Porta Portese, il mercato dopo il virus
Guardandomi intorno mi accorgo che molti fra gli avventori sono mal messi, mal vestiti, gente che è lì per comprare qualcosa che gli serve, e che può comprare a quei prezzi solo a Porta Portese. I fighetti in cerca dell’affare librario o vinilico invece sono meno presenti.
Mi cade l’occhio sulle opere dell’orrendo Gorky edite da Editori Riuniti e penso a quanto male abbiano fatto György Lukács e L’Unione Sovietica alla letteratura russa. Passo oltre, vedo molti anziani anche dietro le bancarelle, nella via che fu dei russi trovo un signore che si aiuta a respirare con un bombala d’ossigeno, ha dei naselli che gli circondano il collo prima di entrargli nelle narici. Penso che deve essere molto importante per lui essere lì sulla sua sedia pieghevole. Mi fermo, compro un po’ di cose.
Porta Portese è un pezzo della vita di Roma e dei romani da tanto tempo, anche per quelli come me che quando sentono una canzone di Baglioni hanno un attacco glicemico.
È il mercato delle pulci di Roma, un Portobello meno pettinato, meno per turisti, certamente più disgraziato. In questi anni, come un po’ tutto a Roma, è peggiorato, meno antiquariato e più stracci, vestiti, scarpe e tovagliame. Comunque resta quel posto strano in cui puoi veramente trovare di tutto: dalla rubinetteria al libro antico e raro. Il Covid è riuscito dove migliaia di firme raccolte dai residenti per le vie in cui si svolge non sono mai riusciti: l’ha chiuso di punto in bianco.
Domenica 7 giugno però, dopo più o meno due mesi di lockdown, anche Porta Portese ha riaperto. Ci sono meno banchi, meno persone, anche qualche ingresso ufficiale in cui ti misurano la temperatura. L’entrata da cui passo io è quella in Via Bezzi, davanti al palazzo delle Acli: mi fermano perché non ho addosso la mascherina. La cosa mi diverte. Per me Porta Portese è casa, un luogo dove giocare e perdersi da quando avevo otto anni.
Faccio il giro del palazzo delle Acli ed entro senza alcun controllo, mi metto la mascherina e vado a prendere un po’ in giro i ragazzi che con un gilet giallo indosso, un walkie talkie e un termometro presidiano gli ingressi.
Gli stewart mi confessano di non conoscere il luogo, uno di loro stupito vuole ripercorrere i miei passi per capire da dove sono entrato, un altro la fa più spiccia e mi dice che comunque loro anche da là vedevano chi entrava da quella parte. Gli chiedo chi li abbia reclutati, mi spiegano che è stata l’organizzazione dei venditori. Li saluto e mi addentro.
Porta Portese è un assembramento per definizione anche a febbraio quando piove a dirotto, il 7 giugno è una bellissima e assolata domenica di fine primavera. Ci sono molte meno persone e qualche bancarella di meno ma è un mercato con la densità e la prossemica di un mercato. Qualcuno porta la mascherina abbassata, qualcuno non ce l’ha. Certo non c’è alcuna forma di distanziamento sociale.
Guardandomi intorno mi accorgo che molti fra gli avventori sono mal messi, mal vestiti, gente che è lì per comprare qualcosa che gli serve, e che può comprare a quei prezzi solo lì. Devo tornare indietro perché ho sbagliato la misura di un guscio per un tablet, ripercorro le stesse strade passo davanti alle stesse bancarelle ma un po’ più lesto, non incontro un vigile; mentre frugo tra le cose nelle bancarelle nessuno mi chiede di mettere guanti o pulirmi le mani. Del resto, per presidiare un mercato come Porta Portese ci vorrebbero una decina di reparti della celere e non due vigili e un paio di stewart. Non è una grande réouverture ma comunque ha riaperto e un mio amico, assiduo frequentatore, mi dice che ci si faranno grandi affari, dato il periodo.