Quel ramo del lago di Ostia
Un tempo, tra il Tevere e Castel Fusano, alle spalle di Ostia Antica, c’era un lago. Lo storico romano Tito Livio, vissuto a cavallo tra l’era volgare e quella comune (quelli che un tempo chiamavamo avanti Cristo e dopo Cristo), lo aveva definito Ostiae Lacus. Un altro celebre storico, Tacito, che visse tra il I e il II secolo dopo Cristo, ne scrisse nei suoi Annales, raccontando che nelle paludes ostienses – quindi uno stagno – furono gettate, per ordine di Nerone, le macerie provenienti dall’incendio di Roma. In pratica, la testimonianza di uno dei primi tentativi di bonifica dell’area.
In età romana, grazie anche a numerose opere di drenaggio, delle quali restano rilevanti tracce archeologiche, la pianura alluvionale che circondava Ostia era abitata, coltivata, e attraversata da una rete di viottoli che collegavano tra loro la città e le villae suburbane (alcune solo residenziali, altre vere e proprie fattorie, dette rusticae), all’Ostiense e alla Portuense, nonché alla Severiana, antica strada litoranea che collegava Portus (oggi a 1,5 km a est di Fiumicino) a Terracina.
Lo Stagno veniva sfruttato principalmente per la pesca e per la raccolta del sale, due attività sviluppate già centinaia di anni prima, tra la prima Età del Bronzo e quella del Ferro.
Tra il Terzo e il Quinto secolo, cioè in età Tardo Antica, la fine delle attività di manutenzione del territorio provocò un ritorno della palude, che di fatto sconvolse la viabilità fluviale e terrestre della zona.
Da un passaggio di Procopio (Guerra Gotica, I, 26), relativo l’anno 537, si capisce per esempio che Ostia “già un tempo città ragguardevole” era in quel tempo “ormai sprovvista di mura”, che le “navi dei Romani non potean più approdarvi”, anche se il Tevere era comunque “navigabile da entrambe le parti”: non a vela (per la scarsa profondità dell’acqua, per il poco vento e per la forma sinuosa del fiume) ma facendo trascinare le imbarcazioni fino a Roma per mezzo di buoi che le tiravano dagli argini. La stessa via Ostiense era pressoché impraticabile, “selvosa, molto trasandata e neppur prossima alla sponda del Tevere”, circostanza che probabilmente rendeva preferibile recarsi a Roma usando la vicina via Portuense.
Di questo lago, prosciugato grazie alle opere di bonifica alla fine dell’Ottocento, restano alcune parziali e sbiadite immagini d’epoca, e per farsi un’idea del suo aspetto generale si potrebbe visitare ad esempio il Lago di Paola, o Sabaudia
Per tutto il Medioevo, il Rinascimento – quando lo Stagno e le Saline vennero date in gestione alla Reverenda Camera Apostolica, cioè l’organismo che che amministra il patrimonio della Chiesa romana – e l’età moderna, si hanno notizie di continue opere per la manutenzione dello Stagno e di dragaggio del suo sbocco a mare, per consentire l’ingresso di acqua salata, e dunque il funzionamento delle Saline, evitando il ristagno eccessivo delle acque.
Lo stagno viene in questo periodo spesso definito Stagno di Levante, anche per differenziarlo da quello “gemello” di Ponente, cioè lo Stagno di Maccarese, che si estendeva sulla riva opposta del fiume.
Carlo Fea, che nel 1831 pubblicò la Storia delle saline di Ostia, ci consente di ricostruire questa vicenda, ricordando ad esempio opere per lo spurgo del canale grande di Ostia (1758), o per introdurre l’acqua del mare in quelle saline (1774). Scopo originario dello scritto di Fea, che era avvocato e Commissario alle Antichità, era quello di difendere gli interessi della Reverenda Camera nei confronti di piccoli imprenditori locali, rei di non eseguire tali opere in cambio della concessione d’uso dello Stagno, e di effettuare chiusure o riaperture della foce senza uno scopo generale e solo per il proprio interesse. Interesse che era di frequente legato alla pesca, ma che veniva praticato in modo disorganico, senza occuparsi dello stato di salute dello Stagno stesso, come sembra da alcuni provvedimenti che potremmo definire “di tutela ambientale” che il Vaticano dovette emanare. Per esempio il bando del 15 dicembre del 1644, che, a tutela della fauna ittica, vietava da marzo a giugno ai pescatori di avvicinarsi alla fiumara di Ostia e Fiumicino per gettare in acqua rifiuti nocivi quali “erba mora, tutumaglio e calce”, e un atto del 7 febbraio 1699, in cui si prescriveva:
“[…] volendo noi provvedere al mantenimento e alla difesa della foce, che chiude l’acqua dello stagno di Ostia, tanto necessaria alla fabbrica dei sali, e raffrenare l’audacia di alcuni, che per privati loro interessi non si astengono di far atti molto pregiudiciali ad essa, però d’ordine di N.S. comandiamo e proibiamo che qualsivoglia persona di qualunque stato non ardisca […] levare in tutto o in parte sabbia, passoni, travi ed altri legnami, i quali chiudono la detta foce dello stagno, sotto pena di scudi 200 per ciascuna volta ed altre corporali ad arbitrio. Et […] prohibiamo che […] non ardischano andare, stare, passare, movere o in qualunque modo accostarsi per lo spazio di canne cinquanta alla detta foce e nemmeno pescare nel fosso dentro lo stagno o nel mare appresso l’imboccatura della detta foce […] sotto pena di scudi 500 […] E vogliamo che questo editto, doppo che sarà stato pubblicato alla porta della chiesa maggiore di Ostia, astringa ogn’uno come se gli fosse stato personalmente intimato”.
Di questo lago, prosciugato grazie alle opere di bonifica alla fine dell’Ottocento, restano alcune parziali e sbiadite immagini d’epoca, e per farsi un’idea del suo aspetto generale si potrebbe visitare ad esempio il Lago di Paola, o Sabaudia, anch’esso una piccola testimonianza delle estese paludi che un tempo caratterizzavano l’intero litorale laziale, e che hanno profondamente ispirato opere pittoriche di vari artisti tra il Diciottesimo e gli inizi del Ventesimo secolo.
Quella del lago, o meglio, dello Stagno di Ostia, è una scomparsa temporanea, ovvero perdurerà finché le modificazioni apportate dall’uomo saranno attive ed efficaci
Ma come si sarà capito, quello di Ostia più che un lago era davvero e solo un grande stagno, la cui profondità superava difficilmente quella di una persona, come già nel 1469 ricordava Enea Silvio Piccolomini (1405-64), che poi sarà Papa col nome di Pio II, nei suoi Commentarii: “nec altitudine hominis profundius est”. Ancora intorno alla metà dell’Ottocento, le misurazioni effettuate riportavano una profondità media che difficilmente superava il metro.
Lo Stagno era collegato al mare attraverso un braccio naturale (che oggi conosciamo col nome di Canale dello Stagno, ridotto negli argini di cemento realizzati tra 1933 e 1939 ), e proprio grazie all’acqua di mare potevano alimentarsi le Saline, un tempo site nell’area che ancora oggi porta lo stesso nome. Ma per alimentare le Saline erano necessarie continue opere di manutenzione del collegamento con il mare, che di frequente si insabbiava (succede ancora oggi), provocando così l’impaludamento e la desalinizzazione delle acque.
Quella del lago, o meglio, dello Stagno di Ostia, è una scomparsa temporanea, ovvero perdurerà finché le modificazioni apportate dall’uomo saranno attive ed efficaci. Alcune di queste modifiche sono positive, utili all’adattamento sostenibile dei luoghi alla vita e alle attività umane; altre negative, ovvero finalizzate al mero sfruttamento economico, improvvisate e incoerenti, che determinano cambiamenti non sopportabili del territorio, come l’impermeabilizzazione del terreno con il cemento, con e la distruzione delle opere di canalizzazione delle acque, riducendo o azzerando gli habitat naturali e ponendo a rischio la sicurezza stessa degli abitanti.
Mentre le modificazioni positive consentono, per così dire, un dialogo reciprocamente proficuo con la natura, quelle negative determinano un conflitto permanente, tra l’ottusità dell’uomo e una natura che da madre diviene matrigna. I risultati più evidenti di questo conflitto sono ad esempio le alluvioni causate dalle esondazioni di fiumi e canali e dalla ridotta capacità del terreno, in gran parte cementificato, di assorbire le acque. E se un tempo tali alluvioni riguardavano essenzialmente aree agricole, oggi interessano soprattutto aree abitate, con le disastrose conseguenze che si possono ben immaginare, obbligando peraltro l’Amministrazione a continue e costose opere di manutenzione e difesa
Giova ricordare una delle fotografie aeree scattate a quest’area dalla RAF durante la Seconda Guerra Mondiale: nell’imminenza di uno sbarco delle forze alleate, che si credeva potesse avvenire ad Ostia, i tedeschi avevano disattivato le idrovore che servivano a pompare l’acqua della palude :ebbene nella foto si nota con chiarezza la ricomparsa dello Stagno. Una natura dunque sempre pronta a ricomparire, specie nelle aree che si trovano sotto il livello del mare, a seconda delle stagioni, degli eventi climatici e della stupidità degli uomini.
[Sandro Lorenzatti è archeologo, dottore di ricerca a Paris 1, membre associé ArScAn (Archéologies et Sciences de l’Antiquité – UMR 7041), équipe THEMAM]