L’indagine scatologica: cap. 13

Tredicesima puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica”. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.

 

1 DICEMBRE

 

Qualcuno aveva bussato alla porta. Oppure aveva solo sognato? Aprì gli occhi per guardare l’ora. 6.25. Presto. Di nuovo, si sentì bussare. Non si era sbagliato, allora.

– Un attimo, per favore.

Si infilò i pantaloni, e andò ad aprire senza chiedere chi fosse. Si ritrovò di fronte Milva. La luce, nel corridoio della pensione, era bassa, ma il colore dei suoi capelli lo colpì. Rosso. Anzi no, arancione. Intenso. Lei entrò senza parlare. Lui si scostò per farla passare.

– Come sei entrata?

– Ho detto al portiere che mi aspettavi. Qui non è che si fanno tanti problemi.

– Ti ho cercata, dopo l’ultima volta… ti ho anche lasciato un paio di messaggi al telefonino. Volevo chiederti delle cose…

– Mi hanno detto che hai conosciuto mia sorella. Anzi, il fidanzato di mia sorella – rise – Vai sempre in giro con le manette?

– Parli piano, per favore. C’è gente che dorme.

Lei si accese una sigaretta. Poi, scostò il cuscino e si mise a sedere sul letto. – Posso stare poco. Hai detto che volevi chiedermi qualcosa?

Mario Marco si stava incazzando come un’ape. Lei se n’era accorta.

– Perché sei incazzato? – chiese Milva.

– Prima mi prendi per il culo facendo finta di essere tua sorella. Poi mi dai un calcio sui coglioni in mezzo alla strada. Poi non rispondi ai messaggi che ti lascio. Poi ricompari così, alle sei e mezzo di mattina, come se fosse la cosa più normale del mondo.

– Vabbe’, ho capito. Scusa. Scusami. Ti chiedo scusa. Sono fatta male – rispose lei spegnendo la sigaretta – Che volevi sapere?

– Ok. Prima domanda: perché hai fatto finta di essere Mina?

– Passa alla seconda domanda. A questa non rispondo.

– Ma… ok, ok. Sono vere le cose che mi hai detto quella sera? O ti sei inventato anche quelle?

– Che ti ho detto?

– I nemici di tuo padre, e tutto il resto. È vero?

– L’indagine è finita, no?

– La mia, no. Sono vere, quelle cose?

– Sì.

– Tu sai chi ha mandato quelle buste a tuo padre?

La ragazza esitò un attimo – No… no.

– Davvero?

– No, davvero.

– Davvero davvero?

– No, davvero davvero. Mi credi?

– Perchè ho l’impressione che mi stai dicendo una cazzata?

– No, lo giuro su mia madre – Milva mise una mano sul petto. Ora sembrava serissima.

– Allora, riformulo la domanda in un altro modo: conosci qualcuno che può sapere chi ha mandato queste lettere?

– Non ho capito.

– Voglio dire…

Lei guardò l’orologio – Quanti minuti sono passati?

– Da quando?

– Da quando sono arrivata.

– Cinque – rispose Mario Marco, sospirando

– Devo andare via. Scusa. Ho una cosa importante da fare.

– A quest’ora?

– Sì. Chiamami, poi. Ciao.

Milva uscì, lasciando la porta aperta. Mario Marco esitò un attimo, poi le andò dietro, scalzo. Pensò di prendere le chiavi, ma temeva di perdere la ragazza.

Senti i suoi passi nella piccola hall. Poi solo la musica che veniva dalla piccola radio del portiere. Scese, vergognandosi un po’. Il ragazzo lo salutò sorridendo.

– Buongiorno!

– Buongiorno…

– Perduto qualcosa? – Il portiere gli fece l’occhietto.

Mario Marco non rispose. Uscì sul marciapiede. Faceva abbastanza freddo, e lui aveva solo la maglia del pigiama. Guardò destra e sinistra, niente. Si sentiva ancora il rumore delle onde sulla spiaggia. Tra poco, il passaggio massiccio delle auto avrebbe cancellato ogni presenza del mare. Un motore d’auto, nella stradina laterale. Seguì il rumore, correndo. La macchina era già lontana, ma la riconobbe. Era la Saab 900 di Bordone.

 

 

3 DICEMBRE

 

La radio di servizio cicaleggiò qualcosa. Il vicecommissario abbassò il volume della musica sull’autoradio. Lo stavano cercando.

– Avanti – rispose al microfono.

– Dottore, il dirigente ha chiesto espressamente di lei. C’è un omicidio, via Umberto Grosso 25, passo.

– Come?

– Via Grosso 25, terzo piano. Trova già lì la volante 3 e i vigili del fuoco, passo.

– Ma veramente, io stavo rientrando… Non c’è qualcuno più vicino, in servizio?

– É una richiesta del dirigente. Passo.

Aveva detto di sì, ci sarebbe andato. Ma dentro di lui stava montando una rabbia assurda. Non voleva perdere di vista il “suo” caso. Non voleva dare una soddisfazione al dirigente. Non voleva fare nulla, in realtà. Solo andarsene in albergo, mettere un cartellino sulla porta con su scritto: Non disturbate, mi sto macerando.

Non mise la sirena, ma accelerò. Accelerò ancora. La Fiat Uno sbandò un poco, mentre si metteva la cintura di sicurezza. Limite di velocità a 60 chilometri, avvertiva un cartello. Accelerò anche se stava per arrivare alla curva. Accelerò ancora. Aveva deciso di fare di testa sua, in un modo o nell’altro. Un incidente, auto fuori uso, impossibile arrivare sul luogo del delitto. Sei una testa di cazzo, si disse da solo.

L’auto sbandò, andò per conto suo. Mario Marco non provò neanche a combattere con il volante. La fiancata urtò il guarda-rail in cemento. Il commissario a un certo punto si decise a sterzare, l’auto lo seguì ma non fino in fondo. Mario Marco non vide il respingente che se ne stava proprio in mezzo al bivio, capì che c’era solo quando gli piombò addosso. Buio.

 

Erano seduti al tavolino, lo stesso della prima volta, ma non c’era più quella luce da rosticceria. Lui avrebbe voluto tenerle la mano, ma c’era qualcosa che glielo impediva. Il braccio non voleva seguire il suo pensiero. Lei stava parlando, adesso, ma non riusciva a sentire bene, le sue parole gli arrivano lontane, deformate: ...È il tuo modo di fare, il tuo modo di parlare, ti guardo per ore non mi stanco di imparare quella tua faccia così particolare… Cercò di tirare su la mano, ma quella restava immobile, sembrava addormentata. Lei continuava a parlare, ma sembrava che non si accorgesse della sua presenza …. Se c’è una cosa che mi fa impazzire è che guardi come i gatti, è il profumo che ti metti… Sono qui, avrebbe voluto dirle, ma non riusciva a parlare. Pensò a quando era bambino, si nascondeva dietro una poltrona e i suoi diventavano matti a cercarlo, e lui avrebbe voluto gridare: cucù, sono qui, ma gli sembrava di essere diventato un bambino muto, paralizzato, invisibile. E allora alla fine si costringeva a uscire dal nascondiglio, solo, per sentire che era ancora vivo, e tossiva, per ritrovare la voce. Non c’era verso di muovere la mano, e lei continuava a parlargli…

– Come si sente, signore? Come si sente?

Mario Marco aprì gli occhi, e vide su di sè due volti, due ragazze, anzi, due ragazzine. Una stava singhiozzando. L’altra cercava di parlargli.

…É il sorriso che fai, è la bocca che hai, sono i baci che mi dai… c’è poco da fare è impossibile negare che tu mi piaci, mi piaci da morire…

Il commissario riuscì a identificare il suono dell’autoradio. Lentamente, riuscì a muovere il braccio destro. Sentì una fitta alla spalla.

– Come si sente? Come si sente?

– Sto bene, sto bene – sentì qualcosa di umido sulla fronte, cercò di toccarsi con la mano destra, ma un’altra fitta alla spalla lo bloccò. Provò con la sinistra. Era sangue. Doveva essersi ferito con il parasole, o con lo specchietto retrovisore.

– Non si muova, è pericoloso – fece la ragazza. L’altra continuava a piangere.

Ancora un momento, pensò Mario Marco, ancora un momento ed esco dalla macchina. Cercò di spostare la gamba sinistra, ma c’era qualcosa che glielo impediva. La ragazza si spostò per farlo passare.

– É sicuro?

– Sono un commissario di polizia – disse. Poi però si sentì stupido. Era un poliziotto, mica un medico.

Alla fine, si tirò fuori dall’auto.

– Grazie – fece alla ragazza.

– Non ti preoccupare, va tutto bene – disse all’altra, quella che piangeva, cercando di nascondere una smorfia di dolore.

– Eravamo proprio dietro di lei, l’abbiamo vista uscire di strada – La ragazza aveva un brillantino al naso, e portava un berretto grigio. Mario Marco pensò che era carina, ma un po’ troppo piccola. Doveva avere sedici anni.

– Siete in motorino senza casco – disse ridendo. La spalla continuava a fargli male. Lei fece una faccia preoccupata.

– Scherzo. Grazie per avermi aiutato. Va tutto bene, ho solo male alla spalla.

– É ferito – disse la ragazza.

– Come?

– É ferito alla testa – e gli allungò un fazzoletto di carta.

– Grazie, grazie, non è nulla.

– Non vuole che chiamiamo un’ambulanza? Ho il telefonino…

– No, ho la radio in macchina, grazie. Va tutto bene.

 

Guardò le due ragazze ripartire in motorino. Va tutto bene, pensò. Mica tanto. Passò un’auto, poi un’altra. Il tizio alla guida rallentò, per vedere cos’era successo. Il commissario gli fece un gesto: va tutto bene. Quello accelerò di nuovo. Mario Marco tornò alla Uno. Un fanale era rotto, il paraurti era rientrato in parte. Qualche ammaccatura qui e lì. Poteva andare. La radio funzionava. Chiamò la centrale per segnalare l’incidente. Gli risposero di non preoccuparsi, c’era già un altro collega sul posto. Era sicuro, piuttosto, di non avere bisogno di un’ambulanza? Sì, era sicuro.

 

La porta dell’appartamento era aperta. Mentre saliva gli ultimi gradini, Mario Marco vide che l’ingresso era affollato di colleghi. Poi gli andò agli occhi il comò. I cassetti erano aperti per metà: dal primo uscivano lembi di lenzuola, dal secondo buste di plastica. Del terzo, invece, non si vedeva granchè. Qualcuno accostò la porta proprio mentre il commissario stava per entrare. Spazientito, la aprì con un piede, estrasse il tesserino ed entrò. La spalla gli faceva male, ma in compenso la ferita alla fronte aveva smesso di sanguinare.

In quella che doveva essere la stanza da letto la tv era accesa, anche se qualcuno aveva tolto l’audio. Mario Marco entrò, costeggiò il letto disfatto e lo vide. Il corpo era steso a terra sotto la finestra, coperto da un lenzuolo insanguinato. Accanto al corpo, un paio di libri, un fodero di occhiali, una statuetta di porcellana rotta a metà, una sedia rovesciata, un portacenere di vetro, un’abat-jour. Sugli ultimi due oggetti c’erano macchie di sangue. L’avevano ammazzato così, quello lì.

– Che fai qua? D’Artibale m’ha detto che hai avuto un incidente… – Di Gloria entrò nella stanza, seguito da un agente in divisa.

– Ho pensato che potevo essere utile… – rispose il commissario.

– Ma che ti sei fatto in testa? – gli disse il collega, accorgendosi della ferita – C’hai del sangue sulla fronte. Ti sei fatto guardare da un medico? No? Vai, vai, che tanto qui c’è poco da fare.

Mario Marco scosse la testa, poi si massaggiò la spalla. Il dolore era più forte. – Allora, che è successo?

– Bozzi Domenico, 50 anni, celibe, residente qui, estetista con salone in Prati. Sicuramente omosessuale…

Di Gloria, fosse che sei di sinistra?, si interrogò il vicecommissario, hai detto “omosessuale” e non frocio.

Omosessuale, anche se non dichiarato – continuò il collega – e comunque in questura non ce l’hanno tra gli schedati. Gli hanno legato le mani e i piedi col filo elettrico, poi l’hanno preso a botte in testa, sulla fronte e sulla nuca, con quella roba lì – indicò il portacenere e la lampada – Prima, ha tentato di difendersi e comunque ha lottato, se vedi il casino che c’è in giro. Lui è in slip e canottiera. Di là, invece, in bagno – il poliziotto indicò la direzione – c’è una maglietta sporca di sangue buttata in un angolo. L’idea che mi sono fatto io è che l’assassino ci si è pulito le mani, quindi magari qualche traccia ce l’ha lasciata.

Mario Marco si sentì all’improvviso debole, e il letto gli sembrò vicinissimo.

– Guarda che tu stai male – Di Gloria fece un passo verso di lui – vai a casa, vai a casa che è meglio. Già ce n’ho uno, di morto – Abbozzò un sorriso.

– No, no. Continua – gli rispose il vicecommissario – Manca qualcosa?

– Allora. Il fratello, che abbiamo già portato in commissariato, dice che manca il portafogli con dentro la carta di credito, il libretto degli assegni e non so quanto liquido. Poi il telefonino e un mazzo di chiavi di casa. Chi ha ammazzato ‘sto poraccio s’è portato via le chiavi e ha chiuso la porta a quattro mandate. Per entrare, abbiamo dovuto aspettare che i pompieri passassero da quella finestra lì e trovassero l’altro mazzo.

Squillò un cellulare. Di Gloria infilò una mano nella tasca interna della giacca. – Sì? Ah, dottore, stanno facendo i rilievi. Ho portato il fratello e gli amici della vittima in commissariato, e stiamo sentendo la gente che abita qui attorno. Come? Eccheccazzo… vabbe’, lo so… Sì è qui, glielo passo… Per te, è il vicequestore – Allungò il cellulare a Mario Marco.

– Dottore, che ci fa lì? M’hanno detto che ha avuto un incidente – D’Artibale sembrava seccato.

– Mi scusi, niente di grave, ho pensato che potessi comunque essere utile… – mormorò il vicecommissario.

– Non c’è bisogno, guardi, c’è Di Gloria. Eppoi, stanno arrivando quelli della squadra mobile. Adesso, quando si tratta di froci morti ammazzati, c’è sempre la mobile in mezzo ai coglioni. Vabbe’… Se ne vada a casa, e si faccia vedere da un medico. Mi dica poi di quanti giorni ha bisogno – Il vicequestore riattaccò senza salutare.

Mario Marco restituì il telefono a Di Gloria, salutò, un po’ imbarazzato e tolse le tende.

Io sto bene io sto male io non so come stare – diceva l’autoradio, che aveva riacceso appena era risalito in auto – io sto bene io sto male, io non so cosa fare. Non studio non lavoro non guardo la tv non vado al cinema non faccio sport…

Guardò l’orologio. Le quattro meno un quarto. Pensò di telefonare a Milva. Forse dormiva. Forse aveva il telefonino spento. Forse stava facendo l’amore con qualcuno. Forse sono un coglione, pensò.

 

[La foto del titolo è di Ithmus ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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