In stadio di abbandono: il Flaminio

“Famo sto stadio!”. Ve lo ricordate Luciano Spalletti, all’epoca allenatore della Roma, che irrompe davanti alle telecamere di Sky, per perorare, in uno stentato romanesco, la causa del nuovo stadio a Tor di Valle? Era il febbraio del 2017. Esattamente due anni dopo, nel febbraio 2019, si scopre che “famo sto stadio” è anche il nome della chat di whatsapp che Luca Parnasi e i suoi collaboratori usano da tempo per raccontarsi gli esiti dei loro incontri con politici e funzionari pubblici. Una chat i cui contenuti finiranno forse per essere analizzati nel processo per associazione a delinquere che sembra prospettarsi intorno ai protagonisti del progetto.

La vicenda dell’ipotetico stadio a Tor di Valle, che nel frattempo ha assunto dei contorni di carattere giudiziario, è oggi ben lontana dall’essersi definita. Non si sa ancora se “sto stadio lo famo o non lo famo”, non si sa bene “dove lo famo”, non si sa nemmeno “quando lo famo”. Quello che però si sa, con certezza, è che, mentre si progetta un nuovo stadio per la Roma e se ne ipotizza anche un altro a Roma Nord per la Lazio, diverse grandi strutture sportive capitoline giacciono dimenticate, in qualche caso chiuse e lasciate all’incuria (come ad esempio il Palazzetto di viale Tiziano), in altri casi mai ultimate, nonostante ingentissimi investimenti, come le piscine mondiali del Valco San Paolo, o la grande città dello sport dell’archistar Calatrava, a Tor Vergata.

Con queste premesse, verrebbe da chiedersi: siamo sicuri della necessità di costruire nuovi stadi, visto che la città attualmente non riesce a gestire neanche quelli già esistenti? E poi perché così tanti impianti dedicati allo sport giacciono inutilizzati? Perché nessuno prova a restaurarli o ultimarli, rendendoli fruibili? Con questo articolo, comincia un viaggio a puntate fra le principali strutture sportive romane che versano in uno stato di degrado o di totale abbandono. 

La prima tappa è in uno dei quartieri più ricchi ed eleganti di Roma, a pochi passi dai Parioli e dal centro storico della città, per raccontare la storia (e il triste presente) di quello che è forse fra i più significativi capolavori dell’architettura ingegneristica del novecento: lo stadio Flaminio.

Foto di Pietromassimo Pasqui diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

La forza dei Nervi

È il 5 febbraio del 2000. Sono le ore 15. Il tempo è sereno. L’Italia esordisce nel prestigioso torneo di rugby “Sei Nazioni”, in uno stadio Flaminio gremito e festoso. Tutto inizia sotto i migliori auspici, sia sul piano organizzativo che su quello dei risultati, grazie a una storica vittoria sulla Scozia: 34-20 il punteggio finale per gli azzurri. Sembra il preludio di un duraturo rapporto d’amore fra l’Italia e la palla ovale e fra Roma e il suo Stadio Flaminio, che del rugby è diventato l’inviolabile “tempio”. Sembra. Invece, quella memorabile giornata, segnerà un picco che è l’inizio di un lento e inesorabile declino.

La storia dello Stadio Flaminio comincia 44 anni prima, quando, nel 1956, in vista delle imminenti Olimpiadi assegnate a Roma, viene indetto un concorso pubblico per la costruzione di un nuovo stadio nell’area su cui, fino a quel momento, insisteva lo stadio Nazionale (detto anche “Stadio Grande Torino” in onore della squadra scomparsa a Superga).
A vincerlo è la “Nervi & Bartoli”, società di proprietà dell’ingegnere Pier Luigi Nervi, che affida il progetto esecutivo al figlio Antonio. I lavori iniziano a luglio del 1957 per terminare un anno dopo. I Nervi (autori, a Roma, anche dell’adiacente Palazzetto dello Sport e dell’attuale PalaLottomatica) realizzano un impianto di tipo innovativo, tutto in cemento armato, di grande eleganza architettonica. L’inaugurazione avvenne il 19 marzo 1959, in diretta tv, per poi ospitare l’anno successivo diversi incontri ufficiali del torneo di calcio delle Olimpiadi  del 1960.

Il successo dell’impianto porta i Nervi ad essere chiamati ovunque all’estero, per realizzare impianti analoghi: dall’Europa agli Stati Uniti, dal Sud America al Sud Africa, dall’India al Medio Oriente. Non altrettanto successo avrà invece il rapporto fra lo stadio e il calcio capitolino. Finite le Olimpiadi, le società calcistiche di Roma e Lazio, preferiranno infatti utilizzare quale impianto per le proprie gare ufficiali, il più capiente stadio Olimpico, relegando il Flaminio ad ospitare i soli incontri della Lodigiani (terza squadra romana, militante, nei suoi migliori anni, in serie C).

I “guai” per il Flaminio (in uno dei più classici “paradossi all’Italiana”) cominciano quando, nel 2004, lo stadio viene dichiarato bene di interesse artistico e storico e posto sotto vincolo e tutela

Visto il suo scarso appeal per le società di calcio, ecco perciò affacciarsi l’idea di trasformare il Flaminio in una sorta di “casa del rugby”. Già dagli anni settanta alcune partite della nazionale italiana di quello sport vengono ospitate al Flaminio. Poi, come detto in precedenza, con l’entrata della nazionale azzurra nel “Sei Nazioni”, lo stadio diventa la sede ufficiale italiana del prestigioso torneo. Tutto sembra procedere a gonfie vele: lo stadio si presta benissimo per le esigenze dello sport dalla palla ovale e le tribune sono sempre gremite a ogni incontro della nazionale. L’idillio però, pochi anni dopo l’inizio del prestigioso torneo rugbistico, è destinato a interrompersi bruscamente.

Foto di Andrea Cirillo, diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

Sotto tutela

I “guai” per il Flaminio (in uno dei più classici “paradossi all’Italiana”) cominciano quando, nel 2004, lo stadio viene dichiarato bene di interesse artistico e storico e posto sotto vincolo e tutela. Proprio in quegli anni, il successo di pubblico degli incontri della nazionale di rugby, rende necessario immaginare un adeguamento della sua capienza, per portarla da circa 30.000 a 40.000 posti. Gli eredi della famiglia Nervi, che ancora detengono la proprietà intellettuale dell’opera, esprimono però contrarietà ai vari piani di ristrutturazione e adeguamento presentati dal Comune di Roma, che rischiano di stravolgerne l’armonia architettonica.

Inizia così una querelle che porta ad un “nulla di fatto” per tutti i progetti proposti, incluso quello firmato da Renzo Piano per la riqualificazione non solo dello stadio ma dell’intera area di viale Tiziano. In questa situazione d’incertezza, la Federazione Italiana Rugby comincia poco a poco a rivedere le sue posizioni e a disinvestire dallo stadio. Il 12 marzo del 2011, di fronte a 32.000 spettatori, l’Italia batte la Francia 22-21 proprio al Flaminio, grazie a una meta siglata negli ultimi istanti di gara. È l’ultima gioia che i tifosi vivranno su quelle tribune. Pochi mesi dopo, la Federazione Italiana Rugby decide formalmente di lasciare il Flaminio e di spostare allo stadio Olimpico le partite della Nazionale.

Da quel momento inizia una sarabanda di annunci, di ipotesi, di suggestioni sull’utilizzo dell’impianto, in un avvicendarsi di progetti, contro-progetti, proposte, tanto belle sulla carta, quanto inefficaci su un piano concreto.

Foto di MarianOne diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Anno Domini 2013: Luca Pancalli, assessore allo sport della Giunta Marino, propone alla Federcalcio di prendere in carico la gestione dei Flaminio, per trasformarlo nella casa del calcio giovanile, aprendo la struttura anche alle scuole, per svolgere lì attività sportive ed extrascolastiche. Tutto sembra procedere per il meglio, se non che, nel giro di pochi mesi, l’intera dirigenza della Federcalcio italiana si dimette dai propri incarichi e, con quelle dimissioni, anche il progetto Flaminio finisce per essere abbandonato, ufficialmente per ragioni di carattere economico.

La palla torna così al Comune che, ad agosto 2015, per bocca dell’allora assessore all’urbanistica Giovanni Caudo, annuncia che la struttura potrebbe in futuro ospitare eventi culturali, fiere, concerti, asserendo che esistono già in merito diversi progetti di operatori privati che verranno valutati dall’amministrazione capitolina. Peccato che, pochi mesi dopo, la giunta Marino cade e anche quella ipotesi finisce nell’oblio.

Da quel momento inizia una sarabanda di annunci, di ipotesi, di suggestioni sull’utilizzo dell’impianto, in un avvicendarsi di progetti, contro-progetti, proposte, tanto belle sulla carta, quanto inefficaci su un piano concreto

A partire dal 2016 ecco perciò apparire, a più riprese, il suggerimento di trasformare il Flaminio nella “casa delle Aquile”, cioè nella sede ufficiale della società sportiva Lazio. L’idea trova spazio sui media e viene rilanciata anche da alcuni consiglieri comunali. Peccato che, per rendere lo stadio idoneo alla Serie A, bisognerebbe aumentarne i posti a sedere, dotarlo di una copertura conforme alle normative europee ed effettuare un numero rilevante di modifiche strutturali. La famiglia Nervi, per tutelare il pregio dell’opera architettonica, esprime subito la sua contrarietà. Lo stesso presidente della Lazio, Claudio Lotito, non pare troppo entusiasta rispetto all’ipotesi. Anche questa soluzione finisce quindi in un nulla di fatto.

A quel punto, cominciano ad accavallarsi nuove ipotesi di riqualificazione, alcune piuttosto fantasiose, come quella di un crowdfunding fra i cittadini romani, in vista di una sorta di “gestione popolare” dello stadio; altre molto “impattanti”, come l’ipotesi di abbattimento e ricostruzione totale, apparsa con il “piano Industriale per Roma” (meglio conosciuto come “piano Calenda”). In base a quella proposta, la ristrutturazione sarebbe dovuta partire ad ottobre 2017, con l’avvio della fase preliminare del progetto. Un iter mai avviatosi e infine sparito dai radar.

Foto di Iragazzidiredbull, diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Arriviamo così al 2017, quando la Getty Foundation di Los Angeles, all’interno del suo programma “Keeping It Modern”, assegna un fondo di 161.000 euro per il restauro e la riqualificazione dello stadio. L’Università La Sapienza di Roma presenta allora un piano per poter usufruire di quei fondi. Passano i giorni, i mesi, gli anni, ma nulla sembra succedere.

E così oggi, nella fiduciosa attesa che prima o poi qualcosa si muova, lo stato del fu glorioso stadio Flaminio è sempre più desolante

Poi, ad agosto del 2019, ecco che l’assessore allo sport della giunta Raggi, Daniele Frongia, rilascia un’entusiastica intervista al Corriere della Sera: “Progetto pronto!” titola il giornale. Nell’intervista l’assessore afferma: “Entro novembre 2019 sarà completato il progetto di riqualificazione, per il quale abbiamo istituito un gruppo di lavoro con la facoltà di Ingegneria della Sapienza, che si occupa del piano di conservazione, Cassa Depositi e Prestiti e l’Istituto di Credito Sportivo: un progetto che farà da volano per la riqualificazione urbana del Villaggio Olimpico e dell’intero quadrante Flaminio”.
Il progetto viene presentato come una sorta di riedizione aggiornata di quello del 2013: una struttura sportiva polivalente, aperta ai cittadini e alle scuole del territorio. Peccato però che non venga indicata nessuna data, nemmeno approssimativa, per l’inizio dei lavori.

E così oggi, nella fiduciosa attesa che prima o poi qualcosa si muova, lo stato del fu glorioso stadio Flaminio è sempre più desolante. Il campo, un tempo verde e rigoglioso, è diventato una distesa polverosa di terra e di sassi. Le tribune cadono letteralmente a pezzi. Nei bagni, una volta destinati al pubblico, è addirittura cresciuto un albero di fico. L’unica, magrissima consolazione, in un mal comune che forse non fa nessun mezzo gaudio, è quella di condividere lo stesso destino con l’adiacente Palazzetto dello Sport, anch’esso prospiciente quel viale Tiziano divenuto una sorta di “viale delle rimembranze”. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.

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