L’indagine scatologica: cap. 5

Quinta puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.

Qui la puntata precedente. A questo link la puntata numero 3. Trovate qui la seconda puntata. Qui invece il primo episodio e la lista dei personaggi.

 

6 NOVEMBRE

 

Le analisi di laboratorio effettuate non avevano portato a nessun risultato sconvolgente. Nella parte interna della busta e sui due fogli bianchi formato A4 in cui erano avvolte le feci, non c’erano impronte. Le tracce sulla superficie esterna della busta appartenevano invece a quattro persone diverse. Uno, era un pregiudicato per reati contro il patrimonio, un piccolo furto di vent’anni prima. Per scrupolo, Mario Marco controllò: era il proprietario di una tabaccheria della zona. Evidentemente era lui che aveva venduto la busta all’anonimo. Le altre impronte appartenevano probabilmente a un impiegato dell’ufficio postale, al postino che aveva consegnato materialmente la busta a casa del Geometra, allo stesso Merola o alla domestica. O forse anche al mittente anonimo, che però era sconosciuto alla polizia.

Impossibile anche ogni controllo grafologico. Sulle buste e sui fogli non c’era alcuna scritta a mano. Il nome e l’indirizzo del Geometra era stampato – con una stampante laser di buona definizione, sembrava – su una etichetta autoadesiva, applicata poi sulla busta.

Anche le analisi sulle feci si dimostrarono piuttosto inutili: appartenevano a qualcuno che aveva mangiato pasta, bistecca, mais, pomodori, frutta.

L’unico dato interessante, casomai, riguardava la psicologia dell’anonimo. Quelle feci che si presentavano in noduli separati e duri, simili a noci – gli aveva spiegato per telefono il tecnico del laboratorio, parlando di una “Scala delle feci” di un certo Bristol – erano abbastanza tipiche di una persona stitica, perché gli escrementi restavano diversi giorni nell’intestino, essiccandosi. Almeno ho un indizio, pensò Mario Marco, magari si tratta di uno con qualche problema, un po’ nevrotico. O magari è un avaro: spesso gli avari, si ricordò di aver letto da qualche parte, sono stitici.

Il commissario aveva controllato la situazione di Dolores, la domestica filippina, che aveva un regolare permesso di soggiorno e un figlio di ventidue anni che lavorava come domestico a Perugia, ed era pulito. Come il giardiniere che s’occupava delle piante di casa Merola.

Mario Marco aveva fatto qualche ricerca sui vicini di casa, e qui qualcosina era venuta fuori. Il proprietario di una villetta con piscina che confinava con quella del Geometra si era fatto qualche anno per traffico di droga. Secondo i colleghi, era ancora nel giro: non si era fatto più beccare, ma loro lo aspettavano pazientemente al varco.

Interessanti anche gli abitanti di un complesso quadrifamiliare a poche centinaia di metri. L’uomo sulla sessantina che possedeva una vecchia jeep aveva qualche denuncia per atti osceni: pare che si divertisse a masturbarsi in finestra, nel condominio in cui abitava prima di trasferirsi da queste parti, davanti a casalinghe occupate a sbattere tappeti e stracci da spolvero.

La sua vicina era invece schedata come prostituta: probabilmente non esercitava più la professione, ma si accontentava di affittare un pied-à-terre alle colleghe.

Finalmente, un vero sospetto: Baglioni Enrico, un ex funzionario comunale arrestato perché accusato di pretendere tangenti in cambio di facilitazioni su licenze edilizie. L’uomo era stato poi assolto (con la dizione che nel nuovo codice di procedura penale sostituva la vecchia assoluzione per mancanza di prove, però). Reintegrato con tante scuse nel suo posto di lavoro, alla fine si era licenziato. Ora lavorava per una grande impresa edile, uno di quei giganti delle costruzioni che vincono spesso appalti nell’est Europa e in Germania. Sarà stata una ricompensa per i servizi svolti, pensò Mario Marco.

 

Pur senza avere alcuna autorizzazione, il commissario era riuscito a sapere qualcosa sui movimenti bancari di Baglioni, grazie a un solerte funzionario di banca che gli aveva indicato il sovrintendente Paolini. “Sempre a disposizione quando serve, dottore, ho fatto il poliziotto anch’io, l’ausiliario…”.

– Per fortuna che questa non è un’indagine ufficiale, dotto’ – gli aveva detto Paolini il giorno prima ridendo – sennò ci serviva pure la firma di qualche scassacazzo di magistrato. Eppoi, tutte quelle carte da riempire, eh?

Comunque, i conti dell’ex impiegato comunale sembravano immacolati. Anche se, aveva aggiunto il bancario, probabilmente il tipo aveva un altro conto, ma roba da poco tutto sommato, in Svizzera. E lì, lui non poteva arrivare.

 

Il telefonino continuava a squillare, senza che nessuno rispondesse. Strano, pensò Mario Marco richiamando ancora una volta, il Geometra sembra uno di quelli che il cellulare se lo portano pure al bagno.

– Sìììììììììì? – A un certo punto, rispose una voce femminile.

– Sono il commissario Mario Marco – disse.

– Chiiiiiiii? –

Il vicecommissario si pentì di non aver chiamato Merola a casa.

– Sono il commissario Mario Marco – ripetè.

– Chiiiiiiii? Aspetti, mi sposto. Aspetti, eh?- La voce apparteneva sicuramente a una giovane donna.

– Ecco… Chi è? Mi sente?

– Sì, buongiorno, sono il commissario Mario Marco. Cercavo il Geometra.

– Chi?

– Il geometra Merola. Mi ha dato lui questo numero.

– Credo che ci sia un errore, questo non è il numero del Geometra – disse la donna, con improvvisa freddezza.

– Mi scusi – disse Mario Marco, guardando di nuovo il biglietto da visita di Merola. Invece di fare il numero sottolineato in rosso, aveva chiamato l’altro.

– Evidentemente ho sbagliato numero –

– Aspetti – la voce tornò calda – Lei è della polizia, no? Come ha detto che si chiama?

Il commissario sospirò. – Sono il commissario Mario Marco – Poi aggiunse, un po’ spazientito: – Mi scusi, posso sapere con chi sto parlando?

– Sono Mina Merola. Perché cerca papà? C’è qualche problema?

– Ecco, è una faccenda un po’ delicata, sa, non so se al telefono….

– Non si preoccupi, ho capito. Papà ce ne ha parlato, a me e mia sorella. Lei è la persona che se ne occupa?

– Sì, ma… stiamo facendo alcune verifiche, sa…

– Capito. Mi scusi, non volevo essere troppo curiosa o insistente. Le do il numero del portatile di mio padre.

– Credo che non serva – disse Mario Marco – Ecco… mi sa che ce l’ho già: è 0337 …?

– Sì, è questo.

La voce della ragazza era piacevole, molto calda. Vorrei incontrarla, forse almeno riesco a trovare un lato piacevole in questa cazzo di faccenda, pensò il commissario, magari è carina.

– Senta, pensavo, vorrei incontrarla per parlare della faccenda di suo padre, qualche idea, qualche informazione…

– Dovrei venire al commissariato? – chiese la ragazza, un po’ titubante.

– Noooo, possiamo incontrarci anche fuori, non è un problema…

– Va bene in un pub? – lo interruppe Mina.

– Sì, va bene.

– E va bene anche di sera, alle dieci e mezza?

– Va bene anche alle dieci e mezza… stasera, domani sera?

– Domani sera.

– Va bene, va bene. Se mi dà l’indirizzo…

 

Il portiere di notte era seduto in poltrona a guardare una partita di qualche campionato di calcio sudamericano. Era un ragazzo di vent’anni, conosceva diverse lingue e aveva fatto la scuola alberghiera, l’avevano assunto subito. Ma sperava di restare lì il meno possibile, gli aveva detto una delle prime volte che lo aveva visto. Stava mettendo i soldi da parte per andare in Australia. Cinque, sei mesi a fare surf libero sulla costa del Pacifico, abbastanza a nord. Solo mare e surf, e una tenda. Poi avrebbe cercato un lavoro negli alberghi della zona. Andava bene tutto, da lavapiatti a fattorino ad aiuto cuoco. Tanto lì faceva sempre caldo ed era sempre pieno di turisti. Glielo aveva detto un suo amico inglese, che c’era rimasto un anno. Adesso l’amico dormiva fuori, nel cortile dietro il centro sociale occupato. Era arrivato l’estate per fare windsurf, gli era piaciuto il posto, era rimasto. Ma lui, il portiere-surfista, era preoccupato che qualcuno gli desse fastidio mentre dormiva.

– Manderò una volante ogni tanto a vedere – aveva cercato di rassicurarlo Mario Marco.

– No, sa, è peggio, poi la polizia lo manda via – aveva risposto il ragazzo.

 

– Prendo la chiave – disse il commissario.

Il ragazzo si girò, mormorò un “Ok”, e un “Buonanotte”, poi continuò a guardare la tele.

Mentre attraversava il corridoio del primo piano, Mario Marco sentì il solito rumore di una coppia che scopava, a beneficio degli ospiti delle altre camere. Non era un segreto che l’albergo fosse frequentato non solo da gente che veniva a lavorare da fuori ma anche da un gruppetto di prostitute slave che facevano compagnia ai poveri lavoratori lontani dalle famiglie, e che ogni tanto si tiravano appresso anche qualche cliente da fuori.

Una volta, una, una rossa, aveva cercato di rimorchiare anche lui. Non che non fosse carina, ma non c’era andato. Un po’ si vergognava, anche perché era un poliziotto, un po’ perché era di quelli convinti che una donna vada conquistata sempre, e che se te la dà a pagamento non vale. E comunque, anche se avesse rimorchiato una ragazza, non una puttana, non l’avrebbe portata lì. Ma ancora non gli era successo.

Soprattutto, però, si meravigliava come le prostitute e i loro protettori – perché ce n’era più di uno – non si fossero presi mai la briga di trovare un posto un po’ più lontano dal commissariato.

Entrò nel miniappartamento – in realtà una stanza neanche tanto grande con un bagnetto – e accese la tv. Su Rete 4 davano un vecchio film. Gli fece tornare subito in mente la sua vita di prima, quando tornava a casa da lei, e la trovava addormentata sul divano, davanti alla tv, il film finito da un pezzo e una delle solite televendite strillate in corso.

Era durato solo un anno. Tredici mesi e diciassette giorni, per essere precisi. Lidia si era stufata. Non della vita da poliziotto. Si era stufata di lui. Dopo aver fatto la fidanzata per tanto tempo, dal primo anno del liceo, si era stufata. Vivere insieme, vivere insieme a lui, non le era piaciuto. Lui lo aveva capito subito, ma aveva fatto finta di niente. Poi, quando anche lui aveva smesso di entusiasmarsi, cercando di tornare a casa sempre più tardi, se lo erano detto. Senza drammi.

Lei sapeva già dove andare ad abitare, insieme a un’amica. Lui aveva già deciso di farsi trasferire. Subito dopo lei si era messa con un altro poliziotto, uno che lui conosceva solo di vista, e che avevano incontrato insieme a una festa. Un tipo fico, uno della Interpol, niente da dire. Niente da dire neanche sul fatto che lei aspettava il tipo fico a casa, che aveva chiuso il laboratorio di ceramiche e che c’era un bambino in arrivo. Si telefonavano, ogni tanto. Lei gli diceva: stai attento. Lui non le diceva nulla. Ogni tanto lui pensava a lei che faceva l’amore con il tipo fico, ma sempre più raramente. E sempre più raramente si ricordava com’era fare l’amore con lei.

Lui aveva avuto altre storie. Poche, a dire il vero, perchè si sentiva sempre un po’ coglione a provarci con qualcuna. Però era abbastanza carino da farsi rimorchiare, almeno una volta ogni tanto. E abbastanza bravo a farsi lasciare subito dopo, senza complicazioni.

Cercò di seguire il film in tv, ma non ci riuscì. Aveva un po’ voglia di scopare, e prima di addormentarsi pensò alla rossa.

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