Arte, libertà e la storia del murale di Ostia

Roma, anno domini 1604.
Michelangelo Merisi da Caravaggio già da qualche tempo, è stato incaricato da Laerzio Cherubini di realizzare una grande pala d’altare raffigurante la morte della Vergine, da collocare in una cappella posta in Santa Maria della Scala, la chiesa più importante dell’ordine dei Carmelitani Scalzi, a Roma.
La morte della Vergine è uno dei momenti più mistici nell’ambito della spiritualità e dell’iconografia cattolica: Maria, unica donna nata senza peccato, si ricongiunge al cielo, spirito allo spirito. Non c’è nulla di terreno e di carnale in quella morte, che è per un cattolico semplice distacco della purezza dalle impurità del mondo.

Quando però Caravaggio presenta l’opera ai carmelitani. l’immagine realizzata non rispetta nessuno d quei canoni: ecco apparire una Madonna priva di qualsiasi tributo mistico, con la faccia terrea, un braccio abbandonato, i piedi scoperti e il ventre gonfio. Una Madonna in tutto e per tutto “terrena”. La scena è poi inserita in un ambiente dall’intonazione cromatica molto scura, illuminato solo dal rosso caldo della veste della morta e della tenda. Non c’è luce, non c’è speranza, non c’è soavità spirituale, non c’è il volo lieve dei cherubini che accompagnano la Vergine in cielo e che sempre era stato presente, fino ad allora, in quel tipo di rappresentazioni.

Ma c’è qualcosa di ancora più grave: a Roma si dice che, per dipingere la Madonna, Caravaggio si sia ispirato a una giovane donna morta affogata o, peggio, che nella Vergine il pittore abbia rappresentato “qualche meretrice sozza degli ortacci, qualche sua bagascia, una cortigiana da lui amata”.
Quella Madonna è infatti il ritratto post mortem di Anna Bianchini, detta Annuccia, dai «capelli rosci et lunghi», figlia di prostituta e anche lei prostituta, di recente annegata a soli 24 anni e molto amata in vita dal Merisi, al punto da averla già usata in passato come modella per diversi suoi quadri.
Lo scandalo è enorme.

La committenza non può certo accettare un’immagine del genere in un luogo sacro e pubblico. Una cortigiana presentata come Madonna? Il vertice del misticismo e della spiritualità cattolica raffigurato in modo così cupo e terreno fin dalla scelta dei colori?
La pala d’altare viene immediatamente rimossa e sostituita.
Un “doveroso rifiuto”, se si guarda il tutto dal punto di vista della committenza.
Non erano quelli i patti.
Non era quello il tipo di immagine scelta, adatta alla funzione didattica che doveva rivestire nei confronti del popolo.
Nonostante ciò, la qualità artistica dell’opera viene fin da subito riconosciuta e apprezzata.

In casa di Laerzio Cherubini si allestisce immediatamente una mostra (la prima “mostra di Caravaggio” di cui si abbia menzione nella storia) a cui partecipano i più grandi artisti e mecenati dell’epoca, che fanno a gara per aggiudicarsi quel quadro.
Sarà Pieter Paul Rubens, il grande pittore fiammingo, in missione a Roma per conto del duca di Mantova, a prevalere e a portarlo via con sé.
Da Mantova l’opera finirà poi alla corte del re d’Inghilterra, quindi a quella del Re Sole, per arrivare definitivamente laddove è custodita ancora oggi: il museo del Louvre di Parigi.

Ostia, anno 2019.
Il MIUR e il Municipio X di Roma, hanno incaricato un gruppo di ragazzi, coordinati da alcuni professori e guidati dall’artista Lucamaleonte, di realizzare un grande murale sulla facciata della stazione ferroviaria di Lido Nord a Ostia.
L’intento è quello di proporre un’opera le cui finalità siano quelle di dare ai cittadini di Ostia un’immagine plastica che raffiguri la lotta alla mafia, quella mafia che da qualche anno le cronache abbinano spesso al nome della cittadina lidense.

Negli incontri preliminari pare emergere l’intento di raffigurare su quel muro i volti di Falcone, Borsellino e altre vittime della violenza mafiosa, frammisti ad altri volti di semplici cittadini del territorio.
Ma, quando a luglio cominciano i lavori sulla facciata della stazione, tutti si accorgono che la scelta finale dell’artista, concordata coi ragazzi e col gruppo di lavoro che si occupa dell’opera, prevede qualcosa di diverso: i volti di Falcone e Borsellino sono scomparsi, sostituiti da quelli di personaggi noti e meno noti della vita di Ostia, alcuni morti, altri ancora in vita.
C’è chi riconosce il ritratto del fondatore del primo quotidiano locale, chi quello di due ex presidenti di municipio, di una giornalista, di un paio di artisti ostiensi.
Guardando l’opera che via via va definendosi, molti cittadini apprezzano, altri restano scandalizzati: “chi ha scelto quei volti?!”

Le polemiche che ne sorgono sembrano non dover avere una fine.
C’è chi dice che molte delle persone ritratte nulla hanno a che fare con la lotta alla mafia. C’è chi parla di “pantheon della sinistra”, dato che fra quei volti molti appartengono a persone iscritte a partiti comunisti e post comunisti. C’è anche chi tira fuori presunte registrazioni, che mettono in moto il sospetto di legami di uno dei personaggi rappresentati proprio con la mafia.
Lo scandalo è enorme.
Gli enti patrocinanti sono spiazzati: “non erano questi i patti” dice qualcuno di loro.
Si ordina perciò la rimozione dall’opera dei volti raffiguranti i vivi, coloro per i quali lo scandalo era stato più forte, che vengono coperti da un gioco cromatico di foglie verdi.

Lucamaleonte in un live painting nel 2010 al Suburban. Foto di Omino 71 diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Anche stavolta, quattrocento anni dopo gli eventi caravaggeschi, potremmo considerarlo forse un “doveroso rifiuto”, se si guarda il tutto dal punto di vista della committenza.
Forse non era quella realizzata da Lucamaleonte il tipo di immagine più adatta alla funzione didattica che doveva rivestire il murale nei confronti dei cittadini.
Una funzione di richiamo all’unione di tutta la collettività nella lotta contro la mafia e non di divisione fra sostenitori e detrattori dei personaggi raffigurati.
Certo è che così la qualità artistica dell’opera ne esce mutilata.
“Una inutile insalata” l’ha definita sarcasticamente qualcuno.

Ecco però che anche stavolta, immediatamente dopo la “censura”, altri mecenati si muovono in aiuto degli artisti.
La Regione Lazio prima, lo stesso Municipio X poi, offrono altre mura e altri spazi a Lucamaleonte, in cui poter realizzare quell’opera senza steccati, liberamente, ritraendo chi crede e chi vuole.
Ancora una volta i contemporanei, in fondo, sanno perciò riconoscere la differenza fra la qualità artistica di un’opera, che segue giustamente percorsi di libertà, dalla sua funzione pubblica, che, laddove c’è, non può non tenere conto delle regole dettate dalle sue finalità didattiche e dalla sensibilità del tempo.

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