Don Barra, un prete tra le baracche
Venti anni fa moriva don Nicolino Barra, una grande figura di prete romano, figlio del Concilio, e protagonista di una Chiesa capace di rinnovarsi tornando ad attingere alle sue radici. Don Nicolino era nato il primo gennaio 1935 in un quartiere bene di Roma, Prati-delle Vittorie, un rione costruito dai Savoia dopo la presa di Roma, con un’urbanistica strana e laicizzante. Nessuna piazza doveva avere una chiesa, e da nessuna strada si doveva vedere il cupolone, anche se San Pietro era a dieci minuti di cammino.
I suoi primi passi nella fede sono legati all’Azione cattolica e alla parrocchia Santa Maria Regina Apostolorum, lungo la via tra piazza Mazzini e piazza Cavour, affidata ai padri Pallottini. Studiò poi al Collegio Capranica, completò gli studi con la licenza in Filosofia e quella in Teologia e fu ordinato sacerdote nel 1959. Prete di vasta cultura ed esigente con quanti gli affidavano la propria amicizia e la guida della propria vita spirituale, era considerato “impegnativo” ma non per questo meno amato.
Nei primi anni di servizio sacerdotale don Nicolino era stato viceparroco alla Gran Madre di Dio a Ponte Milvio (dove era parroco don Gastone Moretti), alla Trasfigurazione a Monteverde (il parroco era don Salvatore Smirne) e a San Clemente in zona Montesacro (il parroco era don Vincenzo Pezzella), dove restò solo un anno occupandosi soprattutto dei giovani. Poi arrivò il 1968, e quel grande moto giovanile in cui tanti pensarono che fosse giunto il momento di cambiare il mondo con l’impegno politico. Per tanti giovani cattolici i fermenti del post-Concilio si intrecciano con la grande voglia di cambiamento e di giustizia. Don Nicola nel 1968 ha 33 anni ed è prete da nove: decide di andare a vivere tra i baraccati del quartiere Prenestino, nella parrocchia di Sant’Agapito.
Il Borghetto Prenestino era un insediamento di 4mila casette-baracche. Nella Roma degli anni Sessanta e Settanta di borghetti ce n’erano vari e le condizioni di vita erano particolarmente misere. Niente acqua, niente luce, solo topi e fogne scoperte: le famiglie sopravvivevano con lavoretti incerti. Le donne più fortunate andavano a servizio nelle case dei ricchi. Il vicario di Roma, il cardinale Dell’Acqua, accoglie la richiesta di tre giovani preti (Nicolino Barra, Isidoro Del Lungo e Franco Ripani), chiede loro di scegliersi un parroco (don Mauro Innocenti) e li manda in frontiera. I preti decidono che devono fare la vita di tutti, e scelgono di lavorare. Saranno preti operai ma a Roma non ci sono tante fabbriche e così don Mauro comincia a lavorare come calzolaio, don Nicola fa il fabbro, don Isidoro il facchino e don Franco il falegname. Tutti mestieri utili anche al piccolo Borghetto Prenestino.
Intanto don Nicolino Barra fonda anche la lettera mensile “La Tenda”, che dal 1969 al 1986 rappresenterà uno spazio di riflessione importante per la Chiesa romana del post-Concilio. Per tutta la vita, finché le forze glielo hanno consentito, ha continuato a fare il fabbro. Nella sua spiritualità un po’ benedettina, però, l’Ora et Labora si trasferiva dal monastero alle periferie: pregare e lavorare manualmente era il suo modo per farsi compagno di strada di ogni uomo. Se il lavoro è stato l’unica fonte di sostentamento e la modalità per condividere la vita di tanti, la preghiera è stata una sua compagna quotidiana. E poi lo studio, l’amore per i classici, l’esegesi biblica, il teatro, la poesia. Farsi compagni fedeli dei poveri è per lui cosa seria. Come quei preti che durante gli sfollamenti della seconda guerra mondiale seguivano il popolo affidatogli che era scacciato dalle proprie case, così don Nicolino seguì i baraccati quando il Comune assegnò loro delle case popolari. Nel 1979 si trasferì a Nuova Ostia.
Progettato vicino al mare alla fine degli anni Sessanta, il quartiere doveva essere residenziale. Ma il Comune di Roma, impegnato a trovar casa ai 70mila baraccati che vivevano a Roma, si accordò con le imprese edili coinvolte nel progetto, acquisì le palazzine e le destinò a edilizia popolare. Le case erano state costruite in economia, le infrastrutture erano assenti, le strade buie e non asfaltate, i servizi inesistenti. I nuovi abitanti, spesso immigrati trasferiti da regioni del Sud, si ritrovarono un po’ deportati. Don Nicolino lì seguì, risultando anche assegnatario di un alloggio. La parrocchia di San Vincenzo de’ Paoli, situata nei locali che sarebbero dovuti essere adibiti a negozi, era affidata a don Vincenzo Iosia, e don Nicola divenne viceparroco.
La parrocchia rappresentò il centro a cui tutti potevano rivolgersi, il punto di riferimento di una umanità spaesata in un quartiere in cui si intrecciavano problemi sociali enormi: povertà, disoccupazione, evasione scolastica, delinquenza, droga. Don Nicolino non abbandonò mai la sua gente e nel 1984 divenne parroco. La parrocchia del post-Concilio per don Barra era il luogo dove maturare un cammino di fede adulta, perennemente illuminato dalla parola di Dio. La parrocchia doveva essere missionaria, scendere per strada e andare incontro a chi non vive più la fede o non la vive pienamente. L’idea di parrocchia di don Nicolino era quella di una comunità-comunione, che non doveva vivere rinchiusa nelle proprie mura ad attendere chi volesse entrare ma doveva essere aperta al mondo, conoscerne i problemi, comprendere le difficoltà degli emarginati. Un luogo di partecipazione e corresponsabilità di fronte alla città. Con al centro della settimana la celebrazione della Messa, assemblea del popolo di Dio, attorno alla quale favorire la riscoperta della serietà dei sacramenti e la loro ricaduta sui concreti comportamenti quotidiani: un continuo cammino di conversione.
Don Nicolino nel 1994 fu sostituito come parroco, ma con umiltà scelse di rimanere come vice parroco a Nuova Ostia, ancora e per sempre tra la sua gente. Negli ultimi anni fu aggredito dal cancro e la seminagione di affetti gli permise di vivere anche quella stagione accompagnato dal suo popolo di amici. Si spense a 65 anni, all’alba di un nuovo millennio, il 22 gennaio 2000, all’esordio del grande anno giubilare. La sua testimonianza ha attraversato la stagione romana del post-Concilio, illuminando il cammino di tanti.
[Questo articolo, che riproduciamo con l’autorizzazione del direttore, è stato pubblicato nei giorni scorsi su Roma Sette, che si definisce di “Notizie dalla Diocesi e dalla Città di Roma”]