L’indagine scatologica: cap. 12

Dodicesima puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica”. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.

 

29 NOVEMBRE

 

Discobar molto molto alternativo. Praticamente, uno scantinato semibuio. Candele un po’ dappertutto, qualche luce stroboscopica, a cadenza regolarmente irregolare. Un centinaio di persone sulla pista, a occhio e croce. A questi qua una denuncia per violazione delle norme di sicurezza non gliela toglie nessuno, pensò Mario Marco. Il commissario era arrivato da un paio di minuti, e stava ancora cercando di abituarsi alla semi-oscurità, rotta ogni tanto dai riflessi delle luci. E alla musica.

Si fece largo tra la gente che ballava, diretto verso il bar. Stava tornando alla pensione, quando gli era sembrato di vedere Milva entrare lì dentro. Ora però l’aveva persa di vista. Ordinò la solita Coca-Cola. Lei non c’era. Pepsi va bene? Pepsi va bene. Otto sacchi? Alla faccia dell’alternativo. Però, non si paga per entrare… Trovò un po’ di posto, al riparo dalla gente che sgomitava ballando.

Mi hanno preso bene bene per il culo, pensò. Mi hanno messo in mezzo con questa storia del Geometra perché sono appena arrivato. Adesso si ammazzeranno dalle risate. A cominciare da D’Artibale.

No, pensò, non mi posso fare inculare così. Questa storia è completamente surreale, ma deve esserci una soluzione. Devo ricominciare tutto da capo.

Certo che però, se lascio stare le cose come stanno, mi prenderanno un po’ in giro ma finirà lì. Quieto vivere. Meglio il quieto vivere? Se invece faccio di testa mia e sbaglio, sono cazzi. Però…

All’improvviso gli sembrò di vedere Milva in mezzo a un capannello di gente. Si spostò in quella direzione. Fu lì che gli venne in mente quella cazzo di idea di prendere le manette. Di solito non le portava mai con sé. La pistola, quella sì, anche se non sempre sempre. Aveva giocherellato con le manette tutto il pomeriggio, in ufficio, rodendosi il fegato e sistemando una quintalata di carte. E alla fine se le era portate appresso, in una tasca interna del giaccone.

Eccola lì, Milva di spalle. Un attimo. Mario Marco le afferrò il braccio sinistro e l’ammanettò. Quella si voltò di colpo, la faccia stupita. È vestita in modo diverso, pensò il commissario, mentre diceva: – Stavolta ti ho preso. Stavolta non puoi scappare.

– Ma… – disse la ragazza.

– Ma… – disse il giovane che le stringeva la mano, quella libera.

Ho fatto una cazzata, pensò Mario Marco. Poi disse: – Be’, non rispondi?

La ragazza lo guardò ammutolita. Sembrava Milva, ma non era lei. Stesso viso. Uguale. Identica. Ma non aveva il tatuaggio che aveva visto la prima volta sul polso di Milva. Un trucco sottile. Una giacca chiara, un vestito chiaro.

Porca troia, pensò Mario Marco, ho sbagliato sorella.

– Ma lei è pazzo! Tolga immediatamente quella manetta! La tolga! – gli gridò contro il giovane. Poi, rivolto alla ragazza: – Stai bene, Mina? Ti fa male?

Mina scosse il capo, continuando a guardare incredula Mario Marco. Intorno, si era fatto un po’ di vuoto. La gente continuava a ballare, ma temendo la rissa si era spostata un po’ più in là.

Mario Marco stava ancora cercandosi in tasca la chiave delle manette, quando il tizio lo afferrò per il bavero del giaccone. – Forza, questa chiave, che Cristo! Sono un avvocato! Adesso chiamo la polizia! Qualcuno chiami la polizia! Chiamate la polizia! – Alla parola polizia, la gente si allontanò ancora di più.

Una ragazza tirò fuori il cellulare per chiamare il 113. Ci manca solo questo, pensò il commissario.

– Non serve, non serve – disse – Ecco… la chiave. Pensavo fosse Milva, scusate. Mi scusi – Il polso di Mina fu libero in un istante. L’altra ragazza era rimasta con il cellulare in mano, incerta.

– Testa di cazzo! Va a cercare Milva da un’altra parte – disse l’avvocato.

– Alfio, lascialo stare… – disse Mina.

– Macchè lascialo stare, lascialo stare. ‘Ste teste di cazzo di amici che si ritrova tua sorella!

– Alfio…

Mario Marco si fece di nuovo largo nell’ammucchiata danzante. Lo stavano guardando tutti. Cercò di non badarci.

 

30 NOVEMBRE

 

Lei era la regina della casa. Bionda ma non attraente, il suo viso era coperto di efelidi. Sembrava uno di quei pesci trasparenti e ciechi che sguazzano nei torrenti sotterranei. La sua pelle era chiara e mentre parlava, con un po’ di foga, le vene ondeggiavano sotto la pelle. Vestiva molto casual e al collo portava un paio di occhiali, col cordoncino di caucciù.

Lei era esile, ma non sembrava dolce. E la sua casa non era semplicemente una casa. Nel groviglio di piccole stanze e stretti corridoi che il commissario aveva attraversato non c’erano solo letti e panni da stirare, il mobile con la tv e le stampe alle pareti. Da uno sgabuzzino d’angolo arrivava un ronzio costante, sicuro. E all’interno, il buio era ravvivato da decine di led colorati. Perché lei – e loro: i bambini divisi da pochi anni d’età, con la loro capigliatura bionda ordinata da una riga scolpita, e suo marito, che nelle foto aveva begli occhi – non erano solo una famiglia. Insieme, erano un’intera stazione radiofonica, appollaiata su quell’attico, appena sotto l’antenna che sembrava spuntata per caso sul tetto.

Mario Marco si era presentato, poi si era seduto in quello che lei aveva chiamato “il tinello” in attesa che finisse il gioco a premi sponsorizzato da Marcello, Il Vostro Tappezziere.

La porta a soffio dello studio si era aperta, e la regina della casa ne era uscita insieme alle note di un jingle pubblicitario.

– Al telefono non gliel’ho chiesto: ce l’ha un mandato, per quei nastri? – domandò Claudia.

– Un mandato? – il vicecommissario sorrise su quella parola, mandato, che faceva molto telefilm americano – No, non ce l’ho, il mandato. É un’indagine, come dire? Un po’ delicata, un po’ riservata…

La donna lo guardò con un’aria maliziosa.

– La mia era solo una curiosità, dottore. Ci mancherebbe che non diamo una mano alla polizia. Però… – S’interruppe.

– Però?

– Ecco, i nastri bisogna prima trovarli e poi copiarli, e devo chiederlo ad Alberto, il nostro fonico. Solo che adesso non c’è. – S’interruppe di nuovo.

– E quando si possono avere, allora? – chiese Mario Marco.

La donna prese una Marlboro da un’astuccio di legno, proprio accanto al commissario. Lo guardò negli occhi mentre si accendeva la sigaretta, poi si allungò a prendere il portacenere su un tavolinetto, e nel farlo gli sfiorò un ginocchio.

– Lei ha molta fretta, dottore?

Mario Marco si ritrasse un poco sul divano. – Abbastanza, diciamo.

La donna si alzò, e si mise a camminare per la stanza. – Ma davvero pensa che la mia trasmissione sia utile alla sua indagine? La nostra è una radio piccola, una radio di quartiere…

– Però il caso ha suscitato un certo clamore. Potrebbe esserci qualcosa d’interessante, tra le telefonate che sono arrivate in studio da voi. Che ne so, magari ha chiamato anche quello che ha mandato la prima lettera. Oppure qualcuno che sa qualcosa di più. Ecco, questo tipo di cose qua.

– Ma non le avevano tolto il caso? – La donna lo guardò all’improvviso con un sorriso stronzo.

Mario Marco si alzò in piedi. – Senta signora, non sono venuto a farmi prendere in giro da lei…

Poi, all’improvviso si rimise a sedere. Cambiamo tattica, pensò.

– Allora. Non so chi glielo ha detto, comunque è vero. L’indagine non c’è, o almeno non ce l’ho io. Però, visto che ho un po’ di tempo, vorrei continuare a occuparmi di questa cosa. Va bene la spiegazione?

– Non volevo metterla in imbarazzo – la donna si mise una mano sul petto in segno di scusa – le prometto che farò la brava. Mi piacciono le storie poliziesche, guardo sempre il commissario Derrick.

 

Galletti lo stava aspettando al bar della pensione, concentratissimo nella lettura del “Corriere dello Sport”. Alla fine, dopo un paio di giorni, Mario Marco era riuscito a lasciargli un messaggio alla Gazzetta, fissando un appuntamento.

– Le devo alcune spiegazioni, dottore – fece il giornalista, con la coda in mezzo alle gambe, non appena lo vide arrivare.

– Mi sa di sì – rispose il vicecommissario – anche perché sennò, le rompo la faccia.

– Lei lo sa, come è il nostro lavoro… – disse Galletti, abbozzando un sorriso conciliante – certe volte bisogna avere iniziativa personale, sennò le notizie non si trovano…

– Guardi, lasci stare, non me ne può fregare di meno del mestiere che fa lei, mi basta il mio. Chi le ha dato le informazioni per scrivere quel pezzo? Come le ha avute?

Galletti tornò serio e cominciò a raccontare: – É andata così. Il vicequestore ha chiamato il direttore, e gli ha detto di mandare qualcuno perché c’erano degli arresti per un pattuglione. Quando non c’è niente da fare, D’Artibale si mette a fare i pattuglioni contro le puttane, ci vuole poco sforzo e in compenso fanno notizia. Insomma, sono andato al commissariato e D’Artibale mi ha fatto entrare in ufficio. Poi lui è uscito un attimo, e nell’attesa ho dato una guardata alle carte che erano sulla sua scrivania. É lì che visto il rapporto e la relazione del laboratorio d’analisi. Ho avuto il tempo di leggere praticamente tutto, o quasi. Poi D’Artibale è rientrato e si è dilungato con abbondanza di particolari su questa “operazione contro lo sfruttamento della prostituzione che ha permesso di sgominare un’organizzazione di media importanza attiva soprattutto sul litorale della capitale, ma che disponeva probabilmente di collegamenti internazionali”. All’improvviso, Mario Marco si ricordò di quel preside, quello che aveva denunciato alla polizia gli studenti per l’occupazione del liceo scientifico, solo poche settimane prima. La storia era uscita sul giornale, proprio come gli aveva anticipato D’Artibale. Il preside era stato quasi picchiato dai ragazzi, era dovuta intervenire la Celere per farlo uscire da scuola. Allora, D’Artibale aveva fatto lo stesso con la storia del Geometra. Figlio di puttana. Ma perché?

– Be’, era una bella storia, no? – Galletti aveva ricominciato a parlare – Un imprenditore che riceve buste piene di merda da un vendicatore anonimo. L’hanno ripresa anche alcuni giornali importanti.

– C’è una cosa che non capisco. Merola è uno che conta, ha un sacco di soldi. Perchè il suo direttore ha deciso di pubblicare la notizia? Non ha pensato che così avrebbe perso uno sponsor?

Galletti vuotò il bicchiere che aveva di fronte e pescò una manciata di noccioline. – Mah, l’aveva già perso. Pandoro, il direttore, fa sempre bene i conti. Merola ha smesso di dargli i soldi dopo una litigata, e lui si è alleato con la concorrenza. Anche se non ufficialmente, perché qua, sa, è meglio non prendere una posizione netta con uno o con l’altro, se non si conta troppo. E il direttore non è una potenza: si è fatto appena accettare dal Lions Club, perché gli hanno detto che è il primo gradino per entrare nella massoneria.

– Chi sono gli avversari di Merola?

– Gente più o meno come lui, magari un po’ meno importanti, capomastri che si sono arricchiti con l’abusivismo o con i soldi prestati a strozzo, almeno così dicono in giro. Che le posso dire, Mattei, Alfonsi, Locurcio. Oppure qualche negoziante, come Bucci. O una parte dei proprietari degli stabilimenti balneari.

– E secondo lei, che vantaggio possono avere a smerdare il Geometra?

– Non lo so. Magari, è solo per prendersi una soddisfazione a livello personale. Oppure ci sono di mezzo degli interessi, come Eurocartoon. Roba grossa. E comunque, qui si odiano tutti. Almeno quelli che contano.

– Guardi, io non so niente di questo posto, dei rapporti tra la gente, delle storie di questo o di quell’altro – Mario Marco si accorse di aver alzato la voce – Sono arrivato da poco, so solo che questo è un posto di mare dove il mare praticamente è come se non esistesse, una cittadina che ha preso il peggio del paese e il peggio della città, con la gente importante, che ha i soldi, che ha un sacco di debiti o che si vuole fare vedere, seduta ai tavolini dello stesso bar in piazza la domenica mattina o il sabato sera nello stesso ristorante, come se non ce ne fossero altri in un raggio di mille chilometri. Con quelli che ti parlano per messaggi cifrati, e passi le ore a pensare “perché mi sta dicendo tutte queste stronzate, che gli serve?”.

Il vicecommissario si accorse che Galletti stava ridendo.

– Che cazzo c’è da ridere?

– Niente. Benvenuto a Ostia. Le serve una guida turistica?

– Sì, mi serve una guida. E siccome fai il giornalista sei perfetto: ti interessi dei pettegolezzi, parli abitualmente con gli stronzi, eccetera eccetera…

– Grazie per la considerazione. E come mai si fida di me, adesso? Sono io quello che le ha smontato l’indagine.

– Dammi del tu. No, non è che mi fido di te così, gratis. Ho preso qualche informazione in giro. E poi, non hai pubblicato il mio nome sul giornale.

– Questione di simpatia.

– Mi fa piacere. Dammi una mano. In cambio, ti dico le cose che so io.

– Be’, allora vorrei sapere come mai è stato incaricato proprio lei, proprio tu, di questa indagine…

– È quello che vorrei sapere anch’io.

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