L’indagine scatologica: cap. 4

Quarta puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.

A questo link la puntata precedente. Trovate qui la seconda puntata. Qui invece il primo episodio e la lista dei personaggi.

 

4 NOVEMBRE

 

Qualcuno aveva attaccato un manifesto alla parete. Maria Grazia Cucinotta sembrava guardarti negli occhi, ma non pensava a te, con quella sua aria distratta. Piuttosto avresti detto che fissasse qualcuno dietro, lontano. Però dalla sua bocca le parole uscivano chiarissime, scritte col pennarello blu: “Collega datte da fa’“.

Seduto sulla tazza del cesso, a Mario Marco scappò un sorriso. Per essere bella è bella, pensò il vicecommissario, ma è così fredda. Allora indirizzò i suoi pensieri sulla sovrintentendente dell’uficio passaporti, quella di cui non era mai riuscito a vedere le gambe, nascoste dal bancone. A occhi chiusi, immaginò approcci e situazioni, lei che dietro il bancone, sotto il bancone, faceva cose e poi… poi, niente. Alle undici di mattina era un po’ difficile lavorare di fantasia. Vabbe’, andiamo, si disse.

Strappò l’abituale mezzo metro di carta igienica, e lo divise in piccoli pezzi. Ma invece di buttare il tutto dopo l’uso, si ritrovò a odorare. Un po’ imbarazzato, sotto gli occhi di Cucinotta, aspirò a fondo. L’odore non era così repellente. In fondo, era roba sua.

 

Il club sportivo si trovava nella parte più nuova ma non più bella del quartiere. Per raggiungerlo – seguendo le indicazioni telefoniche di Bordone – Mario Marco percorse una lunga stradina pulita costellata di aiuole, seguito dall’alto dalle nuvole che portavano la pioggia verso l’interno.

L’ingegnere lo salutò con un cenno, chiedendogli se fosse così gentile da aspettarlo ancora. Intanto poteva bere qualcosa al bar del club.

Mario Marco lo osservò mentre gli girava le spalle, e s’avviava verso lo spogliatoio, con la tuta colorata che fasciava i glutei muscolosi, con quel suo modo di camminare da atleta, così rassicurante, che infondeva il senso dell’equilibrio. Non come quei fondisti con cognomi meridionali, laceri e sudati, così sgraziati nelle loro divise sportive, che tagliano traguardi e fissano la telecamera con i loro occhioni tristi… Imbarazzato dai suoi stessi pensieri – da leghista frocio, si disse – Mario Marco si diresse al bar.

L’elenco dei soci fondatori in una cornice, una pianta tropicale, cinquantenni adagiati su un divano, il tavolino con le riviste di auto, orologi e computer. Per un momento, pensò di essere seduto nella sala d’attesa di un dentista. Sì, forse è così, sono seduto nella sala d’attesa di un dentista nel suo tempo libero.

Bordone era già di ritorno, sorrise mentre si passava una mano tra i capelli. Guardò l’orologio e chiese: – Vogliamo andare a fare un giro, così parliamo un po’? Prima, però dovrei passare per casa. Lasci qui la sua auto. Poi la riaccompagno.

 

Attraversarono un nugolo di villini verdi e beige, senza rumore di auto o di negozi. Da un televisore lontano, rimbalzava solo l’inconfondibile sigla di un telefilm. L’Infernetto era uno di quei posti dove non smette mai di essere domenica. Le uniche facce per strada erano quelle dei bambini immersi nelle loro giacche a vento colorate, soprattutto gialle o azzurre, impegnati a sezionare giocattoli o a urlarsi addosso, ma col sorriso in faccia. In una piazzola poco distante spuntavano teste bionde, che stavolta appartenevano a ragazzi un poco più grandi, intenti a parlare e fumare, seduti sui motorini.

 

– Faccio solo una telefonata, non ci vorrà molto – disse Bordone, poggiando la borsa sportiva in corridoio. Si tolse il soprabito e scomparve nel corridoio, chiudendo la porta.

Il soggiorno era un campionario di tecnologie sofisticate. Mario Marco indugiò sullo stereo a caricamento verticale, sul computer, sul decoder satellitare della tv, sul videoregistratore a doppio lettore, sul piccolo banco di regia, e su almeno altri quattro o cinque apparecchi, esposti quasi come trofei. Poi s’imbattè nelle foto del padrone di casa, appese alla parete. Il primo piano di un aereo da caccia, e sotto il “pungiglione” che si staccava dal muso del velivolo, il viso pallido e serio dell’uomo. Uno sfondo che si sarebbe detto africano, un paio di Ray-Ban con la stanghetta tra le labbra, un foglio di carta in mano, il volto pensieroso. La tuta da aviere, una donna, anche lei in divisa, che gli baciava una guancia. Tre uomini, abbracciati e sorridenti, che guardavano tutti qualcosa fuori campo. Lui era al centro, con un’aria da dio greco.

Un’altra foto. Bordone era accanto a un uomo dai capelli grigi, tutti e due ripresi solo di busto, e a petto nudo. Lo sconosciuto portava un paio di occhiali da sole, con le lenti fumé, e teneva in mano una canna da pesca, mentre sfoderava un sorriso che sembrava più un ghigno. A Mario Marco venne in mente uno di quei colonnelli argentini. Alle spalle dei due, il cielo era di un azzurro perfetto, e sulla destra sporgeva il ramo di una palma.

Una cassettiera alta e stretta attirò l’attenzione del vicecommissario. Il primo cassetto era semi-aperto, dentro si intravedevano dei fogli. Mario Marco si guardò attorno, poi tirò il piccolo pomello, lentamente, cercando di aprire il cassetto senza rumore. Agguantò il foglio. Era la fotocopia di un articolo di giornale. Titolo, su due righe: “Duello in banca / Terrore a Lomello”. Su un bordo, un timbro con la data. A penna, invece, era scritto il nome della testata, “La Provincia Pavese”.

“Tanto sangue freddo e, bisogna dirlo, almeno un po’ di fortuna. É grazie a questi due elementi che ieri mattina un giovane vicecommissario fuori servizio – era in fila davanti allo sportello – è riuscito ad evitare una rapina in una banca di via Roma, arrestando i banditi dopo averli costretti ad abbandonare il loro ostaggio”.

“All’una meno un quarto – continuava l’articolo, che Mario Marco conosceva bene – la filiale della Banca del lavoro cooperativo è ancora piena di clienti. Solo dieci minuti prima, il furgone di un istituto di vigilanza ha scaricato in cassa alcuni milioni di lire, raccolti nel solito giro di metà mattinata tra i vari centri commerciali della zona. All’improvviso, dalla porta principale, entrano di corsa due uomini col volto coperto da una calza di nylon ed entrambi armati di taglierini, l’arma ormai classica per gli assalti alle banche. I banditi hanno già messo fuori combattimento il vigilante di guardia all’esterno, spruzzandogli del liquido irritante sugli occhi e colpendolo alla testa.

Ma proprio mentre uno dei rapinatori sta per oltrepassare i banconi delle casse, il vicecommissario M. M. sfodera la sua pistola d’ordinanza, spara un colpo in aria, poi mira all’altezza del bandito e gli ordina di arrendersi. L’uomo è preso alla sprovvista: guarda senza parlare il suo complice, poi getta il taglierino a terra e alza le mani. Ma l’altro rapinatore non lo imita: anzi, afferra alle spalle uno dei clienti – il quarantaduenne Gianni Brega – e gli punta il taglierino al collo. – Fateci uscire, fateci uscire – urla come un ossesso. Il vicecommissario, però, non cede. Spara altri due colpi verso il soffitto, poi riabbassa l’arma e avverte il bandito: – Lascialo e poi butta il coltello…”.

 

Il rumore di una porta. Il commissario alzò la testa di scatto. Rimise apposto il foglio e richiuse il cassetto. Un tuono si perse da qualche parte lì intorno. Bordone era ricomparso.

– Allora, le piacciono i miei trofei? – disse, indicando le foto.

– Ero giovane, sa com’è, no? Oddio, lei in effetti è abbastanza giovane. Quanti ne ha, trenta?

– Trentadue – rispose il commissario.

– Io quarantaquattro. Però mi difendo, no? – Rispose Bordone, cercando la sua approvazione – Comunque, ero giovane lì – un dito puntato sulle foto – m’ero innamorato del volo, dei caccia. Ho fatto l’accademia areonautica. Poi, ho lasciato tutto, da un giorno all’altro.  Ho perso la fede. Tutti pensavano che volessi andare a fare il pilota di linea, invece no. Ho lavorato un po’ con gli aerotaxi, con qualche agenzia di trasporti. Poi mi è capitata l’occasione, quella che sei scemo se la rifiuti. E così, con quello che guadagno adesso con l’import-export, sei mesi lavoro io sei mesi faccio lavorare il mio socio, ho un sacco di tempo e viaggio. E adesso, quando voglio volare – si voltò, indicando una foto in una cornice – mi diverto con gli ultraleggeri. Ecco, tutto qua.

Mario Marco rimase in silenzio. Il tizio s’aspettava forse una presentazione da parte sua, qualche parola brillante? No, no, se aveva qualcosa da dirgli, che dicesse. Del resto, già sembrava sapere tutto di lui, visto che aveva quell’articolo nel cassetto. Lo stava aspettando, e voleva farglielo sapere, perché sentisse il suo fiato sul collo?

 

L’uomo, o piuttosto l’ex ragazzo, passeggiava in bicicletta lungo la via alberata, cappello in testa e occhiali scuri, facendo attenzione a evitare le buche e i piccoli dossi sull’asfalto, sotto cui si nascondevano le radici dei pini. Sul portapacchi c’erano una busta del pane e una copia di “Repubblica”, piegata alla meno peggio.

– Quello che è appena passato è il figlio del questore Nazareno.

– Ma non era andato in pensione, il questore?

– Sì, ma è un uomo sempre in vista. E un buon amico del Geometra. Che gli ha pure costruito la villa. A lui e ad altri. Qui dietro – e indicò con la mano una direzione – c’è la villa del Pm Marini. Un altro amico.

– Ma non sarebbero costruzioni abusive, qui?

– Com’è antico, lei. Le ville erano abusive, pur se fatte a regola d’arte, per via di un cavillo, qualche metro di distanza dalla pineta. Che sarà mai. Però c’è stata la sanatoria. Ora è tutto ok.

I due uomini restarono in silenzio per un po’, continuando a camminare.

– Senta, ma perché mi racconta queste storie? – chiese il commissario.

– Perché è bello presentare i vecchi amici a quelli nuovi – rispose l’ingegnere.

 

Alla fine, Bordone l’aveva riaccompagnato all’auto, al centro sportivo. L’ingegnere gli aveva fatto una descrizione di Merola che calzava con quello che sapeva. Uno che s’era arricchito con l’abusivismo e le amicizie potenti.   Uno attaccato soprattutto al suo, ai soldi. Tante conoscenze, pochi amici vere, pochissime passioni, la moglie morta da qualche anno, due figlie – una delle due un po’ matta – un figlio a studiare negli Stati Uniti, la speranza di papà suo.

Ma la Prima Repubblica era finita. Adesso, tutta l’attenzione di Merola era concentrata su quell’ultimo progetto, il coronamento di una carriera, Eurocartoon, per cui aveva avuto l’esclusiva dagli americani per l’Italia.

Una città dei cartoni animati, decine di ettari dedicate al divertimento. Un business fenomenale, assicurava Bordone. I lavori dovevano cominciare tra poco, superata la fitta selva di permessi del Campidoglio, le opposizioni, eccetera eccetera.

– Prima tutti volevano soldi sennò non si muoveva foglia: adesso sono terrorizzati e vogliono essere sicuri di non beccarsi manco la più piccola denuncia – aveva pontificato l’ingegnere.

Chi poteva avere inviato a Merola quelle strane lettere? Erano davvero minacce? E minacce di che? Il Geometra sembrava preoccupato? Qualcuno, tra i “vecchi legami”, si era rifatto vivo?

Mario Marco aveva fatto una raffica di domande. Ma l’ingegnere non aveva risposto direttamente. Aveva spiegato che in certe faccende lui non aveva messo il naso, di certi affari ne sapeva poco, non era così in confidenza con il Geometra, anche se gli sembrava soprattutto infastidito. Poi aveva affacciato l’ipotesi del mitomane, del matto che sente le voci o che vuole soltanto essere punito. O quella dell’ambientalista estremista.

 

Mario Marco pensò al tono scanzonato con cui l’ingegnere gli aveva descritto Merola. Forse Bordone è uno di quei tipi ansiosi di sembrare molto indipendenti, soprattutto con i forestieri, pensò, uno di quelli che ti fanno l’occhietto anche se non li conosci, che subito ti chiamano con un diminutivo tipo Roby, Giampi o Eddy, che fanno molto i fichi, i raffinati, quelli che conoscono la vita, che ti parlando di alta cucina, che hanno letto i libri giusti, che conoscono alla perfezione i take-away di New York e gli agriturismo della Toscana, quelli che giocano a fare gli agenti segreti. E poi, in privato, strisciano per terra, obbediscono, fanno i giullari per gente che ha fatto la terza elementare e che ha mangiato merda per vent’anni, che pensa a Montecatini Terme come al massimo della vacanze, che passa la domenica a sentire le partite alla radio in ciabatte, che di moda e di letteratura non capirà magari un cazzo, ma che comanda, conta, e si fa obbedire perché è gente che ha un sacco di soldi.

Ecco, si disse Mario Marco ripensando a quell’articolo che aveva trovato a casa dell’ingegnere, forse Bordone è solo uno così, un poveraccio, è uno che gioca a fare la spia, uno che abbaia ma non morde. Forse.

 

[L’immagine del titolo è di Maria Mallol ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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