Il bacio della Pantera
C’era la facoltà di Lettere, Università La Sapienza di Roma e io, svogliato studente fuori corso, con velleità artistico-intellettuali, a ciondolare per quelle aule.
C’erano gli studi di VideoUno, tv romana d’antan, a Monteverde, nei cui corridoi girava ancora il buon Mannoni e noi, ragazzi di belle speranze, a sfornare trasmissioni underground, guidati da un allora ignoto Enrico Lucci, già leader grazie alla sua aria da imbecille, capace di spiazzarti e stenderti mentre eri ancora lì a chiederti se ci fa o c’è. “Zero in condotta” s’intitolava la nostra rubrica, andava in onda ogni settimana per parlare di noiggiovani.
C’era la voglia di partire per Berlino, che in quel momento pareva ombellico del mondo: un muro da smaltire poco a poco e tante certezze che andavano in fumo, come presto avrebbero fatto i vecchi atlanti De Agostini con due Germanie e una sola URSS.
C’era la Storia, quella con la maiuscola, che ci passava vicino e io, per la prima volta, che me ne rendevo conto.
Però per me c’era soprattutto Lei (d’altronde il riflusso dava già da un decennio la priorità al privato).
Lei era il volto meraviglioso di Betta, Lei era il suo perfetto corpo unoeottanta, Lei era quella sua aria post-freak da “Age of Aquarius”, che l’epoca aveva costretto a riciclarsi in modella edonista, in essere insostenibilmente leggero, che utilizzavo per le mie paturnie artistiche da fotografo semi-professionista. Lei era la promessa di felicità. Lei era tutto questo e molto altro ancora, anche se qualcosa, ormai, aveva smesso di funzionare. La magia sbiadita, il rapporto stanco, sembravano annunciare l’imminente arrivo della nostra Bolognina: un cambio di rotta, una separazione annunciata eppure traumatica, malinconica, col contorno di qualche lacrima.
C’era la facoltà di Lettere, Università La Sapienza di Roma e io, svogliato studente fuori corso, con velleità artistico-intellettuali, a ciondolare per quelle aule
Intanto, nell’overdose di eventi epocali a cui giornali e tv ci stavano sottoponendo da mesi, come una boccata d’aria, quasi fosse un pezzo di poesia fra tante pagine di prosa, era apparsa quell’incongrua pantera avvistata dalle parti del Raccordo, presenza inquietante e terribile, nata come trafiletto in cronaca, presto promossa in prima, con tanto di foto e firme di spicco, affascinante e un po’ ridicola, com’è sempre ogni leggenda metropolitana. “Pare sia passata anche dalle parti di casa tua”, dissi. “Ma tu ci credi davvero a ‘sta pantera?”, mi fece Betta un po’ scettica. “Forse no, ma sarebbe bello crederci”.
Non sapevo ancora che in quella risposta, buttata lì alla svelta, tanto per chiudere l’argomento, ci fosse dentro una filosofia di vita, il racconto sintetico di una generazione.
C’era fermento, a Lettere. Anche se frequentavo poco, non potevo non accorgermene. E poi in redazione, a VideoUno, stavamo decidendo il da farsi, il chicomequando dovesse seguire l’argomento.
Enrico giocava un doppio ruolo: lui era in ogni assemblea, occupante occupatissimo, ma anche in tutti i servizi della nostra trasmissione, indubbiamente il più talentuoso, pure se ci guardavamo bene dall’ammetterlo. Io, invece, mi sentivo anche allora, come sempre, troppo artista e troppo filosofo per sporcarmi le mani, fino in fondo, con la politica o con la tv. Per quell’occupazione, certo, simpatizzavo, ma da osservatore esterno, che continuava ad occuparsi solo di mostre e di spettacoli.
“Le vere rivoluzioni si fanno con la cultura”, mi sono sempre giustificato e, in fondo, non avevo neanche tutti i torti. Certo, però, la verità vera è che sapevo di poter perdere Betta e ogni minuto in più con lei era per me prezioso. Se quindi l’alternativa era fra un aperitivo a due e un’assemblea alla Sapienza, il dubbio neanche si poneva. E mentre, via fax, il tam tam rimbalzava da una facoltà all’altra, in ogni angolo d’Italia, mentre il nome Pantera era ormai apparso anche in tv, non solo a indicare quel felino misterioso avvistato a Roma, ma anche i tanti inafferrabili ragazzi che soggiornavano stabilmente nelle Università, è vero sì che io non mi perdevo un laboratorio di pittura o di scrittura creativa, di quelli autogestiti organizzati in facoltà, che ammiravo estasiato i murales un po’ ingenui dipinti sui muri di Lettere e Filosofia, che ballavo i ritmi etnici e ska delle feste serali organizzate dagli studenti.
Ma alle assemblee e ai dibattiti mai, per nessuna ragione al mondo.
“Ma tu ci credi davvero a ‘sta pantera?”, mi fece Betta un po’ scettica. “Forse no, ma sarebbe bello crederci”.
Non sapevo ancora che in quella risposta, buttata lì alla svelta, tanto per chiudere l’argomento, ci fosse dentro una filosofia di vita, il racconto sintetico di una generazione
Fu così che invitai anche Betta quella sera, alla festa afro., tra i fiumi di birra e la puzza di fumo che accompagnava sempre ogni occupazione. Lei era bellissima: più unoeottanta ed “Age of Aquarius” di quanto l’avessi mai immaginata. E, nel corpo pulsante di quella Pantera, il nostro fu un bacio indimenticabile e dolcissimo, interminabile.
Era anche il nostro canto del cigno, ma ancora non lo sapevamo, perché quella sera lei per me era l’eterna felicità, che mi pareva aprirsi all’orizzonte. Era l’inversione di rotta. Era il rendersi concreto di una promessa sempre rimandata al futuro. Era la fine delle ideologie e l’inizio del paradiso in terra. Era la fantasia al potere. Era la Pantera.
Poi, il fuoco di paglia cominciò rapidamente a spegnersi. Le occupazioni finirono, sgombrate insieme alle feste afro. Anche VideoUno, di lì a poco, avrebbe perso appeal e cambiato nome, come il suo partito di riferimento. La nostra rubrica chiuse. Di Betta per un po’ non seppi nulla, tranne che (a suo dire) aveva trovato un altro, come scrisse in quel suo fax.
Nell’estate del ’90, mentre Schillaci infiammava lo stivale, io barcollavo triste, conscio della fine di un epoca, cui la testa di Caniggia e i rigori ancora una volta sbagliati, negarono anche un possibile contentino.
La rividi solo diversi anni dopo. Mannoni era da tempo a RaiTre. Lucci irrorava ironia e cazzate da bravo giornalista post-moderno. Lei, invece, era sempre quella “Age of Aquarius” di una volta, appena un po’ invecchiata, ma ancora bellissima. “Ma come si fa a votare uno come Berlusconi?” mi chiese, fra tanti discorsi, quella sera. Facemmo di nuovo l’amore, prima di perderci ancora al sorgere del sole.
Passarono altri anni di silenzio. Un pomeriggio del nuovo millennio, a Piazza del Popolo, il suo ampio vestito a fiori fu l’unico segnale che mi ricordò la sua bellezza di un tempo: “Vivo in campagna come avevo sognato e, ti assicuro, è un’enorme rottura di palle”. Il suo sguardo era triste, perso, un’immagine fuori tempo e fuori luogo, una Baby Jane sfiorita, soffocata da troppa infelicità. Sparì di nuovo alla mia vista, imboccando il corridoio del metrò. Non ne seppi più nulla.
Poi, il fuoco di paglia cominciò rapidamente a spegnersi. Le occupazioni finirono, sgombrate insieme alle feste afro
Betta resta per me un’immagine irreale e lontana, una promessa incompiuta, un sol dell’avvenire dietro le spalle, proprio come quell’epoca di sogni e delusioni, come quella pantera, promessa e minaccia mai concreta e mai svanita, apparsa e poi scomparsa tra le campagne romane, quasi fosse una figura mitologica, che ha smesso da tempo di essere cronaca, che non è mai riuscita a diventare storia, ma che forse per questo è già letteratura. Proprio come tutto quello che vi ho detto, così terribilmente vero, fin nei dettagli, così autentico, inutile, banalmente mio, eppure al tempo stesso irreale, leggendario, utopico. Perché così sono i sogni. Così sono le Pantere. Ti azzannano, ti baciano, spariscono, sfioriscono e non saprai mai perché.
[La foto del titolo è di Delaque79]