Roma e Palermo, ma il puparo chi è?

Quando scrivi ben due libri sul sistema Mafia Capitale e il primo lo pubblichi qualche mese prima di quella fatidica mattina in cui mi svegliarono con questa frase “se so bevuti Carminati”, il tuo destino è vivere per una paio di anni trascinando per l’Italia un trolley pieno di libri accompagnato dal mal di schiena. Lo metti nel conto e lo fai, perché i libri viaggiano con te, sono la scusa per moltiplicare mille volte il tuo racconto e per incrociarne di nuovi che forse un giorno troverai tempo e voglia di scrivere. E le presentazioni dei libri sono tutte diverse, le fai per dieci persone o per settanta e mai una volta te ne pentirai perché ogni presentazione è l’occasione di scrivere una pagina nuova di quel libro che non hai ancora pubblicato e che forse non pubblicherai mai. E quindi va bene così e viaggi giorno dopo giorno con il tuo bagaglio di parole. E se ti annoi o sei stanco te la fai passare perché quello è il tuo lavoro che non finisce il giorno in cui hai scritto l’ultima riga del tuo libro.

Insomma, circa dieci mesi fa in una delle tante presentazioni di “Roma Brucia”, il secondo titolo dopo “Grande Raccordo Criminale”, mi sono ritrovato a Palermo, con i miei libri, i miei sogni e perfino “un appuntamento per un caffè” con una ragazza che avevo incontrato in treno cinque anni prima e che per cinque anni non avevo più vista o sentita e che si era materializzata di colpo – certe volte il destino ha un senso dell’umorismo invidiabile – dopo che si era trovata a leggere su un sito locale che di lì a qualche giorno sarei stato nella suo città, Palermo, a parlare del mio lavoro. Sorvoliamo sugli effetti collaterali di quel caffè (mi sono semi trasferito a Palermo nel bene o nel male), e andiamo a parlare di quella presentazione (a cui la dispensatrice di caffè non venne) che riservò innumerevoli sorprese.

Nella libreria Macaione c’erano una cinquantina di persone ad aspettarmi (“minchia, domani torno scarico a Roma”, pensai assaporando l’idea di vendere tutte e venti le copie che mi ero portato dietro) e fin dal primo momento riuscì a catturare l’attenzione del pubblico. Perché mica è facile parlare di mafia romana a chi Cosa nostra che lo voglia o meno se la cucca da mattina a sera. Ma per fortuna di paralleli ne avevo da proporre fra le due realtà, a partire da luoghi e modalità che possono essere facilmente assimilabili. Quando spiegavo la situazione di Ostia fare paralleli con Brancaccio fu facilissimo, come del resto è stato semplice avvicinare Zen e “Torbella” e ancor di più Bastogi. E cosa dire delle lobby affaristiche capitoline così simili alla cosiddetta “borghesia mafiosa” palermitana? Insomma la presentazione funzionava alla perfezione, poi un dibattito con il pubblico, serrato, partecipato. Tutto filava liscio come l’olio. Ma al centro della platea c’era lui, il pingue anziano signore in tweed e farfallino al collo. Sorridente, il cappello di feltro poggiato sulle ginocchia, si vedeva che si godeva ogni parola e ogni schermaglia. Poi, quasi a fine serata, la sua domanda quasi congelò la sala: “mi scusi, signor giornalista, ma io non riesco a vedere il puparo in questa bella storia che sta raccontando. Il puparo chi è?”.

Quell’anziano avvocato palermitano, con qualche disavventura giudiziaria ancora non chiusa per presunte vicinanze con ambienti mafiosi, mi guardava sorridendo. E sorridendo poi mi aspettò a fine serata all’esterno della libreria per dirmi che lui il “cecato” lo aveva conosciuto ai suoi tempi e che era inutile che cercassero le carte di Carminati perché era come lui, non metteva niente per scritto e nessun numero delicato registrato  sul cellulare. “La mia testa è la mia rubrica”, mi disse salutandomi.
Rientrai in libreria e il gestore sconcertato mi disse: “mi aspettavo di esaurirli, e invece ne hanno comprati solo due. Non mi è mai successo”.
Vai a vedere che il puparo si veste in tweed.

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