L’indagine scatologica: cap. 11
Undicesima puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica”. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.
24 NOVEMBRE
Mario Marco era rientrato in albergo tardi. Piuttosto tardi, anzi, perché il portiere di notte era già sprofondato nella poltrona davanti alla tv a vedere non la solita partita di pallone di un campionato extraeuropeo ma un magazine di ippica in inglese, apparentemente noiosissimo, su un canale satellitare.
Il commissario era a pezzi. Per quarantott’ore, in trasferta a Prato, non aveva fatto altro che controllare tabulati bancari, cercando di districarsi tra date di prelievo e numeri di serie. Il magistrato che si occupava del fascicolo della famosa “banda delle carte di credito” aveva sollecitato un controllo con un caso analogo che gli avevano segnalato i colleghi toscani, e Mario Marco era dovuto partire di corsa, lasciando in sospeso la sua indagine.
– Prendo la chiave – disse il commissario.
– C’è una busta per lei – disse il ragazzo, continuando a guardare la tv.
– Grazie.
Mario Marco aprì la busta di carta, del tipo grande, da ufficio, priva di indicazioni, mentre saliva le scale. Dentro, c’era una copia della Gazzetta di quello stesso giorno. Si fermò sul pianerottolo del primo piano per sfogliare rapidamente il giornale. In prima pagina, In basso a destra, c’era un articolo intitolato “Uno sporco ricatto”, firmato da Galletti. Non c’era scritto tutto, sulla storia delle lettere spedite al Geometra, ma abbastanza. Il resto era un ritratto quasi satirico di Merola. Si lasciava intendere che si trattasse di un ricatto di qualche genere, per quanto originale, ma non si faceva alcun accenno all’intervento della polizia, e il nome del commissario non compariva.
Mario Marco ridiscese le scale. – Chi ha portato questa busta? L’hai visto?
– No, l’hanno consegnata al collega del turno precedente, mi dispiace. Glielo può chiedere domani. Anzi, dopodomani, perché domani è libero.
28 NOVEMBRE
La fantasia di certa gente è smisurata, pensò Mario Marco. C’era chi l’aveva fatta direttamente dentro una scatola da scarpe – scarponcini stile Timberland, numero 39, da donna – spedendo l’intero pacco, e chi aveva raccolto con cura gli escrementi dentro un sacchetto di plastica, di quelli con su scritto “Non mi gettare, pensa alla Natura”.
C’era chi aveva pensato bene di aggiungere due righe di insulti, come se non fosse stato abbastanza chiaro il messaggio, che andavano da “cravattaro” a “mariuolo” passando per il sempreverde “infame”.
Il commissario e Paolini avevano diviso e classificato trentasette tra buste e pacchi. Tre somigliavano vagamente all’originale, cioè contenevano solo escrementi umani, almeno a un primo e parzialissimo esame, avevano l’intestazione scritta a macchina (ma la macchina utilizzata sembrava diversa in ognuno dei casi) e la busta disponeva di una strisca autoadesiva. Dodici contenevano anche messaggi, e in tre casi il messaggio era stato composto con lettere o parole stampate, ritagliate dai giornali.
Mario Marco si ritrovò a scrutare con curiosità il contenuto di una busta coloratissima, stile Hollie Hobbie: a prima vista sembrava merda di gatto, e il vicecommissario pensò, con inconfessabile tenerezza, a una bambina di nove anni un po’ cicciona che andava a pescare con il guanto da forno della mamma nella vaschetta del suo micio. Mio papà ha detto che ti mandano la cacca perché sei uno stronzo, aveva scritto la mano con grafia infantile. Che dolce.
In quattro casi le buste erano di quelle da ufficio, con l’apertura laterale bloccata da una linguina di metallo, ma c’erano anche cinque pacchi di dimensioni variabili, due buste con all’interno biglietti di auguri prestampati (uno con Snoopy e Charlie Brown, l’altro era opera di un pittore focomelico costretto a dipingere con la bocca, come spiegava una minuscola nota), e una dozzina di buste di varie misure, una delle quali conteneva anche un minuscolo flacone di quella che sembrava urina, a prima vista.
I “reperti” come si ostinava a chiamarli Paolini, erano ancora custoditi nello stesso scatolone che Dolores – la cameriera filippina di casa Merola – gli aveva consegnato quella stessa mattina, e su cui la donna aveva spruzzato uno di quei deodoranti da bagno.
Il commissario era stato chiamato al telefono dal vicequestore in persona alle sette di mattina, e convocato d’urgenza al commissariato. D’Artibale aveva spiegato molto laconicamente la situazione: dopo la pubblicazione dell’articolo sulla Gazzetta, a casa del Geometra erano arrivate qualche decina di buste, tutte contenenti escrementi. Merola era contrariato, molto contrariato per l’accaduto, e aveva pregato il vicequestore di mandare qualcuno a ritirare le buste, e poi, di dare un taglio all’inchiesta. Meglio lasciar stare, sperando che il caso non suscitasse ancora più clamore. Oltretutto, su una radio locale era andato in onda un filo diretto sull’argomento, aveva telefonato parecchia gente inveendo contro Merola. Chissà, tra loro c’era anche chi aveva spedito quelle lettere.
– Ha già telefonato il “Corriere della Sera” – si lasciò andare D’Artibale – e mo’ ci mancano solo i mazzabecchi della stampa nazionale per farci fare una bella figura da cazzo, a noialtri.
Mario Marco si limitò a chiedere cosa avrebbe dovuto fare delle buste, ma D’Artibale grugnì solo: – E io che ne so, le sotterri in pineta.
A mezzogiorno, Mario Marco era stato nuovamente convocato nell’ufficio del dirigente, questa volta dalla segretaria bionda mesciata.
D’Artibale era di spalle, stava sbirciando dalle tapparelle. Mario Marco si schiarì la voce. – Mi ha fatto chiamare, dottore?
– Si segga, si segga. Ho parlato di nuovo col Geometra, non è affatto contento di come sono andate le cose. Io però l’ho difesa. Ci mancherebbe, uno come lei, con il suo curriculum. Ci mancherebbe. Capisco che un trasferimento così rapido… insomma, si deve ambientare, ci vuole un po’ di tempo pure per chi fa un mestiere come il nostro, mica siamo soldatini. Non è colpa sua, è colpa mia, le ho affidato una cosa un po’ troppo delicata, ho preteso troppo. Lei, però, non si deve sentire in imbarazzo. É giovane, e guardi che certe cose succedono anche ai vecchi del mestiere come me. Con questi qui non si sa mai come comportarsi. É gente che pretende, che pensa di avere sempre a che fare con dei domestici. E vagli a spiegare che facciamo un lavoro delicato, che corriamo rischi, che c’è lo stress… Perché, sa, in quartieri come questo mica bisogna essere solo poliziotti, ma anche un po’ psicologi, sennò non si va avanti. Eppoi il Geometra è uno difficile da trattare, lo so. Ecco, pensi che noi facciamo un po’ i preti. Facciamo più i preti che gli sceriffi. Diamo consigli, li assistiamo, spiritualmente, psicologicamente. E così le cose vanno avanti.
D’Artibale fece una pausa, poi passò al tu.
– Lo so che tu ci hai messo impegno, ci mancherebbe. Ma che te lo dico a fare? Questi qui non ci capiscono… Ti do solo un consiglio, gratis. Ecco, il consiglio è: ambientati, capisci come funzionano le cose, come funziona la gente, soprattutto, ma non dare troppa confidenza. Ecco, la confidenza te la devono dare loro, le nostre pecorelle. Tu l’hai mai visto un prete che si confessa? No. Ecco, noi facciamo lo stesso. Non ti preoccupare, non ti devi preoccupare per quello che è successo, che tanto le spalle del dirigente sono grandi – e se le toccò entrambe con gli indici – e coprono tutti. Però, non dare troppa confidenza. Ti volevo dire solo questo – Il vicequestore si accese una sigaretta.
Mi sta dicendo che è stata colpa mia, che ho fatto uscire la notizia, concluse Mario Marco, imbarazzato, incazzato, ma ancor più affascinato dall’oratoria sommamente democristiana del vicequestore.
– Ué, hai perso la lingua? – fece D’Artibale.
– É… è che volevo sapere se posso continuare comunque a seguire il caso. Bisognerebbe analizzare le ultime lettere arrivate, ci potrebbero essere delle analogie, potrebbe essere un ricatto e…
Mentre lo diceva, Mario Marco pensò che aveva ragione la sua ex moglie: sono un masochista, è vero.
– Ma che lingua parlo? – D’Artibale scattò in avanti, fermandosi a venti centimetri scarsi dal suo viso, spirandogli in faccia il fumo della sigaretta.
– Ti devo fa’ un disegno? Che ti ho detto? Hai fatto bene, bravo, mo’ ti diamo una medaglia? Tu, quelle lettere, te le devi dimenticare. Che credi, di fare carriera con queste stronzate qui? Nel commissariato mio si lavora, le hai viste le statistiche sui furti, gli scippi e le mignotte? Io mi faccio un culo così qua dentro, e mica per niente. E chi lavora per me, con me, si fa un culo così lo stesso. Se pensi che qui fai carriera così – fece schioccare le dita – ti sei sbagliato. Qui mica siamo al paesello, a dare la caccia ai ladri di polli. E se vuoi fare a chi c’ha il cazzo più lungo, guarda che caschi male.
Mario Marco si alzò in piedi. – No, guardi, ha capito male, io non volevo mica…
All’improvviso il dirigente sfoderò un sorriso.
– Mettiti a sedere, ché ti sei spaventato? – Il commissario si rimise a sedere.
– E che cazzo, vabbe’ che sei giovane, ma ti devi impara’ a tratta’ con i superiori. I cazziatoni fanno parte del mestiere. Stai sprecando troppo tempo su un caso che non è importante, come te lo devo di’? Eppoi, non abbiamo aperto nessun fascicolo, non c’è nessun magistrato. Niente. Era solo una forma di cortesia verso un caro amico del commissariato, mica un’indagine. E siccome il caro amico ci ha chiesto di lasciare stare, noi lasciamo stare. Punto. Guarda, siccome ho capito che questa cosa è imbarazzante, che ci hai lavorato bene anche se poi è uscita sul giornale… Ecco, prenditi un paio di giorni, che oltrettutto mi sai che c’hai delle ferie arretrate. Ti riposi… Ce l’hai la fidanzata? Ci risentiamo tra un paio di giorni – il vicequestore si alzò dalla scrivania, e Mario Marco fece altrettanto – e ti affido un altro paio di cose importanti. E non ti fare il sangue cattivo, nel nostro mestiere non bisogna mica offendersi.
D’Artibale aprì la porta.
– E ricordati quello che ti ho detto: noi siamo come gli psicologi. Anzi, di più. Come i preti.
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