Questione Capitale
Negli ultimi mesi pare si stia riaccendendo il dibattito pubblico sul futuro di Roma Capitale. Molti partiti dicono, con toni e soluzioni diverse, che è necessario dare a Roma una legge con poteri speciali che la ponga, al pari di altre capitali europee, nelle condizioni di affrontare le sfide future.
È evidente, a un anno e mezzo dalle elezioni e sulla base dei risultati dell’attuale amministrazione, che i partiti abbiano cominciato la loro lunga marcia per conquistare il Campidoglio, è legittimo e naturale. Ma pare un po’ strano che si ricordino solo oggi di dare a Roma, per legge, una rilevanza diversa a quella degli altri Comuni italiani.
Lo dichiaro subito: in questi partiti e nelle loro segreterie non ho alcuna fiducia. Per tre motivi semplici: mancanza di visione, mancanza di classe dirigente e mancanza di competenze adeguate alle sfide. E come direbbe qualcuno, c’ho le prove!
Andiamo per ordine. Qual è la visione della città di Roma che viene narrata dai politici? Non vi affannate. Non c’è. Non esiste. È spesso o solo una narrazione che passa attraverso i social alla ricerca disperata di “mi piace”, faccine compiacenti e rilancio dell’ultima battuta fatta contro l’avversario politico.
Nell’ultima contesa elettorale, se non erro, i candidati sindaco erano 16. I due che sono andati al ballottaggio avevano, mediaticamente parlando, promesso uno 100 autobus ATAC in più (ma allora un AD di una Municipalizzata che fa?) e l’altra la funivia (che Roma non ha solo 7 Colli…). Ecco. Questa narrazione mediatica mi colpì allora. Ma mi colpì ancora di più ascoltare e leggere con le idee che venivano partorite dai diversi schieramenti. Sembrava l’ultimo dell’anno.
Poi mi capitava di partecipare a convegni sulla situazione economica di Roma (13 miliardi di buco, altro che fusaglie) dove i “politici” ben si guardavano dal partecipare, intervenire, osare dire cosa pensassero di fare con quel problemino lì. Ancora oggi cerco, non perdo la speranza, incontrando persone appassionate e impegnate partiticamente, di capire se in quel campo (quello dei partiti) possiamo ancora riporre fiducia.
Qui c’è un nodo esiziale per la nostra democrazia. I partiti sono uno degli strumenti, non l’unico, non hanno l’esclusiva, per governare la cosa pubblica. Dalla loro qualità dipende una parte, non il tutto, della società civile (intesa come ambiente che ha sottoscritto un patto dove ci si riconosce, ci si accetta anche se con idee diverse, ci si scontra ma con rispetto: quel Patto si chiama Costituzione della Repubblica Italiana). E se i partiti non svolgono il compito per il quale esistono si aprono strade pericolose per tutti, nessuno escluso, anche quelli che a votare non vanno più.
I partiti poi, tutti lo dicono, lo scrivono e lo sperimentano, sono in crisi da almeno 40 anni. Crisi di classe dirigente a causa di una visione debole, assente o, peggio, privata. L’Italia, e Roma su questo né è la prova provata, non ha leader politici di statura nazionale. Men che meno europea e internazionale. Pensando a Roma e agli ultimi 25 anni abbiamo avuto: Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Gianni Alemanno, Ignazio Marino, un commissario, Virginia Raggi. Mi astengo da giudizi e pagelle. Riporto i fatti. Rutelli ora scende in pista con una scuola di politica per Roma. Veltroni scrive, dirige e commenta. Alemanno ha qualche problema con la giustizia. Marino è tornato negli Stati Uniti. Raggi è in Campidoglio.
Nessuno di loro sembra aver “curato” il dopo: dove sono quelli che avrebbero dovuto, o dovrebbero succedere a questi primi cittadini?
Roma in fondo, questa la vera visione sottesa a tale soluzione, è stata quasi sempre un “passaggio” verso il cielo: Camera dei Deputati o scranno del Senato della Repubblica. Parlamento Europeo, magari. Magari pure qualche segreteria di partito. E sappiamo tutti com’è andata.
Se pensi così, non hai interesse a formare una classe dirigente che ti succeda. Tutt’al più la formi per portartela dietro come una corte riconoscente e interessata. Dove sono i leader?
Per forza che poi il primo che si mostra comunicativo, carino, simpatico, battuta pronta, lessico conviviale e comprensibile al “popolo”, suscita tanta morbosa attenzione. Quando hai fame, ma fame veramente, pure un’oliva taggiasca ti sembra un cenone di fine anno.
Mancanza di competenze: qui il vero tratto culturale della “partitocrazia dei partiti che non ci sono più” è che chi ha competenze non si deve assolutamente avvicinare. È vero, si parla da almeno 15 anni di merito, capacità, competenza. Perfetto. E allora? Dove sono i competenti? Se guardiamo alle professioni, sono decenni che esportiamo competenze, cervelli, risorse all’estero. Con grande vanto per il nostro sistema-Paese.
Ma i “partiti che non ci sono” aborrono i competenti. Li possono accettare solo e solamente a una condizione: che facciano il loro lavoro in silenzio e nascosti. Poi la regola è “nessuno parli al conducente”.
Il meccanismo messo in piedi, la macchinetta “elettorale” (un obiettivo sempre sensibile) è banale ma micidiale allo stesso tempo, con tre semplici regole. Bisogna essere pochi e sempre gli stessi (costruire quindi una tribù ristretta, inaccessibile, immobile). Bisogna costruire una corte fatta da portatori di voti, influencer che convoglino voti e consensi in cambio di tutto quello che può passare il convento, una rete di solide alleanze nei diversi settori e campi della vita pubblica e anche privata. Bisogna cannibalizzare o cooptare personalità della “società civile” per apparire candidi e immacolati e aprire canali di drenaggio dei voti in mondi altrimenti lontani dal “partitico” di turno.
E qui arriviamo al punto che più mi interessa per la mia provenienza e per una serie di accadimenti: La “mitica” società civile. A Roma, e non solo, grazie alle organizzazioni civiche si è potuto fare e si fa servizio pubblico per tutti. Si interviene da oltre 40 anni al posto del pubblico che non c’è e che sempre più si ritrae. E si continua generosamente, infaticabilmente, instancabilmente a creare le condizioni per eliminare ogni divario, diseguaglianza, frattura sociale.
A Roma gli esempi più o meno noti sono tantissimi. Non li elencherò per brevità, per non dimenticare nessuno, per pudore: perché in una foresta tutti gli alberi contano.
Ma torniamo alle organizzazioni civiche e a Roma. Ad oggi ci sono diverse realtà, network, donne e uomini in carne e ossa che si stanno impegnando per il bene di Roma e delle diverse realtà che la compongono. Anche qui non citerò né nomi, né percorsi, né tantomeno iniziative. Anzi. Un compito del lettore, come sforzo ulteriore dopo essere riusciti a leggere questo articolo, potrebbe essere proprio quello di scoprire se nel proprio quartiere dove si vive o lavora ci sono associazioni, comitati, gruppi che si impegnano per gli altri, dalla bocciofila all’associazione che organizza la donazione del sangue, dal comitato ambientalista all’associazione dei nonni e così via.
Credo che se si costruisse una mappa delle organizzazioni civiche romane, scopriremmo un mondo e una rete sotterranea preziosissima.
Molte di queste realtà in modi diversi stanno convergendo su un punto: la necessità di immaginare una governance diversa per Roma.
I modi per avere questo obiettivo possono essere diversi. Ma in questa fase mi interessa poco soffermare la mia attenzione sul come. Mi interessa soprattutto constatare che diverse organizzazioni stanno ragionando sulla medesima cosa: su Roma. E ci sono arrivate non oggi o negli ultimi mesi come i “partiti”, ma da tempo. Forse inascoltate dai più, meno visibili dall’opinione pubblica.
Oggi però, grazie a questa specie di “allineamento dei pianeti” rappresentato dal declino di questa città e dalla pochezza dell’offerta politica, ecco che il tema centrale per il futuro della città chiamata Roma diviene visibile, riconosciuto, urgente. Tanto che “i partiti” fanno a gara per essere della partita (punto 3 della strategia elettorale, vedi sopra).
Del resto, per fare le leggi servono i partiti. E qui si apre una prima e rilevante questione. I partiti, dicevo, non hanno l’esclusiva della “politica” e delle politiche pubbliche. Queste “funzioni” spettano a tutti i cittadini (lo dice sempre la Costituzione della Repubblica Italiana).
I cittadini attraverso l’esercizio del voto “delegano” la rappresentanza ai partiti. Ma non si spogliano dei loro poteri e delle loro responsabilità che sono, per natura stessa dei cittadini italiani, operanti 24 ore su 24. Una Sentenza della Corte Costituzionale dei primi anni Settanta riconosce che un cittadino in situazione di emergenza può intervenire e “arrestare” un malfattore, svolgendo una funzione pubblica che gli appartiene. Ma con la modifica costituzionale del 2001 e l’introduzione dell’articolo 118 Costituzione si riconosce e si sancisce che “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”. Tale principio implica che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore.
Il principio di sussidiarietà può quindi essere visto sotto un duplice aspetto. In senso verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e, quindi, più vicini ai bisogni del territorio. In senso orizzontale: il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
Ecco tutto questo, trascorsi 19 anni, resta spesso da parte della politica della pubblica amministrazione un concetto da combattere, arrestare, ritardare. L’effetto è la costante frattura tra due mondi, il “politico-partitico-rappresentativo” e il “politico-associativo-rilevante”, che compongono una parte necessaria dell’agire politico e della cura della città.
Questi due mondi, per loro stessa natura sono costretti a lavorare comunque confrontandosi, scontrandosi, collaborando per la cura dei beni comuni.
È una sorta di via obbligata per la qualità della democrazia della nostra città. E bisognerà sciogliere questo nodo: come ci si confronta con il mondo “partitico”? Il variegato mondo associativo deve assumere anche questa sfida, così come dall’altra parte il mondo partitico deve decidere cosa intende fare.
Sono domande basilari per il futuro di Roma. E per la visione che si vorrà proporre per i prossimi 50 anni.
Elio Rosati è segretario di Cittadinanzattiva Lazio
[La foto del titolo è di Alessandro Silipo ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]