Il museo MACRO tra il MAAM e la GNAM
Secondo un recente articolo di Repubblica, uno dei candidati alla direzione del MACRO potrebbe essere Giorgio de Finis, creatore e instancabile animatore del MAAM, oltre che curatore e antropologo. Il MAAM è un museo di arte contemporanea ospitato all’interno di una ex-fabbrica occupata da 200 persone, sulla via Prenestina. Con quasi 700 opere donate da vari artisti è diventato in questi anni la terza collezione di arte contemporanea a Roma (a costo zero).
La notizia, rimbalzata sui social, è stata variamente accolta dal mondo della cultura romana con reazioni che vanno dall’entusiasmo al ribrezzo. Del resto Repubblica, insignendo de Finis del titolo di “Direttore squatter”, fa già capire che il dibattito si orienta un po’ troppo sul sensazionalismo. Chi scrive non fa finta di essere super partes, visto che ha collaborato col “direttore-squatter” per diversi progetti. Penso che de Finis sarebbe un buon direttore del MACRO, qualora fosse chiamato a ricoprire il ruolo, come già auspicato tempo fa da Gian Maria Tosatti.
Penso però anche che molti dei commenti letti in giro siano relativamente fuori fuoco, come i supposti “timori” per la sua collezione permanente. Non stiamo discutendo del fatto che il MACRO debba diventare un “centro sociale” e neppure una succursale del MAAM. Sarebbe meglio approfittare di questa occasione per domandarsi seriamente cosa sia e cosa possa essere un dispositivo museale, soprattutto per quanto riguarda l’arte contemporanea.
Che cosa è stato il museo fino ad oggi? Una risposta più o meno parziale direbbe che il museo è un dispositivo di storia dell’arte, dunque quasi sempre fondato su una prospettiva storicistica e diacronica. Le opere si susseguono cioè secondo una periodizzazione rigorosa e il lavoro curatoriale gestisce la metodologia nella costruzione di questo itinerario. In un museo di arte moderna-contemporanea si va solitamente dalle prime avanguardie storiche agli anni Trenta, al new Dada e agli anni Cinquanta, con l’espressionismo astratto e poi da un lato l’esplosione della Pop Art e dall’altro l’esperienza di Fluxus e del concettuale, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Non tutti i musei sono organizzati così, ma nella loro forma attuale sono stati inventati e popolarizzati nel periodo tra il diffondersi dello storicismo hegeliano e l’affermarsi del positivismo scientifico, perciò come istituzioni subiscono l’influenza di queste grandi sistemazioni filosofiche e metodologiche.
Negli ultimi decenni tuttavia nuovi fenomeni hanno eroso l’idea del museo: la spettacolarizzazione dell’arte nella società contemporanea, prevista fin da Guy Debord in La società dello spettacolo e commentata recentemente da Mario Perniola nel suo Arte espansa e l’irrompere della cosiddetta “condizione postmoderna” così descritta dalla filosofia post-strutturalista. Queste speculazioni teoriche mettono in discussione l’idea di storia come vettore verso una fine (la famosa “narrazione”). Se cade questo parametro, possiamo dire che tutto diventa contemporaneo. L’approccio storico resta fondamentale, ma le opere e il pubblico si portano dietro un loro peso interpretativo che tende democraticamente ad espandersi nel tempo.
Il MAAM, da questo punto di vista, è un fenomeno perfettamente debordiano e postmoderno. In esso non c’è una gerarchia di posizionamento né d’aura (per citare Benjamin). Non perché non ci sia una logica interna dietro l’accumulo delle opere, ma perché il curatore le ha volutamente messe su un piano di parità, rendendone evidenti i complessi giochi di interazione. Dunque il dispositivo museale non è solo ciò che isola l’opera d’arte in un contesto, ma sorge come rete di interazioni che non esclude l’azzardo critico.
Operazione simile da un posto di vista ludico-spettacolare è stata proposta recentemente dallo GNAM nel nuovo allestimento-mostra Time is Out of Joint, ideato da Cristiana Collu. La citazione shakespeariana del tempo fuori dai cardini è pensata proprio in funzione della contemporaneità. L’opera d’arte non è un semplice dato storico ma inclusa in una rete di significanti. Tra opere d’arte di diverso genere e periodo si sviluppa un dialogo che dovrebbe suggerire nuove idee al visitatore. Gli approcci del MAAM e dello GNAM, con tutte le differenze dei casi, mirano a far detonare il dispositivo museale classico. Non tutte le opere sono uguali, ma devono esaltarsi nella loro reciprocità. D’altra parte il concetto di autorialità ottocentesco, basato sul tocco inimitabile dell’artista di genio, sembra ridimensionato a favore di una teoria dell’interpretazione basata sul rapporto tra curatori e spettatori. Il curatore suggerisce percorsi che devono essere sempre alternativi rispetto a una valutazione istituzionale (che pure permane). Lo spettatore viene sottratto dal ruolo di semplice fruitore ma è invitato a partecipare alla costruzione di nuove possibili interpretazioni delle opere.
Lo stesso “concorso di bellezza” per opere d’arte voluto dalla Collu e presentato in quello che è il grado zero della tv-trash, da Maria De Filippi, è un esempio di come si possa giocare con l’opera senza rimetterne in discussione l’auraticità. Presentare le opere come semplici “frammenti di bellezza” da concorso cosmetico non è quello che il museo dovrebbe fare, ma quello che attualmente fa. Siamo tutti invitati a ripensare il ruolo dell’opera d’arte nella società dello spettacolo. Essa funziona solo quando si carica il peso di questo spettacolo. Il museo sta cambiando, il visitatore non impara, ricevendo sapere dall’alto, ma interpreta, facendosi portatore di una cultura del sospetto.
Ora, ciò che è lecito in un format peculiare come quello del MAAM, rigorosamente antistoricistico e performativo, può essere plausibile in un museo istituzionale come il MACRO? La domanda si sposta a cosa possa essere un museo nelle attuali condizioni storiche di fronte a fenomeni come quello dell’arte contemporanea che sono sottoposti a una fortissima espansione e disseminazione della loro aura, per cui tutto è arte o tutto lo può diventare nelle giuste condizioni.
Quello che il MACRO non può continuare a essere è soprattutto un’occasione sprecata, un contenitore appaltato a terzi invece che un centro di produzione culturale, nonché un museo che deve tenere presente il suo posizionamento in un “quartiere residenziale” dove l’età media degli abitanti è “anziana” (un circolo esclusivo per la Roma-bene, insomma). Il MACRO dovrebbe essere radicato in tutto il territorio urbano con una prospettiva nazionale e con ambizioni di sistema con le realtà internazionali. La possibilità di muoversi verso una gestione dei musei di tipo diverso c’è, vediamo se a Roma almeno si riesce a parlarne propositivamente e senza troppo sensazionalismo.