Il terziario arretrato e la tassa sulla pipì

La “tassa sulla pipì”, come l’hanno già chiamata da tempo alcuni media, in realtà non esiste. Non c’è scritto da nessuna parte che bar ed esercizi commerciali debbano per forza far pagare l’uso dei bagni da parte di coloro che non sono clienti. La Regione Lazio, invece, chiede nel Testo Unico sul Commercio appena approvato che chi impone un pagamento per utilizzare il bagno debba indicarlo bene e precisare qual è il costo.

Sembrerebbe una misura minima, e lo è. Ma è anche il riflesso di una possibile rivoluzione epocale, dalle implicazioni economiche e professionali.
Non ci credete? Il quotidiano “il Giornale” ipotizza un giro d’affari da 20 milioni di euro l’anno solo a Roma, immaginando il pagamento di un euro a minzione. Non sappiamo su che base siano stati fatti, i calcoli, ma sembrano comunque promettenti: nuove opportunità di crescita economica per il commercio, nuove figure professionali.

Foto di Tony diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

In Belgio, per esempio, esiste una figura specifica, chiamata informalmente “madame pipì”: si tratta infatti di una donna, solitamente, che tiene pulito il bagno del bar, ristorante, brasserie etc – parliamo di toilette abitualmente nel sottoscala, di grandi dimensioni – e distribuisce anche carta igienica, in cambio di un piccolo pagamento da parte del cliente. 

I bagni a pagamento esistono anche da noi: nelle stazioni ferroviarie e in alcuni autogrill, soprattutto.
Il Comune di Roma negli anni passati ha anche provato a installare vespasiani a pagamento per le vie della città, ma non ha funzionato, soprattutto per gli assalti di bande criminali che si sono impossessate in alcune occasioni delle casse automatiche.

Gli esercenti cercano quasi sempre di limitare l’utilizzo dei bagni – obbligatori negli esercizi dove si può consumare sul posto, dove c’è servizio al tavolo – ai soli clienti, anche perché pulire e mantenere puliti gli spazi igienici ha un costo ed è una fatica.
Per questo, spuntano sempre più spesso cartelli che recitano “la toilette è riservata ai soli clienti” o si usa affidare la chiave alla cassa, oppure si dice semplicemente “no, guardi, il bagno è rotto” a chi non ha una faccia sufficientemente rassicurante.

Foto di Julian K. diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Ora però, il commercio capitolino potrebbe trovare un nuovo slancio da questa apparentemente innocente misura. Il Pee fee – come dovremmo chiamarlo, anche per dargli una dimensione internazionale – consentirebbe di creare nuovi posti di lavoro. Un terziario molto arretrato, diciamo, ma sempre terziario. L’importo potrebbe essere differenziato secondo le zone (si paga di più al centro, oppure il costo è più alto dove scarseggiano i servizi igienici?), e si potrebbe magari introdurre un po’ di sana concorrenza (“Fare pipì qui costa solo 20 centesimi!”) o sconti e abbonamenti per chi è iscritto a qualche associazione.

Ne risentirebbero anche in positivo, magari, le casse dell’erario, a condizioni che i negozianti dichiarino esattamente l’ammontare delle entrate del “Pee fee”. In un Paese in cui l’evasione fiscale è così forte, sarà la questione più difficile da risolvere. Magari, però, si potrebbe introdurre, allo scopo, il pagamento col bancomat.

[La foto del titolo è di Emmapatsie, ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

 

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