Il museo del fascismo non è una cattiva idea
Il museo del fascismo a Roma non si farà. Lo ha detto a chiare lettere la sindaca Virginia Raggi, bocciando la mozione presentata da alcuni consiglieri del M5s. Ma anche senza che prendesse la parola la prima cittadina, era chiaro che si trattava soltanto di un annuncio senza conseguenze, un ballon d’essai. La consiliatura finisce tra meno di un anno, è improbabile che il M5s rivinca le elezioni e anche se la mozione fosse stata approvata, nessuno certamente si sarebbe impegnato a dare atto a quell’idea.
Costruire a Roma un museo del fascismo, però, non sarebbe affatto una cattiva idea, almeno per chi scrive. Perché il modo migliore per combattere il fascismo è prima di tutto parlarne e spiegarlo in modo documentato alle generazioni che non hanno vissuto la dittatura. E per le quali gli oltre 70 anni passati dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono già una distanza abissale.
Raccontare le deportazioni, come quella del Ghetto, raccontare l’Olocausto è assolutamente importante. Raccontare la Roma occupata dai nazifascisti tra il 1943 e il 1944 è assolutamente importante. Ma è importante anche raccontare in che modo si è arrivati lì. E se è vero che la scuola deve istruire, quindi anche formare alla conoscenza storica, ed educare ai valori democratici, è anche vero che un’esperienza come quella di visitare un museo ben fatto può essere formativa.
La levata di scudi contro l’idea del museo è venuta tutta da sinistra. Il museo, è la tesi, non si può fare perché in Italia ci sono ancora i fascisti, e comunque ci sono i “negazionisti”: quelli che minimizzano il ruolo del regime fascista italiano nell’Olocausto, quelli che paragonano impunemente la vicenda delle Foibe alla persecuzione nazista degli ebrei (e degli zingari, e degli omosessuali, dei disabili, etc etc), quelli che mettono in discussione il ruolo dei partigiani. Tutto vero, ma è così da decenni. Basti pensare, per restare alle “cose romane”, alla polemica sull’attentato di via Rasella, che è stata alimentata per anni, sostenendo che senza l’azione dei Gap i nazisti non avrebbero ammazzato così tante persone per rappresaglia…
In Italia, del resto, per decenni si è evitato di ammettere che ci sia stata una guerra civile, dopo l’8 settembre 1943. Ed è stata, in questo casa, una sorta di amnesia bipartisan.
Insomma, sarebbe come dire che non si può fare un museo sul colonialismo italiano (che servirebbe, eccome: è un buco nero della nostra memoria storica condivisa) perché c’è ancora chi sostiene che l’Italia ha fatto del bene nel Corno d’Africa e in Libia, chi nega che l’Italia abbia usato il gas contro le popolazioni locali o chi difende Indo Montanelli e il suo matrimonio con una dodicenne.
Certamente non sarà un museo a sconfiggere il neofascismo – che esiste, certamente in Italia, in forma organizzata, e che gode anche della benevola indifferenza per non dire talvolta della simpatia, di partiti di destra (la Lega e Fratelli d’Italia, che sono ormai intercambiabili; meno Forza Italia, che pure ha traghettato negli anni Novanta il Msi-Alleanza Nazionale soprattutto per questioni elettorali, ma che oggi è al lumicino).
Ma se si può fare un museo sul fascismo solo quando non ci saranno i fascisti, allora non lo faremo mai. Perché ci sono sempre stati, nella storia del Dopoguerra, e probabilmente continueranno a esistere, coloro che pensano che il fascismo sia la migliore risposta politica ai problemi.
Poi, ovviamente, il rischio che un “museo del fascismo” diventi una celebrazione del Ventennio esiste. Perché, come temono a sinistra, qualcuno a destra potrebbe essere tentato di farne un’operazione di revisionismo e di marketing, una specie di vetrina del Regime in chiave nostalgica e ripulita. O un museo di Predappio, in grande.
Ma il rischio c’è anche perché il fascismo (come tante dittature, come l’idea dell’Uomo Forte, nelle varie declinazioni totalitarie) in sé può esercitare un certo fascino. Ricordo, molti anni fa (era il 1994), quando uscì “Lamerica”, il film di Gianni Amelio. In una proiezione per le scuole, il breve passaggio del film in cui si vedono frammenti di vecchi filmati dell’Istituto Luce, che parlano della guerra d’Albania condotta dal regime, fu salutato dalle urla di parecchi giovani in sala. Era bastata l’ostentazione dei simboli fascisti a farli entusiasmare.
Per concludere. Ha un senso realizzare un museo del fascismo che sia un’opera storica, che spieghi, guidi il visitatore nel Ventennio, faccia capire anche attraverso un approccio multimediale. Non basta certamente a contrastare culturalmente le risorgenze neofasciste, non sostituisce quella che dovrebbe essere l’istruzione scolastica, ma potrebbe essere un primo passo importante per affrontare in un modo diverso un tema ancora difficile dopo oltre 70 anni. E per cominciare magari a costruire nuovi musei storici dedicati a temi fin qui ignorati (dicevamo il colonialismo, per esempio) e non soltanto alla Roma Antica.
Non si può risolvere la questione pensando semplicemente di cambiare nome alle strade e alle stazioni (come accadrà, ed è positivo, per la fermata della Metro C Amba Aradam, che prendeva il nome dal massacro col gas delle truppe abissine, si chiamerà “Giorgio Marincola”, partigiano italosomalo ucciso dai fascisti).
Viceversa, cercare semplicemente di cancellare l’idea e il ricordo del fascismo, perché è un crimine, senza provare a capire, è un’operazione miope.