Fenomenologia dello “sticazzi”
Da qualche tempo, sta ottenendo un sorprendente successo e un altissimo numero di like e di condivisioni sui social, un video in cui l’attore Marco Giallini, nei panni di Rocco Schiavone, spiega, ad uso e consumo di chi conosce poco Roma e il suo modo di essere, la fondamentale differenza fra due note espressioni del gergo romanesco: sti cazzi e me cojoni, i due poli antitetici della filosofia capitolina.
Da una parte, sui Sette Colli, da tempo immemorabile, impera “sti cazzi”, ovvero l’antica indolenza romana, quella di chi da millenni ne ha viste accadere di tutti i colori e sa che nulla può più sorprenderlo; dall’altra fa da contraltare “me cojoni”, cioè l’incontenibile meraviglia di uno spirito perennemente innocente, che riesce ancora a stupirsi, sempre incredulo per ciò che accade.
Sembrano due modi inconciliabili di affrontare la vita, ma nell’animo dei romani “sti cazzi” e “me cojoni!” riescono da sempre a convivere. E’ proprio grazie a quell’equilibrio, a quella efficacia nell’armonizzare gli opposti, che la città ha potuto crescere e prosperare: da un lato la capacità di non cedere mai a facili illusioni, di guardare le cose con superiore distacco, ma dall’altra anche quella gioia e quello stupore, che si riflettono nell’animo verace e un po’ bambinesco del romano, o nelle architetture barocche delle piazze del centro, ricche di fontane dalle figure mitologiche e di scorci che, immancabilmente, da Piazza Navona a Trinità de’ Monti, da San Pietro ai Fori Imperiali, sanno farti esclamare stupito: “me cojoni”!
Il problema è che quell’equilibrio antico e quasi perfetto, quel saper usare sempre senza eccessi l’uno e l’altro piatto della bilancia, negli ultimi anni, pare essersi incrinato. Più o meno dall’inizio del millennio, nell’animo del romano medio, “sti cazzi” sta cominciando a prevalere sul suo naturale contraltare, mentre è sempre più raro sentire un “me cojoni” autentico, che venga detto senza un velo di sarcasmo e di ironia, che non finisca quindi per trasformarsi nel suo contrario, cioè in uno “sti cazzi” implicito.
“Sti cazzi” non è la versione de’ noantri del rude e spocchioso “me ne frego” di mussoliniana memoria. Chi è romano lo sa. In uno “sti cazzi” non c’è nessun senso di superiorità, di sfida, di orgogliosa rivalsa. “Sti cazzi” non ha nulla di bellicoso. Non è una dichiarazione di guerra, ma è semmai una resa. Tradisce un fastidio e un’amara delusione per le persone, per le cose, per la vita. Contiene in sé la delusione depressiva di un amante tradito, un embrione di nichilismo pessimista e distruttivo, incapace di portare verso alcuna direzione che non sia l’isolamento.
Nel leggere l’evoluzione di Roma, l’alternarsi di splendori e di disastri, di momenti di crisi e di rigoglio artistico ed economico, oltre ad analizzare le politiche dei suoi governanti, le trasformazioni sociali dei suoi abitanti, lo sviluppo urbanistico dei suoi quartieri, una suggestiva chiave di lettura, capace di indicare con quasi assoluta precisione il momento storico che vive in quel momento la città, si ottiene osservando il prevalere, nel linguaggio quotidiano, del “me cojoni” o dello “sti cazzi”.
È il 1980, siamo in via dei Pettinari. Un’anziana signora sta bevendo un Crodino in un bar del centro. Le si avvicina un giovane e le fa: “Voi siete la Sora Lella?”. “Sì, e voi chi siete?”. “Sono Carlo Verdone, vi voglio proporre un provino per il mio film”. “Me cojoni!”
È Verdone stesso a descriverci esattamente così il suo primo incontro con Lella Fabrizi, all’epoca soltanto sorella minore del grande Aldo, in una Roma ancora capace di meravigliarsi. Una Roma ancora “me cojoni”.
Siamo nel 2003, in via Teulada. Negli studi di Radio Rai comincia la trasmissione “610” con Lillo e Greg. Durerà per anni. Tra le gag di maggiore successo quella del Grande Capo Estiqaatsi, un romanissimo capo indiano, che immancabilmente inizia ogni sua frase col tormentone “Estiqaatsi…”.
Pochi anni dopo “E sti cazzi” sarà anche il tormentone di Nando Martellone, un personaggio interpretato da Massimiliano Bruno nella serie tv “Boris”.
Sarà un caso, ma i comici romani, sono passati, negli ultimi decenni, da un uso discreto del “me cojoni” a quello smodato dello “sti cazzi”. Per far ridere, si sa, bisogna essere sempre in sintonia col proprio pubblico. E il pubblico, durante questi decenni, ha visto sorgere e tramontare giunte comuniste e di centrosinistra, poi ex missini e infine antipolitici, in un’onestà promessa che ancora non va di moda. Ha visto le periferie degradate e ha visto mafia capitale. Ha visto le famiglie dei palazzinari romani, arrivate a guidare l’informazione locale. Ha visto il carro funebre dei Casamonica e la testata degli Spada.
Ma soprattutto, quel pubblico, è rimasto in questi decenni fermo in macchina sulla tangenziale, coi lavori della nuova linea del metrò sempre in procinto di essere sospesi, avvolto dal fumo e dall’odore acro di un TMB che brucia. E così, mentre la pioggia apre una nuova buca nell’asfalto e bagna i rifiuti nei cassonetti stracolmi, quel pubblico romano ha deciso di adottare la sua antica, ma sempre efficace, arma di difesa: “E sti cazzi!”. Un’arma segreta capace di difenderlo dai barbari più e meglio delle Mura Aureliane. Ci si rinchiude, ci si protegge, ci si isola.
L’Urbe, durante i millenni, è sopravvissuta alla caduta dell’Impero, ai Lanzichenecchi, alla peste, alle inondazioni del Tevere. Sopravviverà anche alla crisi strisciante che in questo millennio pare aver minato il suo spirito. Ma se non dovesse sopravvivere, l’ultimo romano rimasto, quello che assisterà alla sua fine, non si perderà d’animo. Guarderà lo sfacelo, scuotendo un po’ la testa, poi alzerà le spalle, allungando il passo ed esclamerà indolente: “E sti cazzi!”.