La sacralità del vuoto
È il 27 marzo dell’Anno Domini 2020. Jorge Mario Bergoglio, primo sudamericano e primo gesuita ad essere assurto al soglio di Pietro, col nome pontificale di Francesco, 266esimo Papa della Chiesa Cattolica, vescovo di Roma, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, primate d’Italia, dopo aver celebrato messa al cospetto della Salus Populi Romani e del Crocifisso di San Marcello, esce a terminare la cerimonia sul sagrato di San Pietro, davanti a una piazza buia, deserta, battuta dalla pioggia.
Le immagini di quel momento risaltano subito per la loro straordinaria potenza evocativa. Sono le prime settimane del cosiddetto lockdown, dovuto al diffondersi dell’epidemia di coronavirus, e milioni di italiani, costretti in casa dalle disposizioni governative, sono incollati al televisore a seguire la diretta su Rai Uno.
Forse neanche il più visionario dei registi, un Fellini, un Kubrick, un Lars Von Trier, sarebbe stato capace di rendere meglio la forza simbolica e immaginifica di quell’istante, la potenza di luce caravaggesca che pare emanare dalla figura in bianco, illuminata dai riflettori e circondata dal nero cupo di una serata fredda, piovosa, scura come l’assenza di speranza.
“Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi”.
Le parole di Bergoglio vengono rilanciate dal silenzio immobile e quasi irreale che lo circonda: “Scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori”.
La scena si ripete, quasi identica, qualche settimana dopo, in mondovisione. È ancora un venerdì, il venerdì Santo prima della Pasqua, giorno in cui si ricorda la passione di Cristo e si celebra la Via Crucis in una piazza San Pietro priva di fedeli.
Sulla grande pedana da dove il Papa presiede alla cerimonia, Bergoglio riceve la croce dalle mani di un infermiere: la afferra appoggiandovi il capo, quasi a simboleggiare la volontà di caricare su di sé le sofferenze di ogni uomo, nei giorni terribili dell’epidemia. La scena, anche stavolta, è potente, capace di scuotere milioni di coscienze.
Tradizione e modernità
Da quando nel 2013 fu eletto Papa, dopo le sorprendenti e inattese dimissioni di Benedetto XVI, Jorge Mario Bergoglio ha fin da subito attirato su di sé un numero crescente di critiche, da parte sia di ambienti ecclesiastici che laici. Spesso malvisto per un presunto eccesso di “secolarizzazione” del suo mandato apostolico, per una linea poco attenta ai riti e alla sacralità ieratica, che invece aveva caratterizzato il pontificato di Joseph Ratzinger, la figura di Papa Francesco è stata spesso circondata da sospetti.
Dal rifiuto di indossare la “mozzetta” e il “camauro” (quella mantellina rossa e quel cappello di velluto con bordo di ermellino, in stile rinascimentale, spesso sfoggiati dal suo predecessore), alla “ostentazione” pauperistica del suo stile di pontificato, evocata fin dalla scelta del nome pontificio (quel Francesco che parrebbe ricordare il poverello di Assisi), Bergoglio viene a volte accusato di non essere all’altezza del proprio ruolo, di dimenticare l’importanza sacra della tradizione e dei simboli.
Ancora pochi giorni fa, in un’intervista apparsa sulla rivista “Corrispondenza Romana”, l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America, così si esprimeva parlando di Francesco Primo: “Rifiuta con ostentazione di comportarsi da Papa, di indossarne le vesti, di averne il linguaggio prudente e saggio, di adottarne i titoli… Dietro tutto ciò non c’è alcuna umiltà, ma il perseguimento di uno scopo narcisistico… Alla voce composta e pura della Liturgia si è sostituito lo strepito volgare e profano: come possiamo sperare che la nostra preghiera sia gradita al Cielo?”. Parole durissime.
Ancora, alla fine di febbraio di quest’anno, il filosofo Diego Fusaro, in un suo intervento radiofonico, lanciava pesanti accuse contro il Papa, contrapponendolo così al suo predecessore: “Ratzinger aveva provato, con la forza del Logos, ad affrontare il nichilismo imperante in Europa. Invece Bergoglio, il primo pontefice del globalismo, non par scosso dall’ormai egemonica scristianizzazione del nostro continente… La sua missione, è evidente, consiste nel distruggere dall’interno la Chiesa e il Cristianesimo”.
La potenza del paradosso
La diffusione del virus, che sta sconvolgendo il mondo, ha finito però per rimescolare le carte e le certezze, anche nelle stanze Vaticane e fra i detrattori del Papa argentino. Era da decenni (e forse mai in questo secolo) che un Papa non riusciva a scuotere le anime dei fedeli con tanta forza, come accaduto nelle ultime sue uscite pubbliche. Mai un pontefice era entrato ogni giorno nelle case di tutti gli italiani, come avviene puntualmente ogni mattina alle sette, con le sue messe quotidiane in diretta tv. Né mai, in questo millennio, una cerimonia religiosa aveva probabilmente avuto la forza ieratica e rituale di quella celebrata, quasi in totale silenzio, ma con un significativo disturbo causato dai rumori delle ambulanze, in piazza San Pietro venerdì 27 marzo.
Per uno di quei paradossi a cui la vita e la storia ci hanno spesso abituati, è dunque proprio il Papa secolare, quello che a detta di molti sarebbe stato eletto per svilire il cattolicesimo, che, fosse anche contro la sua stessa volontà, sta generando in milioni di cattolici (e in alcuni casi persino di atei) un nuovo e diffuso anelito di spiritualità.
La potenza plastica della sua veste bianca nella notte nera di San Pietro, ha saputo trasmettere il valore simbolico del rito anche a un mondo secolarizzato. “Non mi era mai capitato di vedere Dio, come invece mi è successo l’altra sera”, mi ha scritto giorni fa un mio amico “mangiapreti”, rigidamente agnostico, parlandomi della messa celebrata a fine marzo.
Se il suo predecessore aveva riempito ogni apparizione di simboli, di gesti della tradizione, di raffinatezze teologiche ispirate ai padri della Chiesa, è proprio l’assenza di tutti questi paramenti, evidenziata nello stile di Bergoglio, è il suo vuoto (ben simboleggiato dalla Piazza San Pietro scura e priva di fedeli), è quella mancanza apparente di segni riconoscibili di cui Papa Francesco sembra non essere mai circondato, che finisce per essere il più potente dei simboli, lasciando ampi spazi aperti per una nuova diffusa spiritualità. Spazi in cui la religiosità dei fedeli si accomoda e si moltiplica.
Quello del Papa è dunque un vuoto pieno di sacralità, è uno “spartito” non in “mettere” ma in “levare”, in cui ciascuno è costretto ad aggiungere del suo. Per questo, forse, tutto appare più in sintonia coi nostri tempi, questi tempi cosi dissacranti e individualisti: perché quello incarnato da Francesco è un rito di gruppo che non esclude l’apporto autonomo del singolo, è una tradizione che non esclude l’innovazione, una regola che non esclude l’autonomia.
D’altronde, fu proprio la capacità dei prima citati padri della Chiesa (a partire da San Paolo) di adeguare, modificare, sintonizzare gli insegnamenti della tradizione con lo spirito dei luoghi e dei tempi in cui si trovavano a vivere, che ha permesso al cristianesimo di diffondersi e di mantenersi vivo nei millenni. Sarà così anche in questo caso? Questo non lo so, ma so per certa una cosa: quell’immagine di un uomo in bianco, in piedi, da solo, circondato dal buio di una piazza nera, resterà a lungo a scuotere le nostre anime.
[La foto del titolo è tratta da Repubblica.it]
BELLISSIMO ARTICOLO SCRITTO MOLTO BENE E CON SENTIMENTO.