Strada disfacendo

Durante l’estate del 1991 mi trovai a viaggiare per l’Europa centrale, attraversando paesi che fino a poco prima avevano fatto parte del cosiddetto “blocco sovietico”.  I primi anni Novanta non erano ancora epoca di efficaci navigatori satellitari e perciò, per riuscire a non perdermi, mi ero premunito di numerose guide e mappe dei luoghi, tutte costellate, in ogni città che andavo a visitare, di strade dai nomi dedicati ai grandi eroi del socialismo: viale Lenin, piazza Marx, largo Engels.

Ricordo lo sgomento quando mi accorsi che, un po’ ovunque, i nomi reali delle vie delle città che attraversavo non corrispondevano più a quelli che leggevo nelle mie carte. I nuovi governi “liberali”, che da pochissimo tempo si erano insediati in quei Paesi, avevano infatti deciso di modificare la denominazione di una quantità enorme di luoghi, per cancellare fin da subito ogni dedica a ricordo del socialismo.
Orizzontarmi diventò un’impresa titanica. Vagai in quelle città in preda alla disperazione, non riuscendo a raccapezzarmi, oltre tutto non conoscendo una sola parola di slovacco o di ungherese, idiomi che mi avrebbero permesso, quanto meno, di chiedere un aiuto ai passanti.

Forse perché l’uomo è un animale adattabile, sono comunque sopravvissuto a quell’esperienza, tanto che oggi conservo un ottimo ricordo di quel viaggio e di quei luoghi.
Ecco, qualcosa di simile, in piccolo, mi è accaduto nei giorni scorsi a Roma.
Il 10 settembre, dovendomi recare a Primavalle in via Arturo Donaggio, non ho saputo dove andare. Quella via non esiste più. Né esiste l’omonimo largo. Al loro posto ci sono oggi una bella via Mario Carrara e un bel largo Nella Mortara. Stessa sorte è toccata, al Portuense, a chi cercava via Edoardo Zavattari, sostituita da via Enrica Calabresi.
Il Comune di Roma ha deciso così, sostituendo dediche e targhe.

In tutto il mondo, nei periodi immediatamente successivi alle guerre e alle rivoluzioni, accade spesso che alcune vie, piazze e persino intere città cambino di nome. I vecchi eroi e i vecchi simboli spariscono, sostituiti dai nuovi.  È già accaduto anche nella Capitale. I più anziani, ad esempio, possono ricordare che, con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita della Repubblica, viale del Re venne sostituito da viale Trastevere, via dell’Impero si trasformò in via dei Fori Imperiali, mentre, a sud della regione, in quegli stessi anni, gli abitanti di Littoria si risvegliarono un bel giorno a Latina. 

Il manifesto della mostra “1938 – La Storia”, allestita a Modena

Molto più raro, però, che la mannaia della damnatio memoriae si abbatta anche in periodi non post-rivoluzionari e che ciò accada con oltre ottant’anni di ritardo sui fatti, come nel caso di Donaggio e Zavattari, due scienziati e intellettuali vissuti durante il ventennio fascista, che nel 1938 sottoscrissero il “manifesto della razza” e i cui nomi hanno campeggiato per decenni sotto gli occhi dei romani, apparentemente senza recare disturbo.
Un atto doveroso, anche se tardivo, da parte dell’amministrazione capitolina?

Per secoli i nomi delle vie di una città non venivano assegnati a personaggi famosi, ma nascevano dalle caratteristiche di quel luogo, raccontandone l’anima

A complicare il panorama ci si è messo anche il caso, che ha deciso che il cambio ufficiale del nome di quelle vie avvenisse proprio nello stesso giorno in cui Facebook oscurava le pagine di Casapound e di Forza Nuova. Ecco perciò che, a destra, qualcuno ha messo in correlazione i due fatti e ha cominciato a gridare al “complotto”.
Prima o poi, capita a tutti gli attivisti politici d’ogni colore di denunciare, da parte dei propri avversari, un più o meno fantasioso “complotto” di qualche tipo. Certo è che, in questo caso, la teoria complottista risulta decisamente inverosimile, visto che fra la sindaca di Roma Virginia Raggi e il magnate di Facebook Marc Zuckerberg non esiste nessuna correlazione e che la decisione del Comune di Roma sul cambio di nome delle vie, anche se resa operativa di recente per via dei tempi amministrativi, è datata 2018, quando di possibile oscuramento delle pagine social di movimenti di destra non c’era nessun sentore.

Però, anche se non esiste un complotto, è bene fermarsi un attimo a riflettere su un altro aspetto della questione e cioè se appunto la “damnatio memoriae” (già in auge ai tempi degli imperatori romani) sia davvero utile anche nella nostra epoca; o se piuttosto non rischi di rafforzare, anziché annullare, il ricordo di chi ne viene colpito, fungendo da regalo involontario fatto al “cattivo” di turno, promosso (spesso suo malgrado) dal ruolo di semisconosciuto, a quello ben più nobile di “eroe maledetto”.
È una logica paradossale, di cui la storia romana vanta numerosi esempi. La stessa logica descritta ironicamente in un suo vecchio film dal regista Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?”

Foto di Riccardo Romano, diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

Più bello e più superbo che pria?

Ve la ricordate la scena in cui Ettore Petrolini interpretava un simpaticissimo e scaltro Nerone, che arringava i romani che lo acclamavano con un “Bravo!” a ogni sua smorfia? “Ricostruirò Roma più bella e più superba che pria!” diceva il Petrolini-Nerone. E la folla plaudente: “Bravo!”. E lui: “Grazie!”.
Ecco, proprio l’imperatore Nerone è l’esempio più eclatante di un personaggio per il quale la “damnatio memoriae” ha funzionato in modo controproducente per chi sperava di cancellarne il ricordo.
Chiedete a chiunque, di qualsiasi età e grado di istruzione, in qualunque parte del mondo, di dirvi il nome di due imperatori romani e vi risponderà molto probabilmente: “Giulio Cesare (che però imperatore tecnicamente non è mai stato) e Nerone”. Altro che “damnatio memoriae”: il ricordo di Nerone è diventato, nel bene e nel male, indelebile e universale, anche a distanza di duemila anni. 

Eppure, subito dopo la sua morte, le statue neroniane furono abbattute, la sua politica totalmente azzerata dai successori, mentre il “giornalismo mainstream” dell’epoca, guidato dagli scrittori Tacito e Svetonio, aveva avviato nei suoi confronti una campagna d’odio, narrando le nefandezze e gli orrori di cui quell’imperatore si sarebbe macchiato e tramandandone un’immagine negativa che si sarebbe propagandata nei secoli.
Gli studi più recenti, ritengono che la principale causa di tanto odio fu la politica neroniana di forte opposizione al Senato di Roma. Nerone, come un Lenin ante litteram, esautorò il parlamento per dare “tutto il potere al popolo”. Nerone, come un moderno populista, ottenne pieni poteri contro le élites e difese la società romana contro le infiltrazioni culturali straniere, ad esempio contro i cristiani, che fu il primo a perseguitare, in una sorta di “prima i pagani!” Ben presto, però, i senatori si vendicarono, azzerando la sua politica e cercando di cancellarne l’immagine.

Nonostante tutto questo, il ricordo di Nerone è rimasto intatto. A tutt’oggi rimane uno dei pochissimi imperatori conosciuti non solo dagli addetti ai lavori, protagonista di innumerevoli libri, di film, di parodie (oltre a quella già citata di Ettore Petrolini, memorabile anche l’interpretazione fatta da Alberto Sordi in “Mio figlio Nerone”). Nel suo caso, quindi, il tentativo di cancellarlo non ha sortito l’effetto sperato: anzi ne ha propagandato l’aura e il mito, rendendolo, come direbbe Petrolini “più bello e più superbo che pria”.

Foto di Dan Masa (“L’artista dell’Ara Pacis”) diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Il sogno eretico

Nella cella reietto perché tra fede e intelletto scelgo il suddetto. Dio mi ha dato un cervello, se non lo usassi gli mancherei di rispetto. E tutto crolla come in borsa, la favella nella morsa, la mia pelle è bella arsa, il processo… bella farsa! Adesso mi tocca tappare la bocca nel disincanto lì fuori, lasciatemi in vita invece di farmi una statua in Campo De’ Fiori!”. Queste sono le parole che Caparezza, in un suo noto brano musicale, mette in bocca a un Giordano Bruno in punto di morte.

Giordano Bruno è un esempio totalmente diverso, ma altrettanto “vincente”, di eroe maledetto, la cui “damnatio” lo ha reso un mito e ne ha propagandato le idee e la figura. Pensatore lucido, tutto sommato come tanti ce ne furono nella storia, fu proprio la sua condanna a morte che lo catapultò nel ruolo di idolo assoluto degli anticlericali, dagli illuministi francesi ai risorgimentali italiani.
Già nel 1849, durante la repubblica romana guidata da Giuseppe Mazzini, una prima statua in suo onore fu eretta a Roma, poi distrutta da Pio IX con la restaurazione dello Stato pontificio. Dopo l’unità d’Italia, nel pieno dello scontro fra lo stato e la chiesa, nel 1889 ne fu inaugurata un’altra, quella che ancora oggi è visibile in Campo De’ Fiori.

L’imperatore Nerone è l’esempio più eclatante di un personaggio per il quale la “damnatio memoriae” ha funzionato in modo controproducente per chi sperava di cancellarne il ricordo

Pochi ricordano quali e quante polemiche generò l’inaugurazione di quella statua. I cattolici reagirono con scandalo. Per un certo periodo si corse addirittura il rischio di spostare la sede papale da Roma a Vienna, poiché l’allora papa Leone XIII, offeso dagli onori che la città dedicava a un eretico, minacciò di lasciare l’Urbe, chiedendo protezione all’imperatore d’Austria. Ancora quarant’anni dopo, alla sottoscrizione dei Patti Lateranensi nel 1929, la Chiesa richiese di inserire fra le clausole dei patti anche l’abbattimento della statua. Benito Mussolini, però, si rifiutò di sottoscrivere quella norma, limitandosi a vietare le manifestazioni in onore di Giordano Bruno che annualmente si svolgevano in Campo De’ Fiori, ogni 17 febbraio, giorno della sua morte.

Giordano Bruno è dunque il classico esempio di “eroe involontario”, per il quale secoli di oblio e di discredito, anziché cancellarne il ricordo lo hanno amplificato. Forse i suoi detrattori avrebbero ottenuto un maggiore oblio se non lo avessero reso un martire e avessero dato ascolto alle parole che Caparezza gli attribuisce nella sua canzone: lasciandolo in vita, è probabile che nessuna statua gli sarebbe stata mai dedicata, né in Campo De’ Fiori, né altrove.

Foto di Giampaolo Macorig diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

 

La tinta indefinibile

Lui era assorto nei suoi pensieri, stupito di quanto era invecchiato in un anno il villaggio. I mandorli avevano le foglie rotte. Le case pitturate di azzurro, ripitturate di rosso e poi tornate a pitturare di azzurro, avevano finito per assumere una tinta indefinibile”. Nel romanzo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez, le case del villaggio di Macondo vengono pitturate per legge di un colore diverso da ogni nuovo governo che si insedia: di rosso quando vincono i progressisti, di blu quando a vincere sono i conservatori, poi di nuovo di rosso, di nuovo di blu.
Il risultato è che alla fine non si sa più di che colore siano quei muri e che Macondo, con il colore delle sue case, finisce per perdere anche la propria identità e la propria vitalità (verrà distrutta e spazzata via dal vento alla fine del romanzo).

Quella di Garcia Marquez è chiaramente una metafora universale, che vale per Roma tanto quanto per Macondo, o per qualsiasi altra città reale o immaginaria. E vale per i colori delle sue case come per i nomi delle sue vie. Sono infatti questi gli elementi che definiscono l’identità e l’anima di una città.

Per secoli i nomi delle vie di una città non venivano assegnati a personaggi famosi, ma nascevano dalle caratteristiche di quel luogo, raccontandone l’anima. A Roma via dei Giubbonari, via dei Coronari, la già citata Campo De’ Fiori, via di Torre Argentina, via delle Botteghe Oscure, via delle Carrozze, vicolo del Fico, via dei Condotti, così come tutti i nomi delle vie del centro storico, ci parlano delle caratteristiche di quel posto, della sua storia, di chi lo frequentava, o di cosa si poteva vedere lì. Il nome della via era come il “titolo” di un racconto che ci narrava lo spirito di quel luogo.

Il potere politico, però, capì a un certo punto che il nome di una strada, ripetuto ogni giorno da tutti i suoi abitanti per indicarla, aveva un grande valore propagandistico. Ecco allora che, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, grazie anche all’enorme sviluppo della popolazione cittadina, che raddoppiava di anno in anno, rendendo necessaria la nascita di nuove vie e nuovi quartieri, i nomi dati alle strade cominciarono a non narrare più nessuna storia e ad essere assegnati d’ufficio ai nuovi “eroi” cittadini o nazionali. Nella Roma post unitaria sorsero perciò via Cavour, Piazza Mazzini, via Garibaldi, piazza Vittorio Emanuele.

Il potere politico capì a un certo punto che il nome di una strada, ripetuto ogni giorno da tutti i suoi abitanti per indicarla, aveva un grande valore propagandistico

L’espansione urbanistica era frenetica, le nuove strade tante, quindi i nomi di volta in volta assegnati compresero sempre più spesso anche personaggi meno noti e meno universalmente acclamati. Nella fretta di dare un nome a migliaia di nuove vie, l’usanza di assegnare loro i nomi di personaggi noti e meno noti, è diventata un’abitudine così diffusa, tanto che oggi non ricordiamo neanche più che questa non sia affatto l’unica possibilità di scelta e che anzi, per secoli, è valso un uso completamente diverso.

Sembra un dettaglio, ma è anche per questo che nei nuovi quartieri romani non c’è quel senso di appartenenza e di orgoglio forte che si aveva un tempo, ad esempio, fra monticiani o trasteverini. Ovvio che abitare in via Gaspare Pacchiarotti, o in via Piola Caselli (sfido chiunque abiti lì a dirmi chi siano costoro senza guardare su un’enciclopedia) ha meno forza evocativa che abitare, che so, in via dei Fienaroli o in via dei Baullari. Inconsapevolmente, si sente di abitare in una strada senza storia e senza anima, assegnata a un personaggio oscuro scelto un po’ a caso, dove perciò “oscuro e a caso” diventa, nella percezione, l’intero quartiere e l’intera città.

Foto di Rina Ciampolillo diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Ovvio che, fra migliaia di nomi e di dediche, qualche scelta discutibile ci scappi sempre. Così come, al cambiare del colore politico dei governi, ovvio che alcuni personaggi apprezzati dalla precedente amministrazione possano cadere in disgrazia. Immagino, ad esempio, che agli occhi di un’eventuale giunta di destra, un ampio viale che attraversa tutta la parte est di Roma dedicato a Palmiro Togliatti potrebbe suscitare qualche perplessità (e difatti, ai tempi della giunta Alemanno, qualcuno sollevò il problema). E perplessità hanno suscitato oggi le dediche ad Arturo Donaggio ed Edoardo Zavattari, finiti perciò nell’oblio.

Resta il fatto che cambiare nome alle vie di Roma è come cambiare colore ai muri delle case di Macondo. A furia di farlo, fosse anche per nobilissimi motivi, si finisce per dare a tutto un aspetto indefinibile e grigiastro, senza riuscire mai a coprire del tutto il colore che c’era prima e senza far apparire in modo deciso il nuovo colore che si vorrebbe dipingere. 

Cambiare nome a una via è tollerabile se rimane un’eccezione, ma sarebbe preoccupante se diventasse una regola. Le città sono organismi viventi, che, come gli uomini, sopravvivono finché mantengono un’anima, una vitalità, una propria identità. Un’identità che è data soprattutto dalla propria storia. Ma una storia riscritta troppe volte equivale a non avere nessuna storia. 

Cambiare nome alle vie di Roma è come cambiare colore ai muri delle case di Macondo

Meglio forse tornare all’usanza antica di dare alle vie il nome di ciò che in quel luogo si vede, dei negozi, degli abitanti, delle piante, delle fontane che ci sono lì, piuttosto che scegliere personaggi del passato, senza alcun rapporto con quel posto, indicati come esempi da seguire. Perché l’esempio che oggi sembra giusto, domani potrebbe essere sbagliato. Perché le giunte passano, mentre la città resta, soprattutto una città “eterna” come Roma, che ha sempre più bisogno di ricostruire il suo tessuto e la sua anima, senza rischiare di essere spazzata via dal vento come Macondo.

 

[La foto del titolo è di Giampaolo Macorig, diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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