Lo scheletro della fabbrica della penicillina
Sulla Tiburtina, all’altezza del bivio di Tor Cervara, c’è un rudere industriale da anni abbandonato a se stesso. E’ stato più volte oggetto di notizie di cronaca negli ultimi anni, da Striscia la notizia che segnalò la presenza di sostanze chimiche a un recentissimo caso di stupro avvenuto all’interno.
Questa vecchia fabbrica è la testimonianza di un’eccellenza italiana andata in malora, metafora fin troppo semplice di un intero sistema paese.
Una delle scoperte più importanti del secolo scorso, che ha contribuito all’allungamento della vita media in maniera determinante, è stata quella della penicillina ad opera di Alexander Fleming. La produzione e la sperimentazione della penicillina su vasta scala avvennero grazie un acceleratore formidabile: la seconda guerra mondiale. Fu durante il conflitto che la farmaceutica statunitense Pfizer fece passi da gigante nei processi produttivi e nel test sul campo: “produsse il 90% della penicillina che accompagnò le Forze Alleate nello sbarco in Normandia nel 1944 e oltre la metà della penicillina usata dagli Alleati per il resto della guerra” (dal sito Pfizer Italia).
Finisce la guerra e il nuovo farmaco “miracoloso” diventa di importanza strategica. In Italia la prima penicillina, di produzione statunitense, arriva con il piano UNRRA. Lo stesso piano prevede l’esportazione del know-how necessario per permettere ai paesi beneficiari (tra cui l’Italia) di produrre in loco il farmaco ma con alcune importanti limitazioni: la penicillina prodotta non avrebbe dovuto essere esportata (gli USA volevano conservare l’esclusiva della vendita nel resto del mondo) né venduta commercialmente. Mentre il progetto UNRRA avanzava lentamente tra inefficienze, burocrazia e problemi politici, nascono due fabbriche private di antibiotici a Roma: i Laboratori Palma (sussidiaria dell’americana Squibb) e la Leo Farmaceutica (con la collaborazione e il know how della danese Løvens Kemise Fabrik). E’ proprio la la Leo Farmaceutica la nostra fabbrica abbandonata sulla Tiburtina.
L’imprenditore italiano che fa nascere la Leo Farmaceutica è Giovanni Armenise, proprietario de Il Giornale d’Italia e della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Armenise, con grande lungimiranza imprenditoriale, cerca all’estero, lontano dall’influenza USA, il know how necessario e stringe accordi con la farmaceutica danese Løvens Kemise Fabrik: i danesi forniranno i metodi di produzione, formeranno il personale e supervisioneranno la costruzione dello stabilimento in cambio di un compenso iniziale e del dieci per cento dei futuri guadagni. La fabbrica viene costruita lungo la via Tiburtina, in aperta campagna (allora) e viene inaugurata nel 1950 dallo stesso Alexander Fleming (premio Nobel proprio per la scoperta della penicillina).
Arriva a produrre, praticamente in regime di monopolio, l’intero fabbisogno di penicillina del paese e ne esporta anche all’estero (l’accordo con i danesi permetteva di esportare il prodotto in molti paesi dell’est oltre che in Svizzera e Austria). Armenise mantiene il controllo dell’azienda, facendola crescere, sino al 1971 anno in cui la cede all’I.S.F. che continua ad operare nell’impianto sino alla chiusura definitiva alla fine degli anni ’90.
Io, davanti al rudere, ci passo tutti i giorni per andare in ufficio. E, come sempre mi accade, il rudere in abbandono mi affascina e devo sapere e vedere cosa c’è dentro. Nel corso degli anni ci sono stato più volte a fotografarne la rapida trasformazione. La prima volta ci ho passato ore, passando da un ambiente all’altro con crescente stupore, perché c’era ancora la vita di una volta. C’erano dentro le cose delle persone che ci lavoravano, i loro fogli, i loro pensieri, le loro vite.
(Quando vi capiterà, in futuro, di firmare chili di fogli di carta dove si garantisce la vostra privacy, pensate che se un’azienda fallisce la vostra privacy fallisce con lei e i documenti con una piccola parte della vostra storia finiranno per terra, in mezzo alla polvere, alla portata di chiunque vorrà cercarli)
La storia, nella Leo Farmaceutica, si è stratificata e ci trovi di tutto: dalle autoclavi della Società Anonima De Franceschi di Milano, prodotte nel 1948, ai forni alti come una palazzina di due piani (anch’essi parte della “prima” fabbrica) ai macchinari moderni dell’ultimo periodo prima della chiusura. Ci trovi le carte firmate dal ministro della sanità De Lorenzo, e le carte che autorizzano l’azienda a fare sperimentazione sugli animali.
Tra le tante cose sparse nei vari locali c’è anche una grande quantità di farmaci, uno dei quali, presente in gran quantità, non può passare inosservato: la somatostatina. Si, proprio quella che a fine anni ’90 fu parte delle infuocate polemiche sulla cura Di Bella. Non se ne trovava da nessuna parte e, per la sperimentazione del protocollo, venne commissionata al laboratorio farmaceutico dell’Esercito.
Un aspetto estremamente affascinante dell’impianto sono i tunnel di collegamento tra i vari edifici. Erano utilizzati, come spesso avviene nei complessi industriali, per portare da un o stabile all’altro sia la corrente elettrica che le tubature con acqua e altri liquidi o gas tecnici. Sono sufficientemente ampi per essere percorribili e permettere la manutenzione degli impianti.
Una parte dell’area, costruita in anni successivi rispetto all’apertura della fabbrica, è stata anche oggetto di un tentativo di riutilizzo. Si tratta dello scheletro di cemento dal lato di via Tor Cervara che venne rinforzato e ripulito con l’intenzione di farci un albergo. Il progetto si è fermato ed è rimasto solo la struttura in cemento armato.
Nel 2013, per i lavori di allargamento della Tiburtina, il muro di recinzione della fabbrica è stato abbattuto e sostituito con dei new jersey di cemento. Da quel momento in poi è iniziato il sistematico saccheggio e la devastazione del luogo, fino ad arrivare alla colonizzazione della palazzina uffici da parte di senzatetto e disperati. Nel 2014 arriva il “simbolico” sequestro a seguito del servizio di Striscia la Notizia (vennero apposti due nastri rossi e bianchi e quattro fogli A4 con il divieto di accesso). E’ del 16 dicembre 2016, invece, lo sgombero forzato degli abitanti e la nuova apposizione di cartelli che ne indicano il sequestro. Ad oggi non resta più nulla di quanto era contenuto negli edifici e tutta l’area è una immensa discarica.
Quando visito e fotografo un posto abbandonato cerco sempre di scoprire quante più notizie possibili. Iniziando le mie ricerche sulla Leo ho scoperto con sorpresa che l’azienda danese che aiutò Armenise a costruire la fabbrica esiste ancora: è la Leo Pharma e oggi si occupa principalmente di prodotti dermatologici. Li ho contattati e, molto cortesemente, mi hanno fornito alcune foto d’epoca dal loro archivio (una è quella dell’inaugurazione all’inizio dell’articolo). Un’altra importante fonte di informazioni è stata il lavoro di Mauro Capocci che in seguito mi contattò per alcune foto della Leo in abbandono successivamente pubblicate su Le Scienze a corredo di un suo articolo.
[Tutte le foto – tranne la storica, archivio Leo Pharma – di Pietromassimo Pasqui]