Totti e la linea d’ombra della Roma

Tutti i marinai hanno un inconfondibile e personalissimo senso di indifferenza per gli affari di terraferma. Su questo tipo di distacco e lontananza umorale Conrad ha sicuramente scritto delle pagine indimenticabili nel suo celebre Linea d’ombra.

Anche i calciatori, a loro modo, vivono le proprie esperienze sul rettangolo verde come qualcosa di assolutamente invalicabile ed estraneo rispetto a tutte le altre realtà più ordinariamente continentali.

Il documentario di Paolo Geremei Zero a zero narra magistralmente (attraverso le storie di tre ex promesse della Primavera della As Roma) come le forme di dipendenza dal campo di gioco per un atleta possano assumere forme devastanti, specie quando il rimpianto di aver perso l’occasione giusta ti fa rivivere eternamente l’attimo in cui hai sbagliato e capisci di dover rinunciare a tutto.  
Per un calciatore che smette, uscire dallo spogliatoio per l’ultima volta è come scendere sulla terraferma dopo anni in mare (a proposito di barche: negli ultimi tempi, sembrerebbe quasi che molti campioni quando sono in attività si interessino agli aggiornamenti sull’umanità solo quando c’è di mezzo Gianluca Vacchi o le sue amiche…)

Il grande pubblico, i filosofi e la maggioranza degli scrittori sudamericani al contrario, continuano ad attribuire compatti a tutte le imprese legate a  questo sport significati e simboli decisamente impegnativi e solenni.

Nel momento sempre più vicino in cui Francesco Totti e gli ultimi atleti nati alla fine degli anni 70 smetteranno di giocare però il tramonto verso un calcio senza sangue, retorica e un senso di appartenenza così forte apparirà inevitabile all’orizzonte.

Non perché siamo suoi tifosi e lo consideriamo uno dei migliori giocatori di sempre, ma il Capitano appartiene ad una generazione che anche solo per motivi anagrafici è intimamente collegata ad un’idea di mito ancora non interamente criptata e governabile. Se non altro magari, perchè non ha ogni momento della sua vita, sin da quando è nato, interamente filmato e socializzato.

Ok non è che il numero 10 sprigioni sempre slanci di romanticismo automatici, ma il personaggio sembra legato ad un’epoca sentimentalmente irripetibile, quando il rapporto con lo sport era genuinamente più sgombro ed era persino possibile assistere una partita senza ricevere sms o dover cancellare dai social insulti dei tifosi avversari.

Guardando Zero a Zero, pellicola pluripremiata e da poco distribuita anche in edicola dal Corriere dello Sport certe sensazioni si rafforzano, un pò perchè i protagonisti hanno la stessa età di Totti, un pò perchè il film mette davanti in maniera spietata di fronte al tempo che passa e alle occasioni perse.

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Giulii Capponi

Proprio Conrad scriveva che quando si è giovani non ci sono momenti. E’ privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.
Il regista, anche per la forza delle storie che racconta, sembra isolare e trattenere perfettamente l’attimo preciso in cui la vita di tre promesse del calcio nazionale, coetanei di Buffon e stracolmi di vittorie nei settori giovanili si perdono e non riescono a fare il grande salto verso la serie A.

Paolo Sorrentino ci ha fatto capire che il calcio è un gioco e Di Bartolomei era fondamentalmente una persona triste. Geremei non solo racconta una vicenda di sport, ma mitizza dei sentimenti strabordanti che difficilmente avrebbero posto nel calcio di oggi.

Tre ragazzi considerati le migliori promesse del calcio giovanile della fine degli anni 90, per la loro incoscienza o più semplicemente per sfortuna devono smettere e rinunciare a tutto. Il regista ne narra le vicende adesso, cogliendo in maniera magistrale lo spirito del loro rimpianto e la parte di anima che li ha salvati, facendogli cominciare una nuova vita.

La voglia di rifarsi del portiere ingiustamente punito da Carletto Mazzone a volte tocca le vette dello spirito di rivalsa degno di Melville e infatti Giulii Capponi oggi è allenatore dei portieri nella Lazio.
L’attaccante Daniele Rossi, rovinato da un infortunio, sembra vivere la sua lontananza dai campi come la prigionia di Steve McQueen in Papillon. Il suo ritorno sul prato verde, anche se in serie minori, sembra incredibilmente liberatorio e commovente. Come la fuga di Henri Charrière dall’Isola del Diavolo.
Marco Caterini è un portiere lasciato solo dall’agente nel momento in cui doveva fare il salto nel professionismo.

Sarà che le vicende raccontate nel film avvengono tutte nella Primavera della Roma, ma è come se la cosa ci coinvolgesse ancora di più e ci infondesse un senso di colpa per non aver fatto qualcosa per i protagonisti.

La società di Trigoria, comunque, è in Europa settima in graduatoria per il numero di calciatori che lancia nel calcio professionistico. Alla luce del film, sembra che la possibilità di aver visto nascere Totti debba esser costata anche l’esperienza di tre storie tristi come queste.

E’ impossibile ora attendere l’esordio dei nuovi Marchizza, Tumminello, Di Livio senza trattenere il fiato fino al loro primo gol che li iscriva incontestabilmente nella storia di questo club.

[Nella foto del titolo, Francesco Totti e Daniele Rossi]