Siamo orfani di Malagrotta
In realtà, siamo ancora orfani di Malagrotta. Nonostante i festeggiamenti per la sua chiusura, nell’ottobre 2013 – esultava soprattutto, e giustamente, chi abitava nei paraggi – a noi romani manca quell’enorme cratere, quella buca, quel butto.
Perché avevamo questa cavità da riempire quasi all’infinito, dietro casa eppure vicina, comodissima.
Del resto era esattamente così che per tanto tempo, nella storia dell’umanità, si sono trattati i rifiuti: si buttavano direttamente fuori dalla finestra, o in qualche grossa buca, o in mare. E si fa ancora così in diverse parti del mondo.
A Roma non più, per fortuna. Ma nei giorni di festa appena trascorsi – a Natale la raccolta dei rifiuti tradizionalmente rallenta perché ci sono più lavoratori in ferie o a riposo mentre la quantità di rifiuti aumenta, per gli imballaggi dei regali e i prodotti alimentari venduti per i pasti festivi – più d’uno deve averla, rimpianta, Malagrotta. Anche se in realtà è successo diverse volte, anche prima che la discarica chiudesse, che la Capitale si ritrovasse invasa dai rifiuti, per scioperi, guasti o semplicemente rallentamenti sospetti nel trattamento dei rifiuti.
Tra cassonetti stracolmi, roghi di immondizia e manifestazioni contro la futura discarica la Capitale è tornata in emergenza. Il Campidoglio ha ufficialmente scelto di realizzare il nuovo sito di stoccaggio a Monte Carnevale, nella Valle Galeria, a poca distanza in linea d’aria da Malagrotta. Ma l’opposizione principale viene proprio dall’interno del Movimento Cinque Stelle e in particolare dal deputato Stefano Vignaroli, romano, già attivista anti-Malagrotta e presidente della Commissione Ecomafie della Camera. Che il 7 gennaio ha ricevuto un assist dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, secondo cui “il completamento della filiera della gestione dei rifiuti deve essere essere affrontato insieme ai cittadini e mai contro qualcuno”.
Costa ha anche invitato Regione, Città medtropolitana e Comune di Roma a tenere conto delle “osservazioni tecniche” dei comitati e dei municipi.
Se il Campidoglio dovesse rinunciare a individuare il sito per la nuova discarica di servizio (dove dovrebbero finire solo i resti inerti dei rifiuti trattati, non sarebbe una nuova Malagrotta, per intenderci), per timore di perdere consensi e di scatenare rivolte popolari, la Regione potrebbe intervenire e commissariare la gestione dei rifiuti a Roma. Lo farebbe davvero? Chissà.
Oggi, nessuno a Roma vuole una discarica nel proprio quartiere, anche se la Capitale avrebbe bisogno almeno di un punto di raccolta degli scarti che rimangono dopo il trattamento dei rifiuti e anche se di posti tecnicamente idonei ce ne sarebbero diversi.
Nessuno vuole impianti di compostaggio o per il biogas né, ovviamente, termovalorizzatori (che in realtà sono inceneritori chiamati in un altro modo e che godono anche di incentivi finanziari).
E siccome Roma è stata costruita in modo tentacolare, approssimativo e spesso abusivo (salvo poi beneficiare delle varie sanatorie), ovunque ci sono quartieri abitati da migliaia di persone.
Tutti credono che quello dello smaltimento dei rifiuti sia un problema e ritengono di pagare troppe tasse, ma nessuno vuole alcun tipo di impianti vicino a casa propria perché la maggior parte delle persone non si fidano delle promesse dei politici, dopo i vari scandali di cui abbiamo tutti sentito più o meno parlare (anche se magari le inchieste finivano in una bolla di sapone) e alcuni dati allarmanti sull’inquinamento provocato da certi impianti (non tutti, alcuni).
Gli abitanti delle periferie – che non sono ovviamente tutte uguali, anche economicamente – si sentono bistrattati, abbandonati, e anche se sanno benissimo che non si può costruire una discarica vicino al Colosseo (anche solo per questioni di spazio) non la vogliono vicino a casa loro. Così come non vogliono campi nomadi o centri per i migranti.
Il problema dunque è politico, non tecnico. E andrebbe affrontato in quel modo. Col massimo della trasparenza, con la presenza degli amministratori, coinvolgendo i quartieri nelle scelte, ipotizzando premi e compensazioni e anche, se serve, consentendo a chi vuole di andare ad abitare altrove, aiutandolo con un vero sostegno economico. Mentre invece finora la maggior parte dei politici sono andati nei quartieri per partecipare alle manifestazioni contro.
Trenta milioni di tonnellate
In un trentennio, la mega-discarica di Malagrotta, coi suoi 152 ettari, ha ingoiato oltre 30 milioni di tonnellate di rifiuti. Oggi la ex cava – da cui negli anni Cinquanta furono tratti i materiali per la costruzione dell’aeroporto di Fiumicino e che nel 1984 è diventata ufficialmente la discarica della Capitale – è un’area costellata di impianti e di “colline” alte fino a 80 metri, che sono in realtà cumuli di rifiuti depositati negli anni, coperti di argilla o da teloni, da uno strato ghiaioso e da terriccio.
Camminando per le strade sterrate l’odore è ancora pungente, anche se i cumuli di rifiuti smossi dai trattori e sorvolati da stormi di gabbiani – l’immagine storica della mega-discarica – non ci sono più da anni.
Qui per decine d’anni sono stati gettati infatti rifiuti “tal-quale”, cioè non sottoposti a trattamento meccanico-biologico, come impone la normativa comunitaria. E proprio per questo Malagrotta, insieme a un centinaio di altre discariche, è stata causa di una procedura d’infrazione dell’Unione Europea contro l’Italia.
Tra quasi trent’anni, se tutto andrà per il verso giusto, Malagrotta diventerà un parco, e le colline saranno ricoperte da 340.000 alberi, grazie anche ai soldi pagati per anni in bolletta dai romani.
Ma almeno per i prossimi 10 anni, grazie ai liquidi prodotti dai rifiuti, la ex discarica è un giacimento di biogas, che serve a produrre in parte metano e in parte energia elettrica, utilizzati per far funzionare i veicoli e gli impianti del sito.
Proprio a causa dei liquidi colati dai rifiuti – il cosiddetto percolato – su Malagrotta resta però aperta un’inchiesta della Procura di Roma per il presunto inquinamento della falda acquifera, che comunque sarebbe stato provocato, secondo i magistrati, anche da altri impianti industriali della zona, tra cui una ex raffineria.
Ma anche se la discarica ha chiuso da anni, Malagrotta è più viva che mai. Ospita due enormi impianti Tmb (Trattamento Meccanico Biologico) che trattano almeno il 40% dei rifiuti prodotti da Roma, ed è un via vai di autocompattatori che scaricano immondizie e camion carichi di Cdr, balle di plastica e alluminio recuperato.
Export di rifiuti
A Roma, nel 2012, complice anche la crisi economica, i rifiuti prodotti dai romani erano diminuiti a 1,75 milioni di tonnellate da 1,834 milioni nel 2010. Nel 2018 assoimmavano a 1,73 milioni. Quindi si può dire che negli ultimi anni la massa di rifiuti è rimasta sostanzialmente stabile, mentre gli impianti di trattamento sono diminuiti, con la chiusura del Tmb Salario e vari problemi ad altri impianti.
Nel frattempo il cda dell’Ama è cambiato otto volte (dal 2014 all’ottobre scorso) e la Capitale ha cominciato a esportare in altre regioni italiane o all’estero sia immondizia vera e propria sia scarti del trattamento dei rifiuti. Nel 2013 sembrava che fosse una questione di un paio d’anni al massimo, questo export di rifiuti. Sono passati oltre sei anni, il via-vai continua e il Campidoglio non ha ancora trovato un’alternativa praticabile.
Nel 2018, Ama ha spedito fuori dal Lazio complessivamente quasi 500mila tonnellate fra rifiuti e residui di trattamento (cioè quello che rimane dei rifiuti dopo essere il trattamento meccanico e biologico), per una distanza media di circa 450 km, con costi non indifferenti – circa 200 milioni di euro l’anno secondo dati forniti dalla Regione Lazio – e un impatto ambientale significativo.
Ma il 15 gennaio chiude la discarica di Colleferro e in altre località laziali cresce la protesta contro la presenza dei rifiuti provenienti da Roma, quindi la quantità di export fuori Regione è destinata ad aumentare.
Già nel 2018, il 92% dell’organico, il 10% del combustibile da rifiuti da termovalorizzare, l’84% dei residui di lavorazione dei Tmb dell’Ama destinati alla discarica sono stati trasportati in altre regioni o fuori Italia.
Obiettivi mancati
È anche per questo che, nonostante un piccolo calo negli ultimi due anni, la tariffa per i rifiuti pagata dai romani resta una delle più alte d’Italia, intorno ai 378 euro l’anno a famiglia. Perché bisogna pagare per il trasporto (che produce anche inquinamento e gas a effetto serra) e lo stoccaggio, anche se le aziende che acquistano gli scarti romani poi li usano per alimentare i termovalorizzatori, risparmiando anche sui costi.
Ma bisogna precisare che sulla tariffa incide molto anche il costo dello spazzamento e del lavaggio delle strade, più alto della media italiana, anche a causa delle dimensioni di Roma. E che circa il 50% serve a coprire le spese del personale.
Tra l’epoca prima e quella dopo la chiusura di Malagrotta i prezzi per lo smaltimento dei rifiuti indifferenziati sono quasi raddoppiati, da 67 euro a circa 115, spiegava nel 2014 l’assessora comunale all’Ambiente Estella Marino. Nel primo semestre del 2019, quindi circa 5 anni dopo, il costo varia dai 143 ai 191 euro a tonnellata, certifica l’Agenzia comunale per la qualità dei servizi a Roma (Acos).
Il “Piano per Roma”, firmato nel 2012 dall’ex sindaco Gianni Alemanno e dall’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini per far fronte alla preventivata chiusura di Malagrotta (che poi però fu chiusa l’anno successivo dalla giunta Marino), prevedeva che la raccolta differenziata arrivasse al 50% entro la fine del 2014 e al 65% nel 2016.
A fine 2014, però, la giunta di centrosinistra aveva varato una delibera “Verso Rifiuti Zero” che doveva disegnare un quadro più realistico nel percorso di aumento della differenziata: 65% entro il 2017, 75% entro il 2020%, 80% nel 2029.
Poi nel 2017 è arrivato il piano della giunta M5s, elaborato dall’allora assessora all’Ambiente Pinuccia Montanari (successivamente cacciata dal Campidoglio proprio per lo scontro sui rifiuti con la sindaca Virginia Raggi). Obiettivo: il 70% nel 2021, ultimo anno di consiliatura.
A che punto siamo? Secondo l’Acos, nel 2018 la differenziata è arrivata al 44%. Per l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) si è fermata invece più sotto, al 42,9%, peggio che negli anni passati. Nel primo semestre del 2019, dice l’Acos, ci sarebbe stato però un aumento significativo, con la differenziata passata al 46%. Ma questo vuol dire che per raggiungere l’obiettivo fissato dalla giunta grillina si dovrebbe registrare un aumento della differenziata, in un anno mezzo, di 24 punti percentuali. Possibile?
Cosa serve a Roma
Malagrotta ha funzionato per anni probabilmente perché era più semplice far sparire la polvere sotto il tappeto e rimandare il problema a un momento migliore (la soluzione Rossella O’Hara, spesso preferita dai politici di basso profilo e non solo) piuttosto che costruire un sistema di riduzione sistematica dei rifiuti, producendone meno, raccogliendoli meglio e riciclando tutto quel che si può riciclare. Ma anche con Malagrotta, dicevamo, ci sono state fasi di emergenza.
Come dicevamo, con l’aumento della la raccolta differenziata dei rifiuti diminuisce ovviamente l’uso delle discariche. Ma non scompare del tutto, perché ci sarà sempre una piccola quantità di scarto del trattamento, sia dell’indifferenziato che del differenziato (che a Roma è stata sempre piuttosto alta, finora) che andrà stoccato da qualche parte.
A Roma serve, prima di tutto, spiegare alle persone come si gettano i rifiuti, perché non è chiaro né pacifico come potrebbe sembrare. Non basta fare una paginetta web sul sito dell’Ama o scrivere qualcosa sui cassonetti. Bisogna andare scuola per scuola e condominio per condominio. Anche perché con una maggiore qualità della differenziata si possono chiedere più soldi ai consorzi di raccolta.
A Roma serve aumentare la raccolta porta a porta, che oggi raggiunge circa un terzo degli utenti, mentre il 70% butta (spesso male) in strada. Costa di più, certo, ma è un investimento con un ritorno a breve termine.
A Roma servono più impianti di compostaggio e servono presto, perché l’umido (da cui si può ricavare compost, cioè fertilizzante, ma anche biogas o bioetanolo ) rappresenta la quantità maggiore di rifiuti raccolti in modo differenziato.
A Roma servono più isole ecologiche dove raccogliere in modo separato i materiali e serve rafforzare la raccolta a domicilio degli ingombranti.
A Roma potrebbe servire anche non un inceneritore, ma bruciare invece la “frazione secca” dei rifiuti indifferenziati nei cementifici. Possibilità che però la normativa regionale vieta.
[La foto del titolo è di Fabrizio Lonzini ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]