Atac, votare sì per migliorare il servizio

Il referendum sul trasporto pubblico consente ai cittadini di decidere sul problema più importante di Roma. Una massiccia partecipazione al voto sarebbe in ogni caso una scossa per la Giunta Raggi, la quale non a caso ha boicottato il referendum facendo mancare l’adeguata informazione ai cittadini, alla faccia della retorica sulla democrazia diretta.

Il monopolio Atac è ormai insostenibile ed è causa di malessere quotidiano della città.
Esso oggi produce oggi 84 milioni di Km all’anno, ma ne dovrebbe produrre 101 in base al contratto con il Comune. E una volta il livello di offerta era fissato a 120. Negli ultimi venti anni il servizio è stato ridotto di circa il 30% in media, che significa riduzioni del 50-60% in periferia. Eppure se i contratti di servizio hanno previsto livelli maggiori significa che nel bilancio comunale erano disponibili i fondi necessari.
L’azienda offre ai romani meno di quanto sarebbe possibile con le attuali risorse comunali. Ciò significa che è pubblica solo di nome, ma nella realtà è dannosa per l’interesse generale. È una struttura burocratico-corporativa che consuma le risorse al proprio interno e solo quello che avanza va ai cittadini come servizio.
Il ricorso alle gare europee è l’unico strumento che può abbassare i costi e aumentare le percorrenze degli autobus e la qualità del servizio.  

Una foto di Roberto pubblicata su Flickr.com con licenza creative commons

Come spesso accade nel nostro Paese, la discussione si è divisa tra favorevoli o contrari a prescindere dalle soluzioni concrete del problema. È invece decisivo come si fanno le gare: l’esito può essere molto positivo se rafforzano l’interesse pubblico, e può essere molto negativo se creano un monopolio privato. È la differenza tra la liberalizzazione e la privatizzazione.

Quest’ultima conserva l’attuale assetto di Atac spa e consiste nel vendere le azioni a un soggetto privato, il quale invece di eliminare l’inefficienza cercherà di trasformarla in una rendita a proprio vantaggio, facendone pagare il conto ai cittadini con l’aumento delle tariffe e i tagli ai servizi, come si è visto in tanti casi in Italia.   

La liberalizzazione, invece, comporta una radicale riforma dell’azienda pubblica e si basa sulla separazione tra il servizio erogato ai cittadini e la produzione del trasporto.
Per semplificare la
complessità tecnica della riforma consideriamo il semplice caso di un cittadino che per la prima volta decide di utilizzare il mezzo pubblico. Per prima cosa si doterà di un biglietto e farà i conti con la tariffazione; poi cercherà una fermata vicina e verificherà l’accessibilità del servizio; in attesa alla fermata misurerà la frequenza di passaggio dei mezzi; infine, lungo il percorso avrà bisogno di cambiare mezzo per arrivare a destinazione e si dovrà orientare nella rete integrata.
Queste quattro opportunità –
tariffazione, accessibilità, frequenza, rete – definiscono il servizio pubblico. Se sono ben gestite il nuovo utente sarà soddisfatto, mentre non cambierà nulla se l’autista che produce il trasporto è un dipendente pubblico o privato.

La liberalizzazione consiste nell’affidare la gestione del servizio a un’agenzia pubblica e nel mettere a gara solo la produzione del trasporto, ovvero la guida, la manutenzione e la logistica. Questa è infatti un’attività tipicamente industriale che può essere certamente migliorata dal confronto concorrenziale. In questo modo i privati non avranno alcuna possibilità di interferire sul valore sociale del servizio e dovranno concentrarsi sull’efficienza produttiva. È
bene che gli operatori industriali siano diversi e divisi in lotti, in modo che nessuno abbia la possibilità di ricattare il Comune minacciando il blocco del servizio per ottenere condizioni di favore. Essi dovranno produrre il trasporto nella quantità e nella qualità descritte in appositi contratti con la previsione di sanzioni e di eventuali rescissioni in caso di inadempienze.
Tra i motivi di rescissione ci deve essere anche l’eventuale violazione dei diritti dei lavoratori. Gli attuali dipendenti dell’Atac, infatti, devono essere tutelati nel passaggio al regime privatistico sia per l’occupazione sia per le condizioni di lavoro.
Le tutele invece non valgono per gli attuali dirigenti perché il rinnovo del management è la condizione ineludibile per modificare l’organizzazione aziendale.

ATAC Stanga Class 7000 series tram no. 7063 and Socimi Class 9000 no. 9017, Piazza del Risorgimento, Rome. Foto di Michael Day, pubblicata su Flickr.com con licenza creative commons

La liberalizzazione comporta un rafforzamento del soggetto pubblico che dovrà garantire nei fatti il carattere sociale del servizio e non a parole come avviene nell’attuale gestione monopolistica. Esso avrà la nuova forma di Agenzia e si costituirà assorbendo le due agenzie esistenti – Roma servizi e Roma metropolitane – e il personale di Atac addetto alla tariffazione e ad altre attività di servizio. Il successo della riforma dipende in gran parte dalla capacità di costruire una moderna tecnostruttura pubblica capace di pianificare il trasporto e di gestire i contratti di fornitura con i privati.

L’agenzia dovrà compiere un salto di qualità nella relazione con gli utenti. In autobus capita di ascoltare discorsi dei passeggeri che esprimono molta competenza sui percorsi, le frequenze e perfino i turni del personale. A Parigi e Berlino si legge il giornale senza pensare ai turni. La competenza dei romani è cresciuta come risposta al malfunzionamento. Forse ne faremmo volentieri a meno, ma visto che c’è, almeno metterla in comunicazione con l’azienda mediante le nuove tecnologie aiuterebbe il miglioramento del servizio.   

Negli anni novanta a Roma fu realizzata la separazione tra servizio e produzione, rispettivamente affidate a due società, la “nuova Atac” e Trambus. Ma per impedire il pieno sviluppo della liberalizzazione, il sindaco Gianni Alemanno cancellò la riforma e ricostituì un’azienda unica, la quale tornò presto a essere un grande calderone che fu utilizzato per gli sprechi di Parentopoli.
La sindaca Virginia Raggi ha prorogato il vecchio monopolio, smentendo la promessa discontinuità con il passato.

Tuttavia, le leggi vigenti prevedono nuove gare entro dicembre 2019 e i comuni inadempienti subiranno una penalizzazione economica che nel caso romano può arrivare a un centinaio di milioni. Inoltre, la giunta ha gettato l’azienda nella procedura fallimentare che aggrava la gestione quotidiana e potrebbe evolvere in una crisi più drammatica a causa delle delibere scritte male, come hanno già segnalato il presidente della Autorità Anti-Corruzione Raffaele Cantone e l’Autorità dei Trasporti. Si rischia il collasso amministrativo e finanziario del servizio di trasporto pubblico. Che sia frutto di inconsapevolezza o di cinismo, non si può dire con certezza, ma l’esito sarebbe il medesimo.

Foto di Roberto pubblicata su Flickr.com con licenza creative commons

Di sicuro sono molte le lobbies che puntano a creare una grave emergenza per giustificare la svendita delle azioni dell’Atac. In questo scenario non ci sarebbe più tempo per la liberalizzazione, e l’unica soluzione disponibile sarebbe una privatizzazione disperata, come in passato è accaduto spesso in Italia (si veda il caso dell’IRI). Ai cittadini verrebbe erogato un servizio scadente, senza tutelare neppure i lavoratori.

L’Atac si trova sull’orlo dell’abisso e non rimarrà stabile nei prossimi anni. Verrà svenduta a un privato senza alcuna garanzia, se non ci sarà una riforma radicale del trasporto pubblico.

Per evitare una privatizzazione selvaggia occorre una vittoria del Si al referendum. È l’unica strada per avviare una liberalizzazione che rafforzi il controllo pubblico e migliori la qualità del servizio.

di Walter Tocci, ex vice sindaco e assessore alla mobilità di Roma, esponente Pd

[La foto del titolo, Colosseo Metro Station, è di Nicola ed è stata pubblicata su Flickr.com con licenza creative commons]

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