Mal Comune (senza gaudio)
Le cronache delle ultime settimane, non solo locali, oltre agli allarmanti numeri sulla recrudescenza del Covid, hanno visto il moltiplicarsi di voci e di dichiarazioni sui possibili candidati a futuro sindaco di Roma. Le elezioni comunali, previste per la primavera del 2021 (salvo possibili slittamenti di data dovuti alla pandemia), si avvicinano e tutti gli schieramenti cominciano a preparare le proprie munizioni e a mettere in campo le proprie forze, in vista di quell’appuntamento.
Al momento la situazione è però confusa e, almeno a quanto si legge sui media, nessuna delle coalizioni pare avere ancora trovato una quadra.
Il centrosinistra
Accantonato, almeno per ora, il tentativo di richiamare da Bruxelles e da Parigi i suoi uomini di punta, cioè David Sassoli, Paolo Gentiloni ed Enrico Letta, desiderati urgentemente a Roma nelle vesti di salvatori della patria, ma che con garbo hanno tutti rifiutato l’invito, il Pd è oggi alla ricerca di un proprio candidato. Ironia della sorte, Sassoli e Gentiloni corsero senza gran sostegno del partito alle primarie contro Ignazio Marino, ma non furono promossi dai simpatizzanti del centrosinistra. Letta invece fu accompagnato alla porta da Matteo Renzi, che l’avrebbe poi sostituito a Palazzo Chigi, con l’ormai proverbiale frase “Enrico stai sereno”.
Ecco allora che lo schema del centrosinistra pare spostarsi, fallita la ricerca dell’uomo forte, su un più nobile invito a “dare spazio ai territori” – che appare più un ripiego che altro – con le possibili candidature degli attuali presidenti dei municipi di centrosinistra: da Giovanni Caudo (presidente del terzo ed ex assessore della giunta Marino), ad Amedeo Ciaccheri (presidente dell’ottavo), a Sabrina Alfonsi (presidente del primo municipio). A queste, si aggiungono due candidature outsider: Tobia Zevi, che viene dal Pd ma anche dalla comunità ebraica, e Paolo Ciani, vicino alla comunità di Sant’Egidio. C’è poi (forse) in corsa anche Roberto Morassut, già uomo di punta nella Roma veltroniana.
Infine, un discorso a parte merita Monica Cirinnà, senatrice nota per le sue battaglie sui diritti civili, nonché moglie di Esterino Montino, sindaco di Fiumicino, città separatasi da Roma nel ’92 dopo un referendum. E con cui quindi potrebbe realizzarsi un “ricongiungimento per diritto di letto”, in perfetto stile asburgico, quando la piccola Austria riuscì a creare un vasto impero, senza spargimenti di sangue, con un’oculata politica di matrimoni fra case regnanti sui diversi troni…
I candidati proposti sembrano tutte validissime persone, spesso con una consolidata esperienza amministrativa, ma sono anche personalità prive di un carisma e di una notorietà tali da poterli considerare dei sicuri cavalli vincenti, su cui scommettere. Al punto che, giornalisticamente, questi sette candidati sono stati da più parti soprannominati, sarcasticamente, i sette nani, a sottolinearne lo scarso appeal.
A sparigliare le carte ha pensato allora Carlo Calenda. L’ex ministro, ex Pd, ex moltissime altre cose, ha prima avanzato, poi ritirato, poi di nuovo avanzato la propria candidatura a sindaco, per saggiare il terreno. Una candidatura che nel centrosinistra molti anelano e altrettanti osteggiano, trattandosi, tra l’altro, di un nome che si è sempre dichiarato ostile a un possibile accordo giallorosso con il Movimento 5 Stelle, che qualcuno, dopo il governo, vorrebbe riproporre anche per la poltrona di primo cittadino della Capitale.
Intanto però c’è anche chi, come il quotidiano “La Stampa” ha ipotizzato addirittura una candidatura di Nicola Zingaretti in persona, anche se è leader del Pd e presidente del Lazio.
Il centrodestra
Con un leggero ritardo rispetto al centrosinistra, negli ultimi giorni, anche a destra si è moltiplicato il totonomi per la poltrona di sindaco. Il rumour più evidenziato dai media nazionali è stato quello che vuole in pole position, tra i papabili, Massimo Giletti, il noto presentatore tv di scuola Rai, negli ultimi anni passato a La7. Giletti è però solo il capofila di una curiosa opzione “giornalista e volto noto della tv prestato alla politica”, opzione che un tempo e per lunghi anni è stata quasi un’esclusiva della sinistra (pensiamo a Piero Badaloni, a Piero Marrazzo, a Lilli Gruber, a Michele Santoro, a Sandro Ruotolo e al già citato David Sassoli, tutti ex giornalisti Rai eletti in vari ruoli politici con il centrosinistra), ma che oggi pare essere divenuta di moda soprattutto a destra.
E così, insieme a quella di Giletti, il centrodestra romano mette sul campo anche le opzioni Nicola Porro, volto noto prima de La7 e poi di Mediaset, oltre a quella di Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2 e già vicedirettore di Libero. A questi si affianca, con un’autocandidatura molto sbandierata dai giornali nazionali, un altro voto noto per chi ama i talk show televisivi: quello del critico d’arte e parlamentare Vittorio Sgarbi.
Questo inatteso florilegio di personaggi televisivi genera però un sospetto. Il dubbio è che a destra sia in atto una lotta fratricida fra le diverse anime dello schieramento: Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia. Uno scontro per definire i ruoli e il peso politico fra i diversi partiti. Ottenere per il proprio movimento politico il candidato a sindaco di Roma, tanto più che i sondaggi indicano, al momento, una probabile vittoria finale del centrodestra, significherebbe, per il partito del futuro sindaco, un enorme vantaggio d’immagine, una sorta di “investitura”, non solo romana ma nazionale, a partito leader della coalizione. La lotta è ancora più serrata fra una Lega, che resta primo partito italiano, ma appare in calo di consensi e Fratelli d’Italia, partito in costante e al momento inarrestabile ascesa, che ha proprio a Roma una delle sue roccaforti.
Ecco allora, per evitare uno scontro deflagrante e potenzialmente autolesionista, che la soluzione di una figura terza, un giornalista non iscritto a nessuno dei partiti della coalizione, potrebbe essere l’uovo di Colombo. Restano perciò, per così dire, “ferme ai box” le possibili candidature più marcatamente politiche, soprattutto quelle targate FdI, come quella di Fabio Rampelli, esponente di lungo corso della destra sociale romana, nonché anima ambientalista dello schieramento di destra; quella di Guido Crosetto, già cofondatore di Fratelli d’Italia, maitre à penser del centrodestra del Ventunesimo secolo, piemontese di cui un po’ sfuggono i legami con Roma, oltre alla “candidatura delle candidature”, cioè quella di Giorgia Meloni, che alcuni sondaggi indicano, in caso si presentasse nell’agone, come possibile vincitrice delle prossime comunali già al primo turno. Stesso discorso per i possibili candidati leghisti, fra cui il nome più gettonato è quello del noto avvocato Giulia Bongiorno.
Il Movimento Cinque Stelle
Tra i due litiganti, chi pare maggiormente avvantaggiarsi è proprio il Movimento 5 Stelle, attualmente alla guida della città, che sembra aver già risolto i propri problemi interni, ricandidando il sindaco uscente Virginia Raggi.
Sotto le ceneri, però, cova ben altro. C’è un malumore diffuso, che in questi anni ha provocato numerose defezioni fra gli esponenti grillini romani: dalla consigliera capitolina Cristina Grancio, passata al gruppo misto, in polemica con le scelte fatte dalla sindaca sul previsto stadio della Roma a Tor di Valle, alla presidentessa del settimo municipio Monica Lozzi, che ha rotto con M5S, aderendo al nuovo soggetto politico creato da Gianluigi Paragone, oltre a diversi consiglieri di numerosi municipi romani, che hanno provocato, via via, la caduta o comunque serie difficoltà per le giunte grilline di municipi come il terzo, l’ottavo, l’undicesimo, il quarto, il nono.
Negli ultimi tempi è poi in atto uno scontro interno, fra chi ritiene che anche a Roma debba essere riproposto lo schema del governo nazionale, avviando un’alleanza stabile con il centrosinistra e chi, rifacendosi a quello che per anni è stato uno dei mantra e degli intoccabili assiomi del movimento, preferisce che si prosegua una politica di autonomia ed equidistanza da ogni altro schieramento.
La lotta è ancora in corso, con esiti molto incerti e, pertanto, la sbandierata e già ufficialmente dichiarata ricandidatura di Raggi, non è poi così certa come potrebbe apparire ad occhi poco smaliziati e non c’è da escludere che possa venire ritirata, al momento giusto, con qualche escamotage comunicativo che giustifichi l’inatteso colpo di scena, qualora a prevalere fosse un linea più “governista”.
Gli indipendenti
Last but not least, come dicono gli anglosassoni, ultimi ma non meno importanti, ci sono anche i candidati sindaci fuori da ogni schieramento. Il primo ad essersi presentato alla stampa è stato Federico Lobuono, ventenne studente fuorisede, che ha creato il movimento “La Giovane Roma”, un mix fra nuovo e antico, zeppo di militanti under trenta, ma che fin dal nome sembra quasi ispirarsi ad ottocenteschi ideali mazziniani. C’è poi Andrea Bernaudo, già consigliere regionale ai tempi di Renata Polverini, con la sua “Liberiamo Roma”. E c’è “er viperetta”, alias Massimo Ferrero, re delle sale cinematografiche romane e attuale presidente della Sampdoria.
Sembrano personaggi un po’ coreografici, candidati a sindaco solo per fare “colore”, senza alcuna reale velleità di vittoria. Ma non si escludono anche candidature indipendenti con maggiore spessore politico, da quella Monica Lozzi di cui abbiamo parlato in precedenza, ad eventuali leader di coalizioni di sinistra o ambientaliste slegate dal Pd, a raggruppamenti civici legati al mondo dell’associazionismo, per non parlare dei movimenti di estrema destra, come Forza Nuova o Casapound, che spesso in passato hanno presentato proprie liste autonome.
Guelfi e ghibellini
In questa lunga carrellata di nomi di possibili futuri sindaci, c’è un convitato di pietra che però pare del tutto assente: Roma. A nessuna ipotesi di candidatura, di nessuno schieramento politico, sembra per ora corrispondere una qualche idea di città chiaramente comunicata ai potenziali elettori, riconoscibile, da contrapporre magari a un’idea diversa, proposta dagli schieramenti avversari. Qual è infatti l’idea di Roma, del suo sviluppo, del suo futuro, che ha in mente Massimo Giletti? E quella di Calenda? E quella del Viperetta? Quali sono le loro proposte per risolvere i suoi mille problemi? Per ora non è chiaro, non si sa. Poi, forse, si vedrà.
Neanche chi ha ruoli di governo cittadino, sembra preoccuparsi troppo di proporre agli elettori dei progetti chiari e riconoscibili per Roma, da realizzare nei prossimi anni. La sindaca, infatti, negli ultimi tempi ci parla spesso di strade riasfaltate, di strisce pedonali ridipinte, ma quasi nulla di più. Viene in mente un vecchio film con Massimo Troisi, quando, a chi esaltava i treni in orario mussoliniani, lui rispondeva che per fare questo non serviva un Duce ma bastava un capostazione. Se il problema di Roma fosse solo quello di ricoprire le buche, basterebbe allora un tecnico dell’Anas.
La fine delle ideologie, a quanto pare, sta provocando, dunque, anche una crisi di visione del futuro della città e della politica intesa come confronto fra diversi progetti e ideali. La lotta non si gioca più sul campo delle differenti visioni del mondo, delle varie proposte da realizzare nella realtà metropolitana, ma solo nell’ambito di uno scontro, quasi tribale, fra i presunti leader e le relative congreghe, accomunate dall’assenza di una vera progettualità di lungo respiro. Congreghe che parlano ancora di ipotetici ideali contrapposti, a più riprese sbandierati: fascismo contro antifascismo, liberismo o equità sociale, onestà contro malaffare, sicurezza o accoglienza e così via. Ma sono ideali a cui poi non corrisponde un progetto coerente e compiuto, presentato ai cittadini in modo chiaro e poi realizzato (o, eventualmente, anche non realizzato) nella concretezza del proprio operato.
Più che lanciato verso il futuro, questo schema sembra un ritorno al passato: un passato molto antico. Quando a Roma, per parlare del futuro della città, ci si limita a fare un elenco di nomi e cognomi dell’uno o dell’altro schieramento, a interessarsi solo a chi sarà e non a cosa si vuole fare, quello che si ripropone, infatti, è lo schema che ha guidato la politica italiana negli ultimi secoli del medioevo, ai tempi dei guelfi e dei ghibellini.
Anche in quel periodo, tutto pareva partire da grandi ideologie contrapposte e di ampio respiro, apparentemente inconciliabili, con diverse concezioni del mondo e della società. Da una parte i guelfi, amici del Papa, con una visione quasi teocratica dello stato, in cui è il potere religioso che deve guidare tutto. Dall’altra i ghibellini, alleati dell’imperatore, che, in un certo senso, potrebbero essere considerati una sorta di precursori dello stato laico, per i quali è il potere religioso che deve rispettare quello secolare e non viceversa.
Ben presto, però, appartenere all’una o all’altra fazione non fu più una questione di ideali o di visione del mondo, bensì di legami di sangue, familiari, economici, di amicizie, di nomi e di cognomi. Se mio padre, mio fratello, il mio vicino, il mio amico, il mio datore di lavoro è un guelfo, anche io sarò automaticamente guelfo, apparterrò alla sua congrega, indipendentemente da ciò che penso sui rapporti fra stato e chiesa. E tutti mi considereranno guelfo, senza chiedermi più cosa penso. Allo stesso modo, se i miei parenti e amici sono ghibellini, anche io sarò ghibellino e verrà considerato tale da tutti, amici e nemici.
Già sul finire del Duecento, i due schieramenti erano dunque diventati solo dei contenitori formali, privi di reali valori ideali, con scontri politici fatti esclusivamente di lotte fra famiglie e congreghe contrapposte. È per questo che, quando Dante, uomo politico guelfo, incontra all’inferno Farinata degli Uberti, massimo esponente della fazione ghibellina e con lui discute della politica cittadina, Farinata, per capire subito le idee politiche dell’Alighieri, gli fa una domanda secca e precisa: “Chi fuor li maggior tui?”, cioè chi sono i tuoi parenti, i tuoi amici, i tuoi sodali? Perché Farinata e Dante sanno che solo quello ormai conta in politica: nome e cognome dei propri referenti, amici e congiunti. Da lì sarebbe conseguito tutto il resto.
È per questo che, se in un’elezione le attenzioni vengono concentrate esclusivamente sul nome dei possibili candidati, anziché sulle loro eventuali proposte, pensando che al nome, in automatico, corrisponda un’area e una linea politica, il tutto diventa una riproposizione 2.0 dello schema politico dell’Italia medievale; quel periodo in cui gli scontri non erano più solo di una fazione contro la fazione opposta, ma si spostavano anche e soprattutto all’interno dello stesso schieramento.
Non più solo guelfi contro ghibellini, ma anche guelfi bianchi contro guelfi neri, in battaglie che, venute meno le ideologie, si realizzavano utilizzando, a volte pretestuosamente, anche il piano giudiziario. Lo stesso Dante, esponente del partito vincente, ne farà le spese, finendo esiliato, lui guelfo, poiché messo sotto accusa dai membri del suo stesso partito (ma appartenenti alla corrente a lui avversa dei guelfi neri), che lo condanneranno per presunta corruzione.
Certamente il Medioevo non fu affatto quel periodo oscuro che spesso abbiamo in mente. In quei secoli ci fu anche un grande fiorire economico, artistico, intellettuale, di cui lo stesso Dante è uno dei massimi esempi. Quindi prendere ispirazione dal medioevo non è una bestemmia. Ma certo, affrontare le sfide del Ventunesimo secolo, mantenendo, inconsapevolmente, degli schemi mentali e politici vecchi di sette o otto secoli, non è forse la migliore delle premesse per rilanciare verso il futuro una città come Roma che, mai come in questo momento, ha bisogno di tornare a guardare avanti e lontano, di progettare, di ridisegnare una propria identità, chiunque verrà eletto sindaco nella primavera del 2021.