Un commercio piccolo piccolo

A Roma è un mercoledì come tanti. Un normalissimo mercoledì 2 ottobre. Sono le 18.00. All’improvviso, le insegne di molti negozi della città, nelle principali vie dello shopping e anche in qualche strada laterale meno frequentata, si spengono. Eppure non c’è stato alcun black out, non risulta nessun problema di fornitura elettrica, né alcuna difficoltà di natura tecnica da parte di Acea.

Cosa è accaduto? E’ semplicemente successo che i negozianti romani hanno spento l’interruttore. Click. Tutto qui. Una decisione libera e spontanea: spegnere le insegne per un paio d’ore, tutti insieme.

Quello delle luci spente dei negozi è una sorta di “flash mob” diffuso, una protesta silenziosa messa in atto dai commercianti per farsi notare, dai tanti piccoli e medi esercenti della Capitale, persone che si sentono abbandonate dalle amministrazioni, vessate dal fisco, stritolate dalla crisi economica, strette nella morsa di una doppia concorrenza che le schiaccia: da una parte i grandi centri commerciali, sempre più numerosi, dall’altra il commercio on line, col suo rapido e apparentemente inarrestabile sviluppo.

Quando raccontiamo della crisi dei negozi di vicinato, non parliamo di un semplice problema economico, di una questione di nicchia, capace di interessare la sola categoria dei commercianti, ma affrontiamo una fondamentale questione sociale

Il loro è un piccolo gesto simbolico, per portare all’attenzione di tutti un grande problema: la grande distribuzione, le multinazionali, che, un po’ ovunque, soffocano le città, uccidendo i cosiddetti “negozi di vicinato”, le botteghe artigiane, cioè il corniciaio, il pescivendolo, il pizzicagnolo, la merceria, il negozietto di abbigliamento a gestione familiare, con conseguenze nefaste sul tessuto sociale e urbano.

Chiudere il negozio sotto casa, significa infatti (non solo simbolicamente come nel caso della protesta del 2 ottobre) spegnere definitivamente le sue luci, rendendo più buia e più insicura una via. Significa ridurre il passeggio, trasformando le strade in luoghi più tristi e più vuoti. Significa anche eliminare quella chiacchiera quotidiana tra clienti ed esercenti, tra l’operaio e il salumiere, l’avvocato e il tabaccaio, il medico e il ferramenta, quella che avviene davanti a botteghe che sono lì da anni, punto di riferimento per tutti, gestite da famiglie di commercianti (sempre le stesse, da generazioni) che conoscono tutti, salutano tutti, raccontano novità e pettegolezzi, fungono da collante e contribuiscono ad evita che il quartiere si trasformasse in un dormitorio. 

È per questo che quando raccontiamo della crisi dei negozi di vicinato, non parliamo di un semplice problema economico, di una questione di nicchia, capace di interessare la sola categoria dei commercianti, ma affrontiamo una fondamentale questione sociale, di qualità della vita, di servizi, di sicurezza, di buona armonizzazione del tessuto urbano, che incide sulle esistenze di tutti gli abitanti della città. 

Foto di Andrea Donato Alemanno diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

Così vicini, così lontani

La questione dei negozi di prossimità è una questione centrale per lo sviluppo urbano. Una città priva di negozi di strada, dove tutto è concentrato nei grandi centri commerciali “fuori porta”, è una città radicalmente diversa rispetto a quella che per secoli abbiamo conosciuto. Una città “aliena”. Per questo le battaglie del piccolo commercio dovrebbero essere sentite e fatte proprie da ogni romano, Perché ciascuno di noi, ad ogni negozio che chiude, ha un punto di riferimento in meno, un pezzo della propria vita da perdere. 

Eppure ciò non avviene. La percezione di una solidarietà diffusa rispetto al piccolo commercio non c’è. Anzi, le istanze degli esercenti raramente riescono a generare un ampio consenso. La morte delle botteghe, strozzate dalla grande distribuzione, viene vissuta con indifferenza dal resto della popolazione capitolina, nonostante le ricadute di questo fenomeno che, nel bene e nel male, incidono sulla vita quotidiana di ciascuno di noi. 

Da cosa nasce questa indifferenza, che a volte sembra quasi una vera, silenziosa, ostilità? Ci sono senz’altro motivazioni storiche e sociologiche, le cui radici si perdono nel passato. Spesso il commerciante è percepito dal romano medio (a torto o a ragione) come un evasore incallito, come uno che non sempre batte gli scontrini, che quasi mai emette fattura (sistemi di sopravvivenza spicciola, quasi sempre messi in atto per non soccombere a un sistema di tassazione troppo oneroso per chi ha una partita iva, come è il caso dei commercianti), quindi come un “privilegiato”, che può eludere le tasse più e meglio di un impiegato o un insegnante.
Da parte di qualcuno c’è stata e c’è, dunque, una malcelata invidia sociale. 

In altri casi c’è anche la percezione di una certa distanza culturale, dato che (fin dai tempi della controriforma e del suo concetto di “denaro sterco del demonio”) una parte del commercio romano, soprattutto nelle principali vie dello shopping, è stato ed è tuttora appannaggio della comunità ebraica. Una comunità che, nonostante millenni di convivenza, da alcuni romani viene ancora percepita come “altra” e “diversa” rispetto al resto della vita urbana.

Queste però sono motivazioni di scarso peso, questioni minime e collaterali, secondarie, facilmente superabili se il commercio romano comunicasse in modo efficace le proprie ragioni. E di ragioni ne avrebbe da vendere. Il problema, però, è che questo modo efficace di comunicare ancora non c’è.

Foto di Corrado diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Anziché sottolineare le serissime questioni sociali che giustificano la loro protesta, spesso sono i commercianti stessi a segnalare all’esterno tutt’altre questioni, molto meno nobili e molto meno condivisibili. Motivazioni da “bottegai”, come si dice a volte in senso dispregiativo, a segnalare interessi esclusivamente di parte, che allontanano una possibile condivisione da parte di chi commerciante non è. 

Eppure, appena qualche anno fa, sembrava che i piccoli commercianti avessero intuito la natura del problema e si preparassero ad attuare delle efficaci contromosse. È una storia recente, che forse vale la pena raccontare

Tanto per fare un esempio, nel volantino distribuito in occasione della iniziativa del 2 ottobre, c’è scritto al secondo punto, fra le ragioni principali della protesta: “Siamo contro i cordoli per le corsie preferenziali e le zone a traffico limitato sempre più stringenti”.
Dunque, a scaldare gli animi dei commercianti, in un’imbarazzante mancanza di visione globale del loro stesso problema, sembrano non esserci tanto le nobilissime ragioni indicate prima, quanto una lotta di retroguardia contro alcune scelte che l’amministrazione pubblica sta mettendo in atto (in alcuni casi con discreta efficacia, come ad esempio nella zona di viale Libia) per ridurre la sosta selvaggia, il traffico, l’inquinamento. 

In pratica, alla domanda “Perché i negozi hanno meno clienti?”, la risposta istintiva di molti commercianti (espressa pubblicamente persino da alcuni importanti rappresentanti della categoria) è “Perché i clienti non possono più parcheggiare in doppia fila davanti alla mia vetrina”. Una risposta miope, autolesionista.

Anche perché ci si dimentica così che uno dei principali motivi del successo della “concorrenza”, cioè dei grandi centri commerciali di recente costruzione, è proprio il fatto di poter fare shopping a piedi, senza il grande fastidio del traffico, senza i suoi rumori, coccolati dalla musica, in una sorta di enorme salotto, di gigantesca isola pedonale.

 

Vincere la guerra con le armi del nemico

Eppure, appena qualche anno fa, sembrava che i piccoli commercianti avessero intuito la natura del problema e si preparassero ad attuare delle efficaci contromosse. È una storia recente, che forse vale la pena raccontare.

Negli anni Dieci 2000, di fronte alla nascita di grandi colossi come Porta di Roma, Euroma2, Roma Est, che mettevano a repentaglio la sopravvivenza dei piccoli negozi in interi quadranti della città, gli esercenti romani ebbero un sussulto d’orgoglio e cercarono di correre ai ripari. Per prima cosa analizzarono le ragioni che potevano portare al successo i centri commerciali, a discapito dei piccoli negozi di via, per poter rispondere punto su punto, combattendo ad armi pari. 

Foto di Stijn Nieuwendijk diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Si individuarono due questioni principali. Prima esigenza: “fare sistema”, cioè mettere insieme le forze per realizzare campagne di marketing e pubblicitarie comuni, oltre che per abbattere i costi rispetto ai fornitori, effettuando acquisti collettivi di merci o di servizi, per non essere svantaggiati rispetto alla grande distribuzione. Secondo punto: rendere gradevole il passeggio nelle vie degli acquisti, curando il decoro urbano di quelle aree, realizzando eventi di richiamo, creando sistemi di gestione in cui pubblico e privato contribuissero insieme alla manutenzione e all’abbellimento di alcune zone della città dedicate allo shopping.

Nacque così il progetto dei cosiddetti “CCN”, ovvero i Centri Commerciali Naturali, cioè aree urbane in cui più forte e radicata fosse la presenza di negozi e in cui, sia grazie a contributi pubblici che alla creazione di consorzi di gestione, fosse particolarmente curato il decoro urbano.
La Confcommercio e la Regione Lazio stanziarono dei fondi. Si individuarono delle aree. Si costituirono o rafforzarono le associazioni commercianti di quelle zone, con il compito di presiedere alla gestione di quella iniziativa e al suo efficace sviluppo.

Quale fiore all’occhiello e progetto pilota dell’operazione, fu scelta l’area di Piazza Anco Marzio, ad Ostia. Grazie anche al fatto che presidente dell’associazione commercianti di quel quadrante fosse, all’epoca, un architetto e designer quale Giuliano Fausti, la piazza lidense, interamente pedonalizzata, incorniciata da portici e da alcuni splendidi villini liberty, divenne rapidamente un salotto elegante, con panchine di design modernissimo ma splendidamente integrate con le costruzioni più antiche, con nuove fioriere, con un grande gazebo, in stile art nouveau, nel quale si svolgevano quasi quotidianamente concerti ed eventi culturali.

Sembrava la quadratura del cerchio, l’uovo di Colombo, capace di dare nuova linfa ed attrattiva a intere zone della città, ma ben presto, purtroppo, le cose non andarono per il verso giusto. È lo stesso Fausti a ricordarlo, davanti ad un caffè: “Una mattina, tornando a piazza Anco Marzio, vidi alcune fioriere divelte dal posto in cui erano state collocate inizialmente, per essere spostate davanti l’entrata di alcuni negozi, ad abbellirne la vetrine. Probabilmente, non erano state bande di ragazzi scapestrati a compiere quel gesto, ma gli stessi esercenti della piazza. A quel punto, se da una parte, dove prima c’era la fioriera, rimaneva un buco a terra, dall’altra ora c’era un vaso di fiori che non aveva più nessun senso di abbellimento urbano, ma serviva solo a segnalare una bottega, come se la gente scegliesse di entrare in un negozio, piuttosto che in un altro, perché davanti ci vede dei ciclamini o delle rose. Non funziona così. La gente sceglie di andare in un posto, piuttosto che in un altro, solo quando quel posto è bello nel suo complesso, quando è piacevole passeggiare in quella zona, quando avverte armonia. Bisogna pensare all’insieme, non alla singola vetrina. Ma i miei colleghi ostiensi non lo hanno capito e credo che non lo capiranno mai”.

Foto di Andy Montgomery diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

A peggiorare la situazione, ci si misero le diatribe fra commercianti dell’associazione che gestiva il CCN, oltre a questioni di natura economica. Le quote mensili che, come in un condominio, ciascun negozio di quell’area versava per contribuire alla cura della piazza e alla realizzazione degli eventi del CCN, poco alla volta cominciarono a non essere più pagate quasi da nessuno. Di conseguenza, non ci furono più soldi per fare pubblicità. Anche tutti gli eventi previsti nell’area furono cancellati, per mancanza di fondi.
Il gazebo centrale, perciò, rimase vuoto per settimane, poi per mesi, poi per anni, fino ad essere smontato, ormai inutile. Si smise persino di curare il verde, per analoghe ragioni. 

A seguito di questi eventi, tra i negozianti della piazza sorsero contrasti e violente discussioni, che impedirono la nascita di un qualunque “gruppo di acquisto” utile ad abbattere i costi. Fausti si dimise, l’associazione perse poco a poco di forza e di prestigio, la piazza rimase preda dell’incuria e il CCN rimase solo un nome sulla carta, di fatto non più attivo.

Si potrebbe pensare che questo sia stato un caso isolato, dovuto magari alla particolare situazione ostiense. Purtroppo non è così. In altre zone di Roma le cose andarono anche peggio. Nella centralissima via Ottaviano, ad esempio, attraversata ogni giorno da decine di migliaia di turisti, sempre a causa di invidie fra vicini di negozio, quote non versate, piccoli dispetti, i fondi del CCN furono utilizzati praticamente solo per l’allestimento di un paio di stendardi all’inizio e alla fine della via: stendardi ben presto ingrigiti dallo smog, resi illeggibili e poi smontati. 

Una parola d’ordine che sembra mettere d’accordo tutti i commercianti, in una sorta di riflesso automatico, però c’è: “No alle isole pedonali, no alle Ztl, no alle chiusure al traffico”

A Roma nord, nell’area di Piazza Minucciano, dopo un’inaugurazione in pompa magna del CCN di zona, con tanto di presenza della Nazionale italiana di Rugby, di quella iniziativa si persero rapidamente le tracce e persino la memoria. D’altronde, l’allora presidente dell’associazione che gestiva l’operazione, Massimiliano De Toma, era già ai tempi piuttosto impegnato a curare la sua futura carriera politica, che lo avrebbe portato fino agli scranni di Montecitorio, per potersi occupare in modo quotidiano delle concrete problematiche del centro e delle reali esigenze dei suoi ex colleghi commercianti.

Oggi, a piazza Minucciano, ci sono ancora alcune insegne in ferro battuto, ormai arrugginite, con su il logo del “CCN”, a ricordare quell’esperienza, oltre a diverse serrande abbassate di negozi definitivamente chiusi, a testimoniarne il fallimento.

 

Stati disuniti

Ciò che unisce tutti questi episodi è sicuramente una visione parcellizzata dei problemi, una mentalità poco collaborativa del commerciante medio romano, poco adatta ad affrontare le sfide attuali in modo coeso e innovativo, poco adatta a fare scelte coraggiose. Le sue scelte concrete, troppo spesso mancano di visione e di prospettiva e si trasformano quasi sempre in autogol, anche quando la situazione generale e persino le decisioni politiche gli verrebbero in aiuto.

Foto di Steph McGlinchey diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Un esempio è a Via Cola di Rienzo, la strada regina dello shopping romano: quasi duecento punti vendita, con i marchi più prestigiosi, da Tiffany a Sisley, da Zara a Rolex, da Nike a Tiger. Oltre ai grandi loghi internazionali, sopravvivono sulla via i punti vendita di storiche famiglie di commercianti romani: Hassan, Terracina, Raggi, Franchi, Trancanelli, Ciampini, Castroni; il gotha del piccolo commercio locale è concentrato lì. 

L’affitto di un negozio sulla via può arrivare a costare diverse decine di migliaia di euro al mese, per non parlare delle spese di gestione e di personale. Permettersi un negozio su via Cola di Rienzo, dunque, vuol dire avere di certo una discreta liquidità. Eppure, quando nel 2016 la Regione Lazio emise un bando per stanziare circa 100.000 euro a fondo perduto, atti alla riqualificazione delle principali vie dello shopping (una decisione presa proprio per contrastare lo strapotere dei grandi centri commerciali), l’associazione di via Cola di Rienzo non riuscì a partecipare e ad ottenere quei fondi. Motivo della mancata partecipazione? Le dispute fra i commercianti della via, che non trovarono un accordo per effettuare un anticipo di circa 3.000 euro (diviso per i duecento punti vendita, si ottiene la “cifra da capogiro” di ben quindici euro per esercizio commerciale) che, in base alle regole del bando, risultava necessario per avviare la procedura.

Se Atene piange, Sparta non ride: lo stesso panorama si presenta in tutte le altre vie romane rinomate per lo shopping. Da viale Libia a via Tuscolana, da viale Marconi a via Tiburtina, ovunque il piccolo commercio capitolino vive di incontenibili rivalità fra vicini di vetrina, in una cronica difficoltà ad adottare strategie di collaborazione, ad avere uno spirito autenticamente corporativo, che permetta di avviare e portare avanti iniziative comuni, davvero capaci di incidere e di contrastare lo strapotere della grande distribuzione. 

Una parola d’ordine che sembra mettere d’accordo tutti i commercianti, in una sorta di riflesso automatico, però c’è: “No alle isole pedonali, no alle Ztl, no alle chiusure al traffico”.
Gli esercenti romani sembrano convinti che soltanto se a un cliente è consentito arrivare col Suv fin dentro il negozio, si potrà evitare il fallimento. Salvo poi scoprire, ad esempio, chiudendo al transito di veicoli via Cola di Rienzo per un’intera giornata (come accaduto un anno fa per una mostra di auto d’epoca), che il numero di presenze sulla via raddoppia, oltrepassando le 60.000 persone. Numeri superiori persino a quelli del più grande e frequentato centro commerciale della Capitale: Porta di Roma.

È solo quando il piccolo commerciante romano acquisirà una visione d’insieme, quando scoprirà di avere una fondamentale funzione sociale, quando si preoccuperà anche di ciò che avviene dieci metri più in là del suo negozio, quando capirà che il suo dirimpettaio non è solo un concorrente che gli toglie clienti, ma una persona con le sue stesse esigenze e difficoltà, è solo allora anche il piccolo commercio potrà cominciare a competere con le grandi sfide globali. Ma intanto, le profonde trasformazioni dell’economia mondiale, non fanno sconti e non attendono nessuno. 

Il rischio è che, se non prende rapidamente coscienza, quel negoziante di strada, quel commerciante piccolo piccolo, proprio come il borghese del romanzo di Vincenzo Cerami (splendidamente interpretato al cinema da Alberto Sordi), si vedrà all’improvviso portar via tutti i suoi punti di riferimento. Si isolerà dal mondo, immaginando una realtà che non ha più attinenza col reale. 

In quel momento, non resterà altro che una rabbia sterile, distruttiva, incapace di costruire e di proiettarsi in avanti. Quel giorno, insieme al futuro negato di quel commerciante, saranno anche pezzi della nostra città e della nostra realtà, che verranno spazzati via.

[La foto del titolo è di hermitsmoores ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

One thought on “Un commercio piccolo piccolo

  • 2 Ottobre 2019 in 13:01
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    BELLISSIMO ARTICOLO ED ANCHE MOLTO VERO, PURTROPPO

    Risposta

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