L’indagine scatologica: cap. 14

Quattordicesima puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica”. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.

 

5 DICEMBRE

La registrazione della trasmissione di Radio Casa Mia sulla vicenda del Geometra e delle lettere era una palla terrificante. Il tono mieloso di Claudia era abbastanza insopportabile. La musica tra una telefonata e l’altra quasi peggio. Le pubblicità, poi.

Quando era arrivato, Claudia era impegnata in studio, per una trasmissione dal vivo, ironia della sorte, sulla stitichezza. In realtà, era un programma a pagamento, che pubblicizzava le cure del dottor Qualchecosa, un ciccione sorridente che sedeva accanto a Claudia con un paio di cuffie in testa.

Mario Marco, ancora un po’ ammaccato per l’incidente, aveva fatto ciao ciao con la mano a tutte e due, dall’altra parte del vetro, poi aveva seguito in sala registrazione il tizio che gli era venuto ad aprire.

Strano, il tizio. Si chiamava Sandro, Santo, Aldo, o una cosa del genere: aveva biascicato il nome tenendo gli occhi bassi. Appena una zaffata lo aveva investito, Mario Marco aveva subito capito: il tipo soffriva di alitosi. Doveva essere abbastanza giovane, una ventina d’anni. Portava la barba, per tentare di nascondere, senza riuscirci granché, l’acne.

Sandro l’aveva accompagnato in sala, poi era sparito. Adesso, uscito un minuto per far prendere aria al cervello, il commissario poteva vederlo all’opera: seduto dietro un microfono e un paio di piatti, nella seconda sala di registrazione, sembrava un altro. Capì subito che lo speaker non poteva vederlo, tra loro c’è un vetro a specchi. Il ragazzo sorrideva, mentre parlava. Ha una gran bella voce, pensò il vicecommissario. Chissà come se lo immaginavano le casalinghe all’ascolto, a quell’ora. Un gran fico, alto così.

 

Mario Marco continuò ad ascoltare le registrazioni delle telefonate. Erano quasi tutte donne, a chiamare. Facevano eccezione due ragazzini esperti di pernacchie e un pensionato che andava a ruota libera, e che alla fine si era messo a fare un bel panegirico sulla mafia, la massoneria e i comunisti. L’unica telefonata interessante, arrivata verso la fine della trasmissione, era quella di un tizio che si era presentato come Luciano, e sembrava Franco Califano. Steso timbro, stesse pause, stessi sospiri: un ottimo imitatore.

Luciano aveva cominciato tessendo le lodi del Geometra. Gran lavoratore, uno che ha fatto del bene al quartiere, un coi cojoni, uno de core, insomma, tanto di cappello. Poi, però, il tono della telefonata era cambiato. Completamente. “Poveraccio, però, il Geometra, raccontava Luciano, tutti quei problemi, la moglie morta, la figlia malata – pora fija, ma i fij so’ dolori, se sa – gli affari che vanno male coj americani…”. Minchia, disse Mario Marco togliendosi le cuffie. Chi è questo?

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– Luciano? Guardi, dottore, ai fili diretti telefona tanta gente. Luciano… Uno che ha la stessa voce di Califano? Mah, sì, telefona spesso, fa delle dediche. Però non lo conosco di persona. Ci ho solo parlato per telefono – Claudia stava riordinando una pila di compact disc.

– Non è che magari qualcuno degli speaker lo conosce meglio? – chiese il vicecommissario.

– Non credo. Comunque, provo a chiedere a Santo e ai ragazzi – La donna inciampò, i dischi le caddero di mano. Mario Marco cercò di sostenerla. Voleva prenderla per un braccio, invece le poggiò inavvertitamente la mano su un seno. Cercò di ritirare la mano, ma siccome nel frattempo Claudia aveva stretto il braccio, quel gesto finì col sembrare una carezza.

– Grazie, sono un po’ sbadata – disse la donna.

– S’immagini. Tutto bene?

– Sì – Claudia si chinò a raccogliere un cd, e gli sfiorò la coscia in un modo un po’ troppo casuale.

– Ecco, adesso sono un po’ occupata – la donna sorrideva maliziosa – Però per questa cosa del misterioso Luciano possiamo risentirci, vederci. Magari possiamo bere una cosa insieme, no?

– D’accordo – rispose Mario Marco, che aveva messo da parte la storia di Luciano per pensare più intensamente a una possibile scopata con Claudia. Non era bella, e quando parlava alla radio gli veniva voglia di strangolarla. Però….

 

6 DICEMBRE

– Ogni tanto nella vita ci si sbaglia, caro mio. Anche se si è ben consigliati. Anzi, di più, se si ha la fortuna di avere qualcuno che ti consiglia.

Il tipo di frasi che odio, si disse Mario Marco. Eccone qua un bell’esempio. Quel tipo di filosofia del vivere da corso di corrispondenza, che avrebbe gettato volentieri nel cesso. Però, se l’era cercata: aveva telefonato a Bordone per un appuntamento, ripromettendosi di evitare ogni domanda su Milva, anche di straforo, e di concentrarsi, invece, sul caso delle lettere. Punto e basta.

E così, adesso, in un bar piuttosto squallido, con una veduta sul mare d’inverno (che però, pieno di sacchetti di plastica, assorbenti e altra immondizia, non assomigliava manco un po’ a quello di Fossati) stava ad ascoltare Bordone rispondere alla sua domanda. Ma chi glielo ha fatto fare, al Geometra, di rivolgersi alla polizia, per la storia delle lettere? Come gli è venuto in mente?

– Lei può anche ridere, può non credermi, se vuole, ma Merola è una brava persona, con un suo preciso codice d’onore, una persona di rispetto. Glielo assicuro. E su alcune cose è ingenuo. Non si direbbe per uno così, eh, uno che si è fatto da solo? Invece sì.

– Scusi, ma lei non gli ha consigliato di lasciare stare la polizia, visto che la faccenda era un po’ delicata? O magari, di affidarsi a un investigatore privato? Ce ne sono di bravi.

– Di bravi? E dove? Mi meraviglio, lei fa il poliziotto e difende quelli lì. Si vede che ha visto troppa televisione. Squali. Squallidi. No, no. Ho consigliato al Geometra di lasciare stare, perché secondo me questa cosa si sarebbe risolta da sola. Le ho già detto quello che penso, no? Per me, è un mitomane. Invece Merola ha insistito. Ha fatto di testa sua.

Mario Marco cercò di giocare al gatto e al topo: – Ma secondo lei, come è uscita la notizia sul giornale?

– Se non è stato lei, e non credo, è ovvio che è stato Paolini, o D’Artagnan in persona – Bordone si accese un’altra sigaretta. – Via, lo sa anche lei. Guardi, le racconterò una delle mie storielle edificanti. Ma magari la annoio, con le mie storie…

L’ingegnere, col suo tono da romanzo radiofonico, aveva cominciato a raccontare la storia sul vicequestore. Per essere un bravo poliziotto, D’Artibale lo era. Aveva fiuto, ragionava, era uno che conosceva la strada, che conosceva la gente. Era simpatico. Con i giornalisti, aveva capito subito come funzionava: dopo i primi due-tre casi risolti, che gli avevano permesso di farsi notare, aveva cominciato a costruirsi il personaggio, passava le notizie a questo o a quel cronista, stava bene attento a occuparsi di questo o quel servizio, scegliendo con cura. D’Artagnan, lo chiamavano i giornali. E lui sventava ricatti, arrestava rapinatori, convinceva l’innamorato respinto a non buttarsi di sotto, scopriva ricevitorie del totonero, salvava prostitute da papponi crudeli, inseguiva e bloccava scippatori rom agili come gatti. Incastrava trafficanti di cocaina o di estrogeni per culturisti, controllava locali notturni troppo rumorosi o beauty center in cui le massaggiatrici si occupavano un po’ troppo dei clienti, arrestava mariti gelosi che avevano pagato vicini di casa zelanti per ammazzare le mogli (ma poi gli aspiranti killer e le vittime erano fuggiti insieme).

E D’Artagnan aveva fatto carriera, con le promozioni al momento giusto, qualche flirt d’eccezione, una volta con una soubrette, un’altra con una giornalista della tv, poi una proposta per fare un film, mai andata in porto.

Poi, a un certo punto, D’Artibale era scomparso dai giornali. Da un giorno all’altro era precipitato dall’alto dei titoli, era scivolato via dagli articoli, anche dalle brevi.

Gli era andata bene, tutto sommato. Era caduto, ma in piedi. Se qualcuno avesse scritto che era stata aperta un’inchiesta sul trafugamento di un certo carico di elettrodomestici di lusso cui si erano perse le tracce, e che in quell’inchiesta pareva che si facesse anche il suo nome, o almeno si lasciava intendere che forse lui c’entrava qualcosa, allora sì che sarebbe stata la fine di una brillantissima carriera. Tanto di più se qualcuno avesse accennato anche ad alcune amicizie discutibili, alla passione per le scommesse, per il poker, per gli abiti firmati, per le auto d’epoca. Perché lui era uno che veniva dalla gavetta, da una famiglia di lavoratori, mica era figlio di ricchi. E dunque non poteva avere neanche la scusante di aver ereditato certe passioni.

Ma nessuno scrisse nulla. Anche perché davvero nessuno della stampa se la sentiva di dare una coltellata alla schiena al simpatico D’Artagnan, col rischio oltretutto di attirarsi l’inimicizia dei suoi colleghi. Errare è umano. E nessuno dunque scrisse una riga quando l’inchiesta si chiuse, per fortuna senza alcuna conseguenza. Pochi giorni prima, D’Artibale era andato a prestare servizio in un commissariato a seicento chilometri buoni dalla Capitale.

Era passato poco tempo, ma nel frattempo le cose erano cambiate. Il vecchio governo non c’era più, il nuovo centrodestra era arrivato al governo. “Vedrai che adesso torna D’Artagnan”, aveva profetizzato qualcuno. Invece no. Perché D’Artagnan era un “sincero democratico” uno di quelli che “finché si scherza si scherza, poi però si fa sul serio”. E nonostante il balletto di commissari, questori e dirigenti vari – che s’erano scoperti tutti insieme un’anima di destra – lui era rimasto lì dov’era. Né allineato né fuori linea, semplicemente in attesa.

L’attesa era durata un anno, più o meno. E alla fine qualcuno si era ricordato del vecchio D’Artagnan, che forse aveva sbagliato in passato – ma contro di lui non c’era mai stata alcuna prova – e che comunque non aveva mai collaborato con quelli lì, perché, appunto, lui era un “sincero democratico”. Tornato a Roma, aveva trovato i vecchi amici, e la carriera si era rimessa in moto.

Certo, il regolamento non scritto che sovrintende a questo genere di cose gli imponeva di rientrare dalla porta di servizio, vale a dire da un commissariato periferico. Ma D’Artibale era in gamba, e avrebbe impiegato poco tempo a risalire da Ostia a qualche poltrona importante in centro.

– Garantito – aveva concluso Bordone.

[La foto del titolo è di Nacho Pintos ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

 

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