Il medioevo perduto di Ostia

Nel 1938 il regime fascista decise di accelerare bruscamente il ritmo degli scavi di Ostia, in vista della Esposizione Universale prevista per il 1942. Fino ad allora era stato riportato alla luce circa un terzo della città antica (la cui estensione complessiva dovrebbe aggirarsi intorno ai 50 ettari): in pochi anni ne venne scavato un altro terzo (circa 600.000 metri cubi di sterro).

Lo scavo produsse nuove e importanti scoperte, ma la frenesia ed il retorico privilegiare i monumenti più importanti, determinarono una disastrosa carenza della documentazione e la scomparsa di gran parte delle testimonianze tardoantiche ed altomedievali di Ostia, un danno irreparabile che ha precluso per sempre la possibilità di ricostruire con sufficiente esattezza le vicende della città in età post romana e medievale.

Foto di Richard White diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Di tale visione resta traccia in quanto dichiarato, ancora nel 1953, nel primo volume della serie “Scavi di Ostia” (peraltro eccellente):

È accaduto infatti di incontrare nello scavo ostiense una quantità di ripieghi adottati dagli ultimi e poveri abitatori ostiensi per prolungare l’agonia della città in rovina : scale sbarrate, finestre chiuse, apertura di porte tramezzamenti di ambienti […]. Elementi tutti che non hanno alcun valore storico e archeologico e dal quali non viene fuori alcun alito di vita. Le sovrapposizioni o le superfetazioni di mezzo secolo di misera agonia non valgono certo monumenti di sette secoli di vita rigogliosa di Ostia.[…] Non è che si sia soppresso tutto ciò che sarebbe stato meglio che non ci fosse, ma ciò che veramente, e in taluni caso soltanto, troppo impaccia, falsa, immiserisce, deturpa la comprensione, lo studio, il tipo, l’aspetto delle costruzioni” .

Guido Calza, che scrisse queste parole, è stato per altri versi un importante archeologo, cui si devono ricerche, scoperte e sistemazioni fondamentali per la storia di Ostia. Si coglie però nelle sue parole, attenuatasi la retorica di regime, una completa indifferenza (temo dovuta anche alla scarsa conoscenza) non solo per le testimonianze di età tarda e medievale, bensì soprattutto per quella metodologia di studio e ricerca che attribuisce, giustamente, maggiore importanza alle relazioni che si stabiliscono tra determinati oggetti che agli oggetti stessi, i quali, isolati dal contesto, narrano una storia incompleta, se non addirittura deformata dal loro isolamento.

Una visione che ha segnato a lungo l’archeologia italiana, e purtroppo anche il destino di molti monumenti e aree archeologiche, e che non dobbiamo credere sia svanita nel nulla, al contrario riemerge continuamente, non tanto nelle dissertazioni accademiche o nelle dichiarazioni pubbliche, ove verrebbe facilmente smascherata, bensì nel quotidiano rapporto tra la società e i beni archeologici, ogni qualvolta che nel nome di un determinato interesse di un certo monumento si dice (a voce o nelle scartoffie) che esso possiede poca o alcuna importanza.

Forse non tutto è perduto. Una grossa porzione del tessuto urbano di Ostia giace ancora sepolto ed inesplorato, specie nel settore orientale, ed è auspicabile che grazie a questo si possano individuare testimonianze che consentano di far luce sulla storia post antica e medievale della città.

[Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul blog Notizie degli Scavi]

[La foto del titolo è di Vittorio ed è stata diffusa su Flickr,com con licenza creative commons]

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