Lottare sempre, a Spinaceto
Confesso: il libro di cui sto per scrivere mi ha fatto sentire un po’ vecchio. Perché racconta eventi di diversi decenni fa, ormai. Ma insieme, mi ha fatto pensare al fatto che noi cinquantenni, se non uan gioventù che non c’è più, al contrario possiamo vantare almeno un’esperienza e una memoria. E forse è il caso che iniziamo a esercitarla.
E in fondo, è un libro di memorie e riflessioni sul calcio (praticato), su Roma, sulla politica (di sinistra) e sul giornalismo, quello di Fabio Luppino, “Con gli occhi di un terzino sinistro”, che dichiara come sottotitolo “Calcio e anni Settanta a Spinaceto, Comune di Roma”.
La generazione è quella della “Pantera”, che a cavallo tra il 1989 e il 1990 animò soprattutto la protesta nelle università e in parte nelle scuole (ma mi pare che Fabio non ne parli mai). Prima era stata quella soprannominata dai giornali “I ragazzi dell’85”, movimento durato, credo, un mese .
Come scrive Fabio – lo chiamo per nome perché lo conosco ormai da trent’anni, anche se non siamo stati mai amici né intimi – “Ma noi, che avevamo vent’anni negli anni Ottanta eravamo piccoli e inutili davanti alle gesta di chi aveva deciso nel decennio precedente di cambiare il mondo, di chi si era intestato idee e successi, di chi sentiva di aver sradicato l’ipocrisia, il vecchiume, costumi rattrappiti e soffocanti”: figli di un dio minore, insomma.
“Noi venivamo dopo, disincantati, attoniti e minori, in alcuni casi costretti a osservare le macerie di quello che non aveva funzionato, ed era molto… Ma chi dice che fosse un male? Avevamo un’eredità pesante con la quale fare i conti, ma che in nessun modo potevamo sentire nostra. Meglio soli, meglio pensare, magari essere invisibili, ma trovare una strada, ognuna la propria, e al bando le appartenenze”. Non è un elogio del riflusso: conoscendo Fabio Luppino, tutt’altro. È un tentativo invece di trovare una strada propria. E quando leggo “lottare, sempre”, penso a quell’incitazione, “al lavoro e alla lotta”, che il capocronista dell’Unità dava, scherzando ma anche no.
Il racconto del “Terzino Sinistro” inizia appunto su un campo di pallone nel 1982, uno degli anni che vengono celebrati con entusiasmo da qualche tempo (anche troppo) nelle serie tv-streaming e nella musica, ma che era veramente un momento di passaggio tra quelli prima di noi e il post-moderno. Comincia così il racconto di un quartiere, Spinaceto, che è periferia romana ma non pasoliniana, piuttosto piccolo borghese, e di una serie di fatti e consumi culturali e mode in cui mi riconosco ampiamente, visto che siamo coetanei, ma non completamente, anche dal punto di vista politico.
Nei vari flashback c’è il momento in cui a scuola, si sparse la notizia del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta, che fu un discreto casino. Vedemmo, forse fu una delle prime volte, gli adulti disorientati, incerti, per primi i nostri insegnanti, quelli che ti dovrebbero tenere in riga.
Poi, c’è tanto calcio, nel libro. Per me, che non sono stato mai un grande sportivo e che comunque facevo un po’ di atletica leggera, una roba completamente proprio diversa. E così quando Fabio racconta dei padri, soprattutto, e delle madri, che ti accompagnano nei weekend a fare le gare, magari 50 settimane l’anno, ho rivissuto quella sensazione da padre, non da figlio. Ma mi sono segnato la pagina perché, appunto, è una specie di esperienza universale, che trascende tempo, spazio, orientamenti politici e culturali.
Eppoi il rapporto con le ragazze, che probabilmente per tutti noi, anche per mio figlio, rappresentano un altro mondo. Eppoi la politica, vista da chi è sempre stato a sinistra (anche se poi a sinistra c’erano e ci sono tanti modi di stare, di solito rivendicando le proprie differenze), ma non per questo smette di interrogarsi. I funerali di Enrico Berlinguer, che ricordo benissimo, e che per me erano una manifestazione soprattutto di affetto, visto che appartenevo già a un’altra confessione politica – che pensavo più smart, per usare una parola attuale – pur restando di sinistra. Per Fabio “un mondo ideale finiva lì”, nella lunga celebrazione di Berlinguer a Roma, con la festa nazionale dell’Unità che si tenne in un posto che non esiste più, a Eur-Torrino (non esiste più com’era, una specie di grande prato che stava per essere mangiato da palazzoni).
Tutto questo però non fa del libro, che non è né un saggio né un racconto ma, appunto, piuttosto un memoriale, un canto triste. Al contrario. Quel “Lottare, sempre” non è fine a se stesso. Perché invece bisogna “rialzarsi, quando sembra che davanti a noi ci sia un muro. Carpire, trattenere e poi decidere, prendere per mano il proprio destino, affermarlo davanti a tutti. Energie positive che dopo i vent’anni ci torneranno sempre utili”.
Fabio Luppino, Con gli occhi di un terzino sinistro, Emersioni 2019, 106 pagine, 13,50 euro