Alitalia: non è meglio farla fallire?
La sensazione che tutti hanno davanti al caso Alitalia è quella di un deja vu. E non è un caso, perché il salvataggio dell’ex compagnia di bandiera è ormai un classico di stagione, ci potrebbero girare una serie (di insuccesso pure quella?).
Forse allora sarebbe il caso di mettersi il cuore in pace e dirlo chiaramente: è meglio chiuderla, Alitalia, o venderla a RyanAir. Il che ovviamente non significa far andare per strada le persone che ancora ci lavorano, disinteressarsi del loro futuro. Al contrario.
Oggi Alitalia è divisa tra il 51% del Cai e il 49% di Etihad, la compagnia degli Emirati Arabi Uniti. La percentuale di Cai è ulteriormente ripartita tra Unicredit e Banca Intesa (che hanno il 32% ognuna di Cai), poi Pop Sondrio, Atlantia (che controlla anche Aeroporti di Roma), Mps e Poste Italiane. Insomma, parliamo di una importante compagnia aerea e delle principali banche italiane. Che per ricapitalizzare Alitalia vogliono che il governo gli garantisca il prestito, come se esse non fossero proprietarie, ma semplici creditori.
Per dare corso al nuovo piano industriale e quindi varare l’aumento di capitale necessario, i padroni di Alitalia vogliono l’assenso dei sindacati a un piano di tagli massicci di posti di lavoro e stipendi. Che però non sembra fornire alcuna garanzia precisa per la ripresa della compagnia aerea nel futuro. Perché? Qualcuno dice perché i problemi di Alitalia sono strutturali, tra costi di funzionamento e costi del personale (assenteismo compreso), rotte e tipo di servizio, scarso appeal. Ogni tanto, poi, spunta un’inchiesta sui vecchi conti della compagnia . Nel 2015 alcuni ex dirigenti furono condannati ad esempio in primo grado per il dissesto finanziario.
Far fallire una compagnia aerea perché la nuova poi parta su più solide basi è già accaduto.
In Belgio, per esempio. Sabena, la compagnia nazionale, chiuse i battenti da un giorno all’altro. Dopo essere stata lungamente in perdita come azienda pubblica, fu ceduta agli svizzeri di SAir Group nel 1995. Ma non riuscì mai a risollevarsi, nonostante tagli e piani ripetuti, e dichiarò fallimento nel 2001 (seguì comunque un’inchiesta con la condanna dei manager svizzeri per il dissesto di Sabena). La “good company” rimasta, SN Brussels Airlines, si fuse poi con Virgin Express nel 2006, e nel 2007 divenne Brussels Airlines (che non è una low cost). Oggi è di proprietà di Lufthansa e va bene, con utile netto di 15 milioni per il 2016 (nonostante le pesanti perdite dovute all’attentato all’aeroporto della capitale belga) .
Il Belgio non è uno stato particolarmente nazionalista, anche perché è diviso tra fiamminghi e valloni, quindi ha smesso da un pezzo di considerare la compagnia aerea un “valore” da difendere. Il nostro paese invece è ancora alle prese con il problema di rivendicare la “italianità” pure quando è evidente che così danneggerà le casse e anche i lavoratori.
Lavoratori che invece potrebbero essere aiutati a cercare un’occupazione in altre compagnie, ad andare in pensione, a sviluppare nuove attività. E Alitalia potrebbe allearsi con RyanAir, oggi la vera prima compagnia italiana per traffico. Non a caso, da tempo, Michael O’Leary, l’AD della compagnia irlandese, propone ad Alitalia di spartirsi i mercati e di puntare sull’intercontinentale e sugli Usa, diventando una piccola compagnia” di lusso”.
[L’immagine del titolo è un fotomontaggio di Roberto Gimmi, del 2004, diffuso con licenza Creative Commons. Quella nel testo è di Leandro Ciuffo e risale al 2009]