratello? – disse ancora.

Mario Marco non rispose. Sono diventato scemo per questa cazzata, non ci voleva la polizia, ci voleva uno psicanalista, pensò.

– Si chiama Adriano. Come Adriano Celentano, no? E secondo te, a mio padre gli piace Celentano, eh, gli piace?

– Sì?

– Sì. Sì che gli piace. Solo Milva non gli piace.

– Tu sei scema, tu sei completamente pazza, tu sei… – Non riuscì a finire la frase. Lei lo colpì con un pugno, forte abbastanza da fargli male.

La ragazza si alzò e prese a rivestirsi. Mario Marco la guardò con la bocca ancora dolorante, senza sapere cosa fare. Avrebbe voluto trattenerla, dirle che aveva sbagliato, che non sapeva come comportarsi. Dirle che non la riconosceva, nel senso che non riconosceva in lei una persona normale. Normale poi che cazzo poteva significare, che voleva dire. Dirle che lei gli aveva messo paura, molto più delle altre volte, che tutta quella storia era ridicola, ma anche che era seria, abbastanza seria da farla stare male e da far stare male anche lui.

Dirle che aveva bisogno di lei, che aveva bisogno che lei restasse, che gli parlasse. Chiederle di dirgli che non era pazza, che gli desse una speranza, un filo, qualcosa per rassicurarlo. Chiederle di capire che lui aveva paura, ma che l’amava, che non poteva non amarla. Che sarebbe andato tutto bene. O almeno, dirle che lui ci avrebbe provato, a far andar bene le cose, anche se non gli piaceva Milva, la cantante…

Ma non disse nulla. Continuò a guardarla mentre si vestiva, mentre s’infilava il reggiseno dopo essersi messa i jeans, mentre cercava la maglietta sulla sedia.

Saltò giù dal letto, la prese da dietro e cercò di abbracciarla. La ragazza si liberò dandogli una gomitata sui coglioni. Poi, mentre lui si piegava in due, tirò fuori un coltello dalla borsa. Un grosso coltello da cucina, tipo film dell’orrore. Cazzo, pensò Mario Marco. Il commissario chiuse gli occhi un istante appena, immaginò il bruciore della ferita, contrasse lo stomaco. Non accadde nulla.

Riaprì gli occhi, ma la ragazza non era più lì. Sentì i suoi passi nel corridoio. Poi la porta che si chiudeva.

 

8 gennaio

 

Mario Marco era arrivato una decina di minuti prima dell’appuntamento, dalle parti di Montecitorio. Pioveva e faceva freddo, ma il commissario sudava lo stesso. Si era tolto la giacca a vento e se l’era ficcata sotto il braccio, mentre con l’altra mano reggeva l’ombrello e la borsa.

Guardò l’orologio, ma erano passati solo due minuti da quando era arrivato. Allora, decise di entrare nel grande bar-gelateria. Superò due carabinieri in divisa d’onore che parlavano del più e del meno, esitò un attimo tra il caffè e il gelato, poi ordinò un caffè. In un angolo c’era un deputato che aveva visto in tv, ma di cui non ricordava il nome. L’uomo stava parlando al telefonino, mentre con l’altra mano accarezzava una bionda vestita di nero.

– E tu gli dici che è una testa di cazzo, e che le teste di cazzo come lui noi ce le inculiamo, mica ci facciamo inculare, no?

– Lucaaaa -, disse sottovoce la bionda, con aria di rimprovero.

Il deputato alzò gli occhi divertito e portò l’indice al naso: – Shhhh…

Poi riprese a parlare col suo interlocutore telefonico: – No, ma allora è proprio un grandissimo rottoinculo, eccheccazzo…

L’uomo rise ancora, guardando la ragazza.

– Lucaaa – miagolò quella.

– Vabbe’, senti adesso non posso stare perchè tra un po’ c’ho l’interpellanza – l’uomo tirò sul col naso, e tornò serio – Tu però fa così, da’ retta, gli dici da parte mia, gli dici proprio così: ha detto l’onorevole che ti si incula. Hai capito? No, ripeti… sta cazzo di batteria si sta a scaricà… Ok, ok. Ti chiamo, sì, ciao.

– Lucaaa, così mi fai vergognare.

– Ma dai, ciccina, chi ci sta a guardare…. Dai, che ti compro le scarpe, che non ti posso vede’ sempre con quei scarponi, con gli anfibi.

– Ma non mi avevi detto che avevi un’interpellanza… Pensavo che dovevi tornare. –
– Ma no, glielo ho detto tanto per dire, quello è uno scassacazzi, e poi stavo con te.

– Lucaaa…

Il deputato sorrise di nuovo. Mentre usciva, incontrò lo sguardo di Mario Marco, e gli sussurrò un – buonasera, buonasera – come se lo conoscesse.

Il commissario guardò fuori dalla vetrina. Il professor Montagnani era lì davanti che leggeva “La Repubblica” mentre un ragazzo in trench gli teneva l’ombrello.

– Buonasera professore, sono Mario Marco. È passato un po’ di tempo.

– No, che dice, certo che mi ricordo – rispose, stringendogli la mano – il nipote di Claudio. L’ultima volta che ti ho visto… scusi, che l’ho vista…

– No, mi dia del tu, sennò mi mette in imbarazzo.

– Sì, però anche tu, siamo tra compagni, no?, o a fare il poliziotto sei diventato di destra? – Montagnani si mise a ridere.

Mario Marco sorrise anche lui, ma non rispose.

– Mi hai detto che mi dovevi parlare di una cosa delicata. C’entra col tuo lavoro? – chiese il professore.

– Sì – disse il commissario, poi guardò con aria interrogativa il tipo che reggeva ancora l’ombrello.

Montagnani se ne accorse: – Carlo scusami, devo parlare un po’ col signore. Tanto l’ombrello ce l’ha lui. Grazie, eh?

L’accompagnatore mormorò qualcosa, guardò Mario Marco e se ne tornò verso l’ingresso degli uffici della Camera.

– Andiamo a bere una cosa? – propose Montagnani.

Entrarono in una piccola enoteca. Gli unici clienti erano un uomo e una donna, ma non si girarono a guardarli. Mentre si sedeva, Mario Marco pensò di nuovo a quello che doveva dire. Il discorso se l’era già preparato una dozzina di volte, ma era troppo preoccupato di non riuscire a essere sintetico, e soprattutto voleva tenere fuori tutti i particolari personali. E, ancora una volta, gli venne un dubbio: stava facendo la cosa giusta? Montagnani era deputato con una certa esperienza, era alla Camera da due legislature, una persona per bene, un bravo compagno, gli aveva assicurato zio Claudio, che aveva fatto un gran lavoro in commissione Ambiente e Lavori pubblici, con un bel collegio elettorale, di quelli con percentuali bulgare. Vabbe’, al massimo mi ascolterà e poi non se ne occuperà. Non rischio nient’altro, si disse Mario Marco.

I convenevoli durarono un po’. E come sta zio Claudio, il lavoro, l’ingresso in Europa, l’opposizione, la crisi delle ferrovie, la lotta contro l’inceneritore di rifiuti, un altro condono edilizio?, lo stipendio e le diarie che non bastano mai, e invece la gente si immagina chissà quanto guadagni, mentre se calcoli i soldi della tassa della salute e tutto il resto, tuo padre non me lo ricordo bene, era quello che era forte a bocce, pensa che pure qui alla Camera c’è un club di bocciofili, e come va agli Interni?, siamo riusciti a togliere di mezzo un bel po’ di fascistoni, se tu sapessi com’era prima, una fogna, ti dico, una fogna, il colpo di Stato non l’hanno mai fatto perchè tanto…

– Be’, dimmi qual è il problema, Claudio non mi ha voluto accennare niente, ti vedo un po’ preoccupato.

Mario Marco raccontò del suo trasferimento a Ostia, del dirigente del commissariato e delle storie che aveva sentito su di lui, di Bordone e dei suoi legami con i Servizi, del Geometra e di Augusto Feroci, del materiale che aveva raccolto sulla proprietà dei terreni – e che aveva portato con sé, fotocopiato, passando la cartella al professore – dello scandalo che c’era dietro, anzi che ci poteva essere dietro, non vorrei mica sembrare un crociato giustizialista, sulla vicenda di Eurocartoon, dei miliardi che giravano, dei suoi dubbi su un’eventualità di denunciare tutto a un magistrato.

Quando il vicecommissario finì di parlare, Montagnani tirò fuori un’agendina dalla tasca, e scribacchiò qualcosa. Poi guardò Mario Marco: – Guarda, non so se posso fare qualcosa per farti trasferire. Non è proprio semplicissimo, però….

Il vicecommissario alzò una mano, rosso in volto: – No, aspetta, non mi sono spiegato, non volevo chiederti un trasferimento, non mi sarei mai permesso…

– Guarda, conosco tuo zio, e ho capito come sei fatto, anche se ti ho visto poco. Lo so che non me lo hai chiesto, lo so. Però, se questa storia è vera, forse non ti conviene restare lì, non vorrei che ti creassero dei problemi, mi preoccupo per te. Non è che siccome stiamo al governo, adesso, apprezzo le raccomandazioni. Quella lì è roba da democristiani, e va bene che pure noi siamo diventati un pochino diccì… – Sorrise. – Comunque, facciamo così – tirò fuori il portafogli, e fece un cenno al cameriere che gironzolava attorno – adesso io muovo i fili che posso muovere, e vediamo che si può fare. Se le cose stanno così come mi dici, questi qui bisogna fermarli. Ma tu non ti devi esporre. Lasciami il tuo numero…

Uscirono insieme dall’enoteca, aveva smesso di piovere. Montagnani guardò l’orologio, lo saluto con una pacca sulla spalla, e tornò al suo ufficio. Mario Marco s’incamminò verso via del Corso, in cerca di un telefono.

 

Epilogo

 

“Eurocartoon, ancora un ritardo”. A Mario Marco andò l’occhio su quel titolo mentre leggeva distrattamente al cesso l’edizione del giorno prima. La notizia non occupava molto spazio, si spiegava solo che la commissione comunale che doveva approvare il progetto, o una serie di varianti al piano regolatore, o qualcosa del genere, non si era neanche riunita per mancanza del numero legale, e a quel punto bisognava istruire di nuovo tutte le carte. Un consigliere dell’opposizione denunciava la volontà della maggioranza di voler impedire la realizzazione del progetto. L’assessore competente ribadiva che al contrario, era stato solo un episodio spiacevole, che i termini non erano ancora scaduti, anche se bisognava fare il punto sulla situazione. E che comunque Eurocartoon era nelle priorità della giunta, ecc. ecc.

Quindici giorni dopo, il commissario ricevette l’invito a presentarsi in un ufficio del ministero per conferire con un certo dirigente.

Sul giornale non erano uscite altre notizie su Eurocartoon.

Milva non aveva risposto ai suoi messaggi. In auto, Mario Marco aveva perlustrato più volte il lungomare e i luoghi dove l’aveva incontrata, aveva presidiato la villa del Geometra, aveva seguito inutilmente due o tre suoi amici che conosceva di vista, ma di Milva non c’era più traccia. Forse era partita. Magari era in qualche comunità terapeutica, a disintossicarsi. Non di sua volontà, sicuramente, perché in un posto così non ci sarebbe mai andata per conto proprio. Forse il padre l’aveva convinta, le aveva dato dei soldi, o l’aveva costretta. Se fosse stato così, sarebbe scappata.

Il commissario non si era arreso. Aveva continuato a girare in auto. Aveva continuato a lasciare messaggi al suo cellulare. Aveva continuato a controllare la segreteria telefonica, anche più volte al giorno, nella speranza di trovare un messaggio di lei. Si era emozionato per ogni chiamata, soprattutto per quelle dove non si sentiva alcun messaggio, ma solo il – tut tut tut – del telefono buttato giù. Aveva anche cominciato a leggere tutte le informative sul ritrovamento di cadaveri. Pochi, per fortuna.

Un pomeriggio, due mesi più tardi, Mario Marco trovò tre messaggi in segreteria. Il primo era di Galletti, che gli diceva di comprare il “Corriere della Sera” (“Un aiutino: guarda a pagina 19”) Il secondo messaggio era molto disturbato, si sentiva Mina cantare, lontanissima: Se io rivedendoti fossi certa che non soffri ti rivedrei, Se guardandoti negli occhi sapessi dirti basta ti guarderei, ma non so spiegarti che il nostro amore appena nato è già finito….

– Fine dei messaggi – disse la voce elettronica della segreteria. – Grazie – disse Mario Marco, poi uscì a comprare il giornale.

Toh, è rispuntata Eurocartoon, pensò il commissario. La foto mostrava il presidente della multinazionale che stringeva la mano del sindaco di Montecarlo Fiorentino. Sullo sfondo, un paesaggio di colline. “Alla fine, Eurocartoon ha trovato casa”, annunciava un virgolettato vicino alla foto. “L’Italia ha rischiato di perdere una grande opportunità”, spiegava Kenny Fante, il presidente. “Alla fine, invece, eccoci qua. Più che un Eurocartoon, faremo un Euro-Chianti. Il vino qui è così buono…”. Risate tra i giornalisti. “I lavori cominceranno tra due mesi”, prometteva il sindaco giulivo. “Anche grazie alla Regione abbiamo adottato delle procedure d’urgenza. Ci saranno almeno nuovi mille posti di lavoro, compreso l’indotto”, assicurava giulivo il sindacalista. Già, l’indotto. Nella foto, a sinistra, spuntava anche un’altra faccia nota. Era quella del professor Montagnani, così giulivo nel suo collegio elettorale.

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