Ti conosco, mascherina

“Oh, niente da fare, nemmeno alla farmacia di via Monte Cervialto hanno più le mascherine, qualcuno mi può aiutare?” “Ciao. Prova a guardare dal cinese lì vicino. Io ieri lì le ho trovate. Hanno pure quelle professionali, le FFP3 o come cavolo si chiamano”. E’ uno scambio di messaggi che alcuni giorni fa ho avuto occasione di leggere sul gruppo Facebook “Sei del Nuovo Salario se…”, a cui sono iscritto, identico a migliaia di messaggi analoghi che stanno apparendo, in queste settimane di “quarantena”, su tutti i gruppi di quartiere romani e nazionali. 

Spontaneamente e un po’ ovunque, è infatti nato una sorta di mutuo aiuto e di utile scambio di informazioni, per far fronte a uno dei problemi che l’emergenza coronavirus sta evidenziando: la penuria di dispositivi di protezione.

È una penuria che si sta manifestando a tutti i livelli, incluso all’interno degli ospedali e delle strutture sanitarie. Anche la Regione Lazio si è trovata a dover far fronte a questa carenza e a dover reperire quantitativi ingentissimi di mascherine in tempi molto stretti. È così che, nel mese di marzo, è partita una disperata richiesta per le “vie brevi”, che ha finito per trasformarsi in una vicenda dai contorni rocamboleschi. 

immagine tratta dal sito vperemen.com

 

Si fa presto a dire truffa

La storia, per alcuni, probabilmente è nota: intorno alla metà di marzo la Regione Lazio si è trovata a dover commissionare la bellezza di 10 milioni di mascherine professionali (le cosiddette FFP2 e FFP3) di cui aveva disperato bisogno. Una commissione attivata con la clausola della massima urgenza, per una fornitura da consegnare tassativamente “entro tre giorni”.

A questo punto ci si aspetterebbe che a rispondere a una richiesta così poderosa sia una qualche grande multinazionale del settore, un qualche noto e importante colosso farmaceutico. Invece, ecco la prima sorpresa: a fornire le garanzie necessarie per la fornitura di mascherine, è la EcoTech, una piccola srl con sede a Frascati, apparentemente specializzata in lampadine a led e di cui risulta socio al 49% un semi sconosciuto cittadino cinese.
O almeno questo è ciò che appariva nei giorni scorsi su quasi tutti i mezzi di informazione.

Messa così verrebbe quasi da immaginare che, persino ai massimi livelli istituzionali, lo stato di necessità sia tale che ci si stia ritrovando a muoversi esattamente come fanno i cittadini del Nuovo Salario: “Oi raga, sono Zinga, mi servono 10 milioni di mascherine, ma alla farmacia di via della Pisana dicono che sono finite. Qualcuno può aiutarmi?”. “Oi bella Zinga, prova a vedere dal cinese a Frascati. Fuori al negozio c’è scritto ‘Lampade e lampadine’, ma dentro c’hanno un po’ di tutto. Sai come so’ i cinesi no? Io ieri ci ho trovato le mascherine e pure i pennarelli per mia figlia, che quelli ‘sto periodo so’ introvabili”.

Ma le sorprese non sono finite qui. A fronte di una spesa complessiva di quasi 36 milioni di euro a carico della Regione Lazio, in parte già versati all’azienda come previsto dal decreto “cura Italia”, a oggi, dopo quasi un mese dalla richiesta, dei 10 milioni di mascherine attese non ne risulterebbe arrivato a destinazione neanche uno. Tutto, a quel punto, lascerebbe davvero immaginare che l’operazione possa celare una colossale truffa.
Lascerebbe, appunto. Sui giornali e le tv scoppia furiosa la polemica, rilanciata da più e più voci. Anche l’opposizione in Regione alza la voce e grida allo scandalo. La vicenda sembra prendere contorni minacciosi.

Ma, all’improvviso, via via che passano le ore, tutto si sgonfia: La EcoTech giustifica il ritardo con oggettive difficoltà dovute a voli non partiti e ad altri imprevisti nei trasporti e, a dimostrare la sua buona fede, prospetta alla Regione di garantire con una polizza assicurativa gli acconti già versati. 

Si scopre inoltre che il “negozietto cinese di Frascati” che alcune fonti di informazione avevano dipinto, è in realtà un’azienda partner di Exor, il distributore ufficiale dei prodotti 3M e ha già lavorato per numerosi enti pubblici. A fronte poi di un incontro che si svolge fra EcoTech, Regione e Protezione Civile, il problema sembra risolversi per il meglio. 

Foto di Tim Dennell diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

Turbativa d’asta

Mentre In Regione la vicenda si sgonfia, un’altra presunta “truffa delle mascherine” sembra invece prendere contorni molto più inquietanti e concreti. La Guardia di Finanza ha infatti annunciato di aver arrestato nei giorni scorsi un imprenditore di Cassino, ex compagno di una nota attrice, per una presunta turbativa d’asta operata nei confronti della Consip, ovvero la centrale acquisti del Ministero dell’Economia.

La vicenda sembrerebbe la fotocopia dell’altra, con la differenza che in questo caso le accuse verso il presunto “turbatore” non arrivano da generici mezzi di informazioni e da “voci di corridoio”, bensì dagli inquirenti.

Secondo quanto riportano i media, gli inquirenti sono convinti che l’imprenditore sia riuscito ad aggiudicarsi una gara, finalizzata alla fornitura di 24 milioni di mascherine, utilizzando un’azienda agricola (a lui riconducibile, sulla base di quanto emergerebbe da alcune intercettazioni), la Biocrea, una società senza dipendenti e che da statuto avrebbe dovuto occuparsi principalmente di allevamento e di coltivazioni. 

Anche in questo caso le mascherine dovevano essere fornite in soli tre giorni, ma non sarebbero mai arrivate a destinazione. Durante le indagini che ne sono seguite, la Guardia di Finanza ha concluso che a carico delle Biocrea esistono “pregresse posizioni debitorie per violazioni tributarie, per oltre 150 mila euro, nei confronti dell’Erario”, elemento per il quale, in base alle normative vigenti, la società probabilmente non avrebbe neanche dovuto prendere parte al bando.

Sempre secondo i media, nonostante il tentativo non fosse andato a buon fine, l’imprenditore avrebbe provato a riorganizzarsi attraverso una seconda società di comodo, per aggiudicarsi un altro appalto pubblico da oltre 73 milioni di euro, questa volta relativo alla fornitura di guanti, occhiali e tute di protezione.
Certo, quel che c’è da dire è che niente di nuovo appare sotto il sole: purtroppo di truffe e di raggiri, fatti anche verso istituzioni pubbliche o alte autorità, la storia è piena, non solo in Italia.
E così, in attesa che le indagini facciano il loro corso, l’occasione può essere utile per andare insieme a riguardare negli “archivi storici” le truffe più sorprendenti (e a volte persino divertenti) del nostro recente e lontano passato.

Foto di Amir Appel diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

L’uomo che vendette la Torre Eiffel

Detta così sembrerebbe una scena di “Totò truffa”, quella della famosa vendita della Fontana di Trevi, trasportata in terra di Francia. Invece è accaduto davvero e per ben due volte! Protagonista fu un certo Victor Lusting, nato in Boemia, anche se fin da ragazzo trasferitosi a Parigi per motivi di studio. Dotato di prontezza di spirito e di grande intelligenza, Lusting era in grado di parlare fluentemente cinque lingue: ceco, tedesco, inglese, francese e italiano. La sua curiosa vicenda ebbe luogo nel 1925. 

La città di Parigi si stava riprendendo dai danni della prima guerra mondiale, ma i giornali davano risalto alle cattive condizioni in cui versava la Torre Eiffel. Costruita per l’esposizione universale del 1889, la torre avrebbe dovuto essere smantellata già nel 1909, ma i tempi e i costi necessari all’operazione, oltre all’utilità dimostrata dalla struttura come torre per le comunicazioni, fecero sì che l’operazione non avesse mai luogo. Anni di scarsa manutenzione l’avevano però ridotta in pessime condizioni, al punto da far nuovamente pensare alla sua demolizione.

Con l’aiuto di un complice di nome Robert Tourbillon, Lusting si procurò allora della carta da lettera con l’intestazione del Ministero delle Poste e dei Telegrafi (l’ente responsabile della torre). Fingendosi un funzionario del governo francese, affittò poi una camera all’elegante Hotel de Crillon. Sulla carta intestata scrisse una lettera ai più importanti commercianti di ferro del paese, spiegando loro che, a causa delle sue cattive condizioni, si era resa necessaria la demolizione della Torre Eiffel, invitandoli perciò nell’hotel per fare un’offerta per l’acquisto dei rottami metallici.

Uno degli invitati, un certo André Poisson, cadde nell’inganno e consegnò a Lustig una valigia con la cifra richiesta di 250mila franchi (l’equivalente di circa un milione di euro odierni). Inoltre, credendo che Lustig fosse un funzionario governativo corrotto, aggiunse anche una generosa mazzetta, al fine di assicurarsi con certezza l’affare. 

Quando, alcuni giorni dopo, Poisson si recò agli uffici del Ministero, dove i veri funzionari erano ovviamente all’oscuro di tutta la storia, capì di essere stato truffato, ma fu così imbarazzato dall’accaduto che rifiutò di denunciare il fatto alla polizia.

Visto il successo ottenuto in quella occasione, alcuni mesi dopo Lusting provò a ripetere l’impresa. Questa volta però la vittima, dopo essersi accorta dell’inganno, denunciò tutto alle autorità e, per sfuggire all’arresto, il truffatore fu costretto a lasciare in fretta Parigi e a trasferirsi negli Stati Uniti.

Foto di Geoff Livingston diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Il disoccupato che mise

in scacco il Kaiser

La storia di Wilhelm Voigt, un disoccupato tedesco, fu così paradossale da meritare di essere raccontata in numerosi libri e film del primo Novecento. Tutto accadde il 16 ottobre del 1906 a Kopenick, una cittadina poco distante da Berlino. 

Voigt aveva acquistato in vari negozi alcune parti di uniformi da capitano usate. Dopo averne ricavato un’uniforme intera, si diresse alla caserma locale, dove richiamò quattro granatieri e un sergente e ordinò loro di seguirlo. I soldati, alla vista dell’uniforme e addestrati ad obbedire senza domande, seguirono Voigt. Alla guida di quella pattuglia si mosse deciso verso il Municipio della cittadina, che occupò, ordinando alla truppa di bloccare tutte le uscite.

Ordinò quindi alla polizia del luogo di occuparsi del mantenimento dell’ordine e intimò al locale ufficio postale di impedire qualsiasi comunicazione con Berlino. Fece poi arrestare il tesoriere Von Wiltberg e il sindaco Georg Langerhans, affermando di sospettarli di irregolarità sui bilanci, e confiscò oltre 4 mila marchi. Quindi si diresse verso la stazione ferroviaria e qui, rimessosi in abiti civili, se ne andò indisturbato.

Una volta scoperta la truffa, dalle autorità nazionali tedesche partirono le indagini e Voigt, che non aveva lasciato la Germania, finì per essere arrestato il 26 ottobre.

Nel mese di dicembre fu condannato a quattro anni di prigione per contraffazione, per aver impersonato un ufficiale e per “imprigionamento illecito”. Tuttavia, l’opinione pubblica, sorprendentemente, si schierò in suo favore.

Voigt venne visto come una sorta di “moderno Robin Hood”, il povero che si faceva beffe di un potere costituito arcigno, al punto che lo stesso Kaiser Guglielmo decise di concedergli la grazia, definendolo pubblicamente, quasi divertito, un “amabile mascalzone”. Da truffatore, quindi, l’ex disoccupato si trovò ad essere trasformato rapidamente in un eroe popolare, tanto che decise di sfruttare la sua fama, intraprendendo una serie di iniziative nel mondo dello spettacolo. 

Una sua statua fu esposta nel 1907 al museo delle cere di Berlino, dove Voigt stesso apparve in pubblico per rilasciare autografi. Subito dopo “l’amabile mascalzone” cominciò a interpretare se stesso in una commedia rappresentata in vari teatri della Germania, dando vita a una vera e propria leggenda, tanto che ancora nel 1997, a più di cento anni dai fatti, la televisione tedesca mandò in onda un film sulla sua strana vicenda, intitolato “Il capitano di Kopenick”.

Foto di Gauthier Delecroix diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Il “figlio” del Corsaro Nero

Un altro caso curioso fu quello di Oscar Hartzell, nato negli Stati Uniti nella seconda metà dell’ottocento, ideatore di una truffa tanto semplice quanto geniale. Tanto che, persino dopo la sua condanna e la sua morte, molte delle sue vittime lo difesero, restando convinte della sua assoluta innocenza e buona fede.

Fin dal 1919 Hartzell, fingendo di chiamarsi Drake e di essere un erede del corsaro inglese Francis Drake, convinse molte famiglie di cognome Drake a finanziare una grande causa contro il governo britannico che, a suo dire, non aveva mai corrisposto agli eredi del corsaro la sua vasta eredità. Tale eredità, con gli interessi maturati in oltre tre secoli, a suo dire ammontava ormai alla stratosferica cifra di circa 100 miliardi di dollari.

Anche la fortuna aiutò Hartzell. Caso volle, infatti, che in uno dei suoi discorsi pubblici, il noto economista americano John Maynard Keynes, fece riferimento proprio al bottino del corsaro Drake il quale, secondo Keynes, tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, fu investito dalla regina Elisabetta Prima a beneficio della nazione britannica. Ad Hartzell non parve vero di ricevere un tanto prestigioso “aiuto” e fece leva su questa dichiarazione per avallare la sua tesi e accrescere le donazioni per la sua “causa”.

Ben presto, però, sia il British Office che l’FBI corsero a smentire l’esistenza di alcuna proprietà di Francis Drake indebitamente trattenuta dal governo britannico e perciò, nel 1933, Hartzell fu arrestato per truffa e condannato definitivamente a scontare dieci anni di prigione.

[L’immagine del titolo è di Muffinn ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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