Roma tra strepitosi cortili e spazi verdi
Ognuno a Roma ha il suo quartiere preferito. Anche chi non legge le rubriche di Marco Lodoli su La Repubblica o chi non allunga mai un po’ la strada in auto per provare a vedere se esiste una via più bella, o che magari ancora non si conosce, per tornare a casa.
Sotto Ferragosto, quando ci capita l’occasione, a noi è sempre piaciuto passare per Appiano, nei pressi di Proba Petronia, dove sono state girate le prime e indimenticabili scene de Il Sorpasso di Dino Risi. Sia perché lì al tramonto la vista del Parco del Pineto toglie il fiato, ma anche perché lo sfondo di quei set dopo tanti anni è talmente cambiato e rigoglioso che ora è quasi come se potesse persino metterci al riparo dall’amarezza e l’ineluttabilità del finale di quel film.
Ma gli spazi verdi a Roma non sono strepitosi soltanto quando si perdono sterminati e liberi all’orizzonte come in questo caso. A volte sono di una bellezza anche più conturbante quando esplodono in silenzio e ti sorprendono in luoghi nascosti e chiusi quasi a chiave.
I cortili di Prati in questo senso e soprattutto in questo periodo, offrono ombre e una vegetazione così fitta che fanno pesare ad un tropico segreto e impenetrabile.
Ne Il Nuotatore, un dei suoi racconti più riusciti, John Cheever raccontava la storia di un uomo che decide di prendere una scorciatoia e fare a nuoto la strada verso casa passando per tutte le piscine che si estendono a tappeto nella sua contea. Ora, non esiste un passaggio unico e calpestabile che colleghi i tanti giardini condominiali tra Piazza degli Eroi e la splendida Basilica di San Gioacchino. Immaginare una linea diretta che li unisce, però, potrebbe dare la sensazione di avvicinarsi davvero al corpo di una specie di Repubblica più evoluta e indipendente.
Sempre poco accessibile, abbastanza vicino a Prati e a suo modo lontana dal racconto estetico e architettonico della nostra città appare – da oltre un secolo – anche via Bernardo Celentano, al Flaminio. Costruita con intento classista per ricreare volutamente le atmosfere e il tipico modello urbanistico londinese di Sloane Street, ancora oggi questa piccola traversa di via del Vignola è assolutamente fuori dal tempo e da ogni possibile riassunto paesaggistico totalizzante.
Lo sfondo color sabbia compatta dei muri del Flaminio e i pini colossali di Viale Tiziano danno a questa enclave londinese una cornice assolutamente irripetibile e straniante. Il lavoro dell’architetto Quadrio Pirani mostra quanto l’amministrazione può incidere sul tessuto vivo della città imprimendo segni perenni e caratterizzanti. Visto le piccole dimensioni di Via Celentano si può presumere che questo progetto urbanistico fu solo un esperimento, interrotto quasi subito.
Il complesso edilizio fu realizzato in occasione del primo piano regolatore della Capitale, nel 1909, grazie al sindaco Ernesto Nathan. Sotto il suo mandato, forse il più illuminato e visceralmente laico che si possa ricordare prima di Luigi Petroselli, fu portata a termine una stagione di grandi opere tra cui il Palazzo di Giustizia (il Palazzaccio), la passeggiata archeologica, lo Stadio Nazionale (il Flaminio) e il famigerato Vittoriano.
Non tutti i romani apprezzano questi monumenti. L’altare della patria (la Macchina da scrivere) è stato addirittura platealmente sbeffeggiato da Marco Bellocchio più volte in alcuni suoi film. Ciò non toglie che il respiro progettuale – anche a livello architettonico – dell’amministrazione Nathan abbia avuto davvero una vocazione cosmopolita. Via Bernando Celentano ne è un esempio, anche se poi il volgersi degli eventi e il fiuto degli immobiliaristi l’hanno subito trasformata in un capriccio classista destinato all’upper class dell’epoca.
Va detto che il carattere esclusivo ed elitario si è decisamente protratto nel tempo. I residenti – ai giorni nostri – hanno fatto anche trasformare la via in una strada privata, chiusa con una cancellata. Con la dovuta fortuna si riesce ancora ad entrare, ma le sbarre e le serrature ci confermano la sensazione che la tensione al gusto british dell’aristocrazia romana rischia a volte di snaturare e pariolizzare anche gli aspetti più sociali e cosmopoliti della cultura anglosassone.
In generale, l’esercito dei rampolli della classe dirigente che è andata a studiare in Gran Bretagna quasi mai – nel tempo – è riuscita a riportare a Roma il carattere moderno e pratico di quella democrazia, ma solo gli aspetti più vittoriani e da casa coloniale.
Non è un caso che un gruppo come gli Oasis, nato come espressione della working class di Manchester, sia stato trasformato dagli alunni bene del Massimo e Villa Flaminia in vacanza studio a Londra in un feticcio quasi disturbante per i giovani di Vigna Clara e Ponte Milvio.
La cosa è particolarmente paradossale, perché i desperado e i fuggiaschi della nobiltà inglese fino a metà del secolo scorso venivano a stordirsi nel caos e la confusione dei vicoli del centro di Roma, aperti a tutti.
Lo scrittore francese Michel Houellebecq dice che gli inglesi non fanno testo, nel senso che la loro presenza in una località di villeggiatura non fornisce alcuna indicazione circa l’interesse del posto, la sua bellezza, il suo eventuale potenziale turistico. Vanno solo in mete dove sono sicuri di trovare altri connazionali.
In ogni caso, a parte quando c’è qualche partita di Coppa con il Chelsea o il Manchester, il numero di giovani inglesi in città è sensibilmente calato. I divertimenti nella nostra città forse nel tempo sono cambiati e si sono massificati secondo modelli più consumisti e globali. I suoi spazi però riescono a tenere scorci così diversi e contraddittori in maniera indissolubile. Anche quando sono segreti ai più, come i cortili chiusi a chiave di Prati.