Assalto al pronto soccorso

Aspettare al pronto soccorso è un’esperienza che tutti abbiamo fatto o che faremo, e di sicuro l’attesa ci sembra spesso incomprensibilmente lunga.
Secondo un monitoraggio compiuto durante quattro mesi quest’anno nel Lazio e a Roma, l’attesa media, dopo il cosiddetto triage – la fase l’operatore divide i pazienti in codici di colore diverso secondo l’apparente gravità del caso – è di oltre due ore per un codice bianco, un’ora e mezzo per un codice verde e un po’ meno di un’ora per un codice giallo. Ma in qualche caso si può arrivare anche a sei ore per i bianchi (a Tor Vergata), tre ore e mezzo per i gialli e tre ore per i gialli  (a Civitavecchia).
Ovviamente ci sono anche tempi minimi (23 minuti per un codice verde al Policlinico Umberto I o 15 minuti per un codice giallo al San Camillo), ma certamente fanno meno notizia e soprattutto creano meno disagio.

Foto di Gianni Dominici diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

I tempi di attesa – spiega un rapporto presentato da  Cittadinanzattiva Lazio e dalla Società Italiana di Medicina di Emergenza-Urgenza (SIMEU) del Lazio, che tra maggio e settembre hanno realizzato un monitoraggio nelle strutture di pronto soccorso – non sono ovviamente inevitabili.

Dipendono da un uso spesso “errato” del pronto soccorso da parte dei cittadini, visto che il 66% dei pazienti ha un codice verde, cioè un problema poco critico, secondo la classificazione dello stesso ministero della Salute, che può essere curato con calma. Se si aggiunge un 2,8% di codici bianchi – situazione non critica, paziente non urgente – si capisce che due terzi delle persone potrebbero essere assistite altrove, senza la stessa fretta che serve in un pronto soccorso, liberando spazio e tempo.

Colpa dei cittadini? No, quando in alcune zone “Il rischio è quello di avere solo il Pronto Soccorso come punto unico di riferimento per i cittadini”, dice il rapporto. Mancano cioè servizi sanitari intermedi tra medico di base e ospedale, e scarseggiano anche le informazioni. Così, in mancanza di certezze, si corre al pronto soccorso.

Ma conta anche la scarsa quantità di medici in servizio, segnala il rapporto: “Accanto a investimenti di carattere tecnologico e all’innovazione di nuovi strumenti di gestione (come le app appena avviate nei PS di Rieti e del San Camillo di Roma per la comunicazione tra il servizio e i parenti in attesa) il primo e prioritario intervento riguarda l’area del personale sanitario quanto a numero di medici (e operatori sanitari) da impiegare in questo fondamentale servizio”.

Infine, i tempi dipendono anche da dove sono ubicate le strutture. A Roma, per esempio, c’è un problema nella parte orientale della città, che è cresciuta in modo abbastanza caotico negli anni senza che ci fosse un’adeguata crescita di servizi. Il risultato che oggi il Policlinico Casilino è, dopo l’Umberto I, il secondo pronto soccorso per numero di accessi, tra quelli monitorati dal rapporto: 83.640 pazienti nel 2018 contro 138.934. E lo stesso vale per molte zone oltre il Raccordo Anulare.

Foto di Gianni Dominici diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Che ci siano problemi non lo sanno solo gli utenti, ma anche i primari e i responsabili dei dipartimenti. Secondo un sondaggio condotto tra di loro da Cittadinanzattiva, il funzionamento della rete tra emergenza urgenza e territorio è considerata prevalentemente “insufficiente” (52.17%). Solo il 30,43% dei responsabili intervistati la reputa “sufficiente” ed il 17,39% in “buono” stato.

Tra i problemi segnalati, c’è la carenza di personale per la diagnostica strumentale e in generale di medici e infermieri, l’assenza cardiologi nel pomeriggio, di notte e nei giorni festivi, la reperibilità dei posti letto. Ma c’è anche “l’invio al pronto soccorso di persone senza motivi di urgenza”e lo scarso filtro esercitato “da parte del personale territoriale”.

Foto di Jon Cates diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Insomma, serve una risposta complessiva. E anche se la sanità è una delle competenze principali della Regione, nel Lazio non si può ignorare che la Capitale, con i suoi quasi 3 milioni di abitanti è sia un enorme bacino di utenza con necessità specifiche, sia un polo attrattivo inevitabile anche per le altre province. E il sindaco è per legge il responsabile delle condizioni di salute della popolazione nel suo territorio. Un problema che non si è posto gran che né la prima cittadina attuale né i suoi predecessori, a dire il vero.

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