Mamma Roma addio?
Mentre in tv, sui giornali, sui social, da qualche settimana, si parla sempre più spesso di chi potrà diventare il prossimo sindaco della capitale, discutendo animatamente su cosa sia meglio fra la candidatura di Carlo Calenda o le primarie del centrosinistra, fra Massimo Giletti o Guido Bertolaso, fra Virginia Raggi o un altro esponente del M5s, nessuno pare essersi ancora posto una domanda cruciale, che a prima vista potrebbe sembrare solo una provocazione, ma che risulta determinante per guidare concretamente e non solo teoricamente il futuro sviluppo urbano della Città Eterna: Roma esiste ancora? Ha ancora un senso e un’efficacia essere il suo sindaco?
La domanda nasce non soltanto a causa dell’annosa questione sul decentramento territoriale e sull’autonomia dei municipi, non solo come conseguenza del fatto che Roma ha un territorio enorme, tanto vasto che ne risulta difficile, se non impossibile, la gestione. Questa è la chiave, a mio avviso riduttiva, con cui il problema è stato posto, anche recentemente, da uno degli ipotetici candidati alla poltrona di primo cittadino. Tobia Zevi, esponente di centrosinistra, il cui nome è stato avanzato fra i possibili partecipanti alle ipotetiche primarie di quella coalizione, ai primi d’ottobre, ha detto che colui che verrà eletto nel 2021, a suo avviso, dovrà essere necessariamente l’ultimo sindaco della città di Roma. La Capitale, infatti, ha bisogno di trasformarsi fin da subito in una grande area metropolitana, comprendente l’hinterland, con al suo interno una serie di comuni urbani dotati di piena autonomia.
Roma esiste ancora? Ha ancora un senso e un’efficacia essere il suo sindaco?
Questo tipo di soluzione, proposta da Zevi, sarebbe stata sicuramente efficace negli anni Ottanta e Novanta, quando infatti fu avviato un programma, mai interamente realizzato, di progressivo decentramento delle competenze alle allora circoscrizioni (oggi municipi), considerate, in un tessuto urbano via via sempre più ampio e differenziato, come entità politiche più concrete, più vicine alle reali esigenze dei territori e dei cittadini, da dotare quindi di poteri effettivi, con il Comune a svolgere un semplice ruolo di coordinamento.
È uno schema che oggi però risulta un po’ datato: travolto, nei fatti, dalle trasformazioni urbanistiche del nuovo millennio e, in quest’ultimo anno, anche dalle trasformazioni sociali provocate dalla pandemia. Vediamo perché.
Dentro e fuori la città
Se un tempo i confini cittadini erano chiaramente delimitati da strutture fisiche, quali ad esempio le mura difensive, o comunque da un’interruzione evidente della densità abitativa, con case via via sempre più diradate che finivano nella campagna, oggi questa fisicità dei confini urbani non esiste più. Basta spostarsi da Roma verso i comuni confinanti, come ad esempio Guidonia, Monterotondo, Ciampino, per accorgersi che ormai non c’è discontinuità tra territorio capitolino a quello di un’altra realtà comunale.
È un fenomeno globale, che investe tutto il territorio nazionale: in un ipotetico spostamento dal Piemonte al Veneto, oggi il viaggiatore avrebbe la sensazione di percorrere un unico, infinito spazio urbano, in cui palazzi, capannoni industriali, centri commerciali, interi quartieri, si giustappongono, senza soluzione di continuità, fatto salvo lo spazio d’acqua (perciò inedificabile) del lago di Garda.
Quella che era un tempo l’Italia dei mille comuni, con identità cittadine ben definite, sta dunque scomparendo, salvo dove l’orografia rende difficile costruire nuove case o centri industriali (oltre al Lago di Garda, prima citato, fanno ancora eccezione, ad esempio, molte zone appenniniche) e mantiene perciò in piedi delle piccole realtà municipali ancora chiaramente delineate. In questo schema generale, scompaiono dunque, eccetto che sulla carta, anche i confini di Roma.
Da pubblico a privato
A questo si aggiunge un nuovo problema, nato come conseguenza della cosiddetta urbanistica concordata, la logica con cui Roma è cresciuta soprattutto negli anni Duemila. Di che si tratta? Degli accordi fatti dal Comune con vari imprenditori del ramo edilizio per la costruzione di nuovi quartieri. In cambio dell’edificabilità di quelle aree, offerte ai privati, il Comune ha assegnato ai costruttori l’onere di provvedere alla realizzazione e alla manutenzione dei servizi di quelle zone: scuole, strade, parchi pubblici. Un bel risparmio in termini economici per le finanze capitoline. Sembrerebbe l’uovo di Colombo, ma è divenuta in realtà una polpetta avvelenata, che non ha comportato solo una perdita di visione globale e urbanistica dello sviluppo cittadino, la cui crescita è stata piegata a continui accordi e compromessi con gli interessi privati.
Delegare ai privati la realizzazione e la manutenzione di servizi pubblici di primaria importanza, significa, infatti, che il Comune sta perdendo via via il reale potere e il reale controllo su quei nuovi quartieri. Anche risolvere il piccolo problema quotidiano di coprire una buca o di sostituire la lampadina fulminata di un lampione stradale, in quelle aree, non è più nella piena e autonoma disponibilità dell’amministrazione cittadina, ma diventa un balletto di rimpalli di competenze fra il pubblico e la società privata che si è assunta tali oneri. Ciò significa molto spesso lungaggini, contrasti, differenti interpretazioni degli accordi stipulati, conseguenti strascichi giudiziari e a volte vere e proprie paralisi dovute a tali situazioni.
Delegare ai privati la realizzazione e la manutenzione di servizi pubblici di primaria importanza, significa, infatti, che il Comune sta perdendo via via il reale potere e il reale controllo su quei nuovi quartieri
A ciò si aggiunge la nascita e lo sviluppo, avvenuto soprattutto negli ultimi quindici anni, dei grandi centri commerciali, vere e proprie città nella città, dove non solo si va a fare shopping, ma che hanno assunto rapidamente anche il ruolo di principale luogo di incontro e di aggregazione urbana. Anche in quel caso si tratta di spazi privati, su cui dunque il Comune non ha alcun potere di intervento. Cosa far accadere o non accadere in quei centri, in quegli enormi agglomerati, grandi a volte più di un quartiere, spesso molto attivi in termini di iniziative, sicuramente capaci di attrarre lì l’intera popolazione capitolina, nel corso dell’anno, non è più nella disponibilità di un sindaco. Il primo cittadino di Roma, dunque, ha ormai perso ogni potere di intervento su interi pezzi di città.
La morte delle piazze
Da secoli, anzi da millenni, fin dai tempi dell’Agorà greco, l’elemento più caratterizzante di tutte le città europee, è sempre stato la presenza di una grande piazza, un fulcro attorno a cui si realizzavano gli eventi più importanti della vita cittadina. Roma non ha fatto eccezione. È stata la piazza, anzi le piazze, prima il Foro romano, poi, nel tempo, piazza San Pietro, piazza Navona, piazza del Popolo, piazza Venezia, Campo de’ Fiori, che hanno a lungo esercitato il ruolo di luogo d’incontro pubblico, in cui si svolgevano mercati, riti, eventi politici e religiosi, capaci di creare l’identità cittadina, aperti a tutti, indipendentemente dal reddito e dal ceto sociale. Nei quartieri di nuova costruzione, però, la piazza sembra sparita.
Da un punto di vista costruttivo, l’elemento urbanistico della piazza è di certo un elemento antieconomico: toglie spazio edificabile, che può essere sfruttato per realizzare, al suo posto, una o più palazzine. Il nuovo quartiere di Porta di Roma, ad esempio, non ha piazze pubbliche, spazi di ritrovo, ma solo viali, più o meno ampi, più o meno alberati. Il ruolo che fu della piazza cittadina viene svolto, qui, dal grande centro commerciale.
Anche in questo caso, dunque, il compito pubblico di agorà, quel luogo di confronto, di incontro, di crescita, di centro economico e anche politico dell’agglomerato urbano, è stato di fatto privatizzato, tolto dal controllo del sindaco e della sua giunta, per divenire una questione in mano alle società di gestione, in mano ai costruttori, in mano alle grandi holding di servizi, spesso multinazionali, che dirigono tali spazi. Con il 2020, la pandemia sta poi facendo il resto, rendendo i luoghi di aggregazione e di socialità degli spazi potenzialmente pericolosi, dunque luoghi ulteriormente da ridurre o da eliminare dalla pianta urbana.
La storia dell’occidente ha sin qui legato fortemente il concetto di città e di piazza con quello di democrazia. Non è un caso che dal termine greco polis, città, derivi quello di politica, cioè vita della città, con l’agorà, dunque la piazza, come luogo privilegiato del dibattito e della decisione. Nell’Ottocento, Carlo Cattaneo, nel suo saggio “La città come principio”, contrapponeva la democrazia occidentale ai regimi teocratici e assolutisti sviluppatisi in Asia, definendo “non città, ma pompose Babilonie” gli insediamenti urbani delle “tiranniche” civiltà orientali. La morte delle piazze, o comunque la loro privatizzazione, porta dunque con sé un serio rischio di morte del bene pubblico e del concetto stesso di convivenza democratica.
Roma esiste ancora?
Dunque, riassumendo, esiste ancora una città, unica, identitaria, ben definita, che possiamo chiamare Roma? Forse no. Esiste un centro storico, da cui sono stati progressivamente allontanati i suoi abitanti, per trasformarlo, prima in un villaggio per turisti e poi in una “ghost town”, una città fantasma, ora che il turismo è in forte crisi a causa della pandemia.
Esistono delle periferie, nate senza un disegno urbanistico coerente, senza una propria identità. Esistono nuovi centri economici e d’incontro a gestione privata, esenti da un vero controllo cittadino e pubblico. Esistono dei confini sempre più invisibili e indefiniti tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dal territorio comunale. Possiamo ancora chiamare città questo insieme disordinato e dargli il nome evocativo di Roma?
Il concetto di città, quello che appartiene alla maggior parte di noi è, ovviamente, molto legato all’esperienza storica europea, ad una cultura che per secoli ha sviluppato dei centri urbani ordinati e ben definiti. Ma non dimentichiamoci che in questo tipo di città, cioè le città ereditate dall’evo antico e dal periodo comunale, vive solo una porzione modestissima della popolazione del pianeta terra. Miliardi di persone, oggi, abitano invece in città prive di un vero ordine municipale, senza servizi e senza identità, sorte in assenza di una pianificazione urbana.
Queste moderne Babilonie sono, ad esempio, le smisurate favelas brasiliane, gli slum di molte periferie, anche occidentali, le enormi baraccopoli di numerosi paesi africani o sudamericani. Ammassi di case, spesso fatiscenti, senza soluzione di continuità. Migliaia di ettari edificati, in cui le autorità pubbliche non sono in grado di esercitare alcun reale potere e alcun controllo. È questo, forse in modo inconsapevole, il modello urbano a cui, progressivamente, anche Roma sta cominciando a tendere.
Il prossimo sindaco
La morte di Roma (e, più in generale, la fine del concetto di città, per come lo abbiamo sin qui concepito), che va di pari passo con l’urbanizzazione e l’accentramento della popoolazione, è dunque un processo storico, certamente lento, però sempre più evidente e sempre più generalizzato.
Ma è anche un processo inevitabile, oppure c’è una qualche possibilità di invertire la rotta? Nessuno può davvero saperlo. Si possono però analizzare i fatti, per provare a fare delle previsioni.
Un segnale che va nella prima direzione, viene forse proprio dall’andamento delle candidature a sindaco delle prossime comunali romane. Non è forse un caso se quasi tutti i big politici, di sinistra e di destra, da Giorgia Meloni e Enrico Letta, si siano finora ben guardati dal proporre la propria candidatura a primo cittadino, nonostante le pressioni ricevute in tal senso.
È assai probabile che essi non vogliano “bruciarsi” politicamente, essendo consapevoli del fatto che ormai il sindaco di Roma è “un re senza corona e senza scorta”, come avrebbe detto De André, un capo impotente, privo di poteri reali sulla città e privo anche di fondi economici, necessari per realizzare qualcosa che sia in grado di far cambiare di segno la situazione.
Forse, dunque, l’unica speranza per modificare questo pericoloso percorso, è proprio in quella radicale trasformazione amministrativa, tardiva ma pur sempre utile, indicata da Tobia Zevi, proprio quella che ho precedentemente stigmatizzato come “riduttiva”: Roma trasformata in una grande “città delle città” comprensiva dell’hinterland, con al suo interno piccoli comuni urbani indipendenti e a misura di cittadino. Magari il tutto accompagnato da quei poteri speciali per Roma, che altri potenziali candidati sindaci, come Giletti, hanno di recente evocato e che già le normative vigenti per Roma Capitale, se bene applicate, potrebbero in parte consentire di ottenere.
Non è forse un caso se quasi tutti i big politici, di sinistra e di destra, si siano finora ben guardati dal proporre la propria candidatura a primo cittadino, consapevoli del fatto che ormai il sindaco di Roma è “un re senza corona e senza scorta”
Certo, il rischio è che, anche adottando queste possibili soluzioni, si finisca solo per mettere sulla città un pannicello caldo, una sorta di barriera frangiflutti, come quegli scogli artificiali posti a difesa delle nostre spiagge, che ritardano l’erosione della costa, ma non risolvono certo il problema che sta a monte, cioè quello dell’innalzamento delle acque a causa del riscaldamento del pianeta. Anche la crisi di Roma è, infatti, uno dei molteplici effetti di un cambiamento globale, planetario, di assetti economici, culturali e sociali, che investe tutto il mondo e che certo nessun sindaco di Roma, passato, presente e futuro, fosse anche dotato di superpoteri, potrebbe da solo risolvere. Ma arrendersi all’evidenza è già una sconfitta, una condanna a morte per la città e per tutti coloro che la abitano. Per questo, per quanto velleitario, ogni piccolo tentativo di cambiarne l’apparentemente ineluttabile destino, diventa doveroso.