A Roma serve ancora la “cura del ferro”
(Venerdì scorso la maggioranza capitolina ha deciso che la metro C dovrà fermarsi ai Fori Imperiali e non raggiungere più Ottaviano, anche se poi sabato la sindaca Virginia Raggi ha detto che l’eventuale completamento dell’opera sarà valutato più avanti.
Walter Tocci, ex vicesindaco di Roma e assessore ai Traporti della giunta Rutelli, lucido sostenitore da decenni di una “cura del ferro”, cioè delle ferrovie, delle metro e dei tram, per la città, ha scritto nel 2015 Un libro intitolato Non si piange su una città coloniale in cui discuteva anche della necessità di completare appunto la “cura”. Ripubblichiamo qui quel passaggio con il consenso di Tocci, oggi senatore Pd – o meglio della minoranza Pd.
È un piccolo saggio che spiega anche l’evoluzione della politica dei trasporti a Roma, scritto quando al Campidoglio c’era ancora la giunta Marino)
[…] La linea C, una linea lunga quanto la somma delle altre due, è stata pensata come grande connettore urbano per risolvere tre problemi strategici.
Primo, integrare con la città quella periferia orientale che oggi è tanto estesa e frammentata da sembrare come in fuga verso l’hinterland. È anche l’occasione – purtroppo dimenticata – per collegare l’università di Tor Vergata rendendone possibile lo sviluppo come polo della ricerca, della formazione e dello sport.
Secondo, costruire un asse portante nell’area nord che è la più debole di infrastrutture. È l’unico modo per risolvere l’occlusione della Cassia e della Flaminia causata da decenni di disordine urbanistico. E per migliorare l’accessibilità del Foro Italico e dell’Olimpico, invece di andare a costruire il terzo stadio nella campagna.
I grandi parcheggi di quella zona consentono un doppio uso, non solo per gli impianti sportivi, ma anche per drenare il traffico che oggi soffoca l’area di Prati e di San Pietro.
Terzo, realizzare una rete di metropolitane nell’area centrale. Oggi la A e la B si incontrano solo in un punto, invece insieme alla C formano una doppia maglia tra San Giovanni, Colosseo, Termini e Ottaviano. Le prime due metro sono eccentriche rispetto agli antichi rioni, mentre la terza linea serve il cuore del centro storico creando le condizioni strutturali, insieme ai nuovi tram, per una vera pedonalizzazione.
Rimango francamente sconcertato di fronte a dichiarazioni improvvisate sulla possibilità di bloccare la linea C a piazza Venezia.
Sembra un risparmio e invece sarebbe uno spreco. Si ridurrebbe di molto l’efficacia dell’investimento già in atto, si spenderebbero comunque miliardi di euro per una metropolitana poco utile, che fallirebbe tutti i suoi obiettivi. La periferia orientale verrebbe scaricata in gran parte a San Giovanni sulla linea A, già prossima alla saturazione. La maglia dell’area centrale sarebbe quasi annullata. L’area nord verrebbe condannata a rimanere nella penuria infrastrutturale.
Sarebbe un regalo alla cattiva gestione di Alemanno, che non solo ha aumentato i costi e allungato i tempi, ma avrebbe anche l’effetto di sancire per il futuro l’impossibilità di realizzare metropolitane a Roma. Al contrario, si dovrebbero rimuovere le cause delle inefficienze, correggere i gravi errori progettuali compiuti dalla giunta precedente con il silenzio dell’opposizione e rilanciare la credibilità del progetto della linea C. Se il Campidoglio non crede al suo progetto, certo non convincerà mai nessuno a finanziarlo.
Non bisogna nascondersi dietro le difficoltà archeologiche.
Esse, al contrario, possono diventare opportunità, come prevedeva il progetto originario. Per merito di Adriano La Regina, uno dei migliori soprintendenti italiani, si decise di seguire nella progettazione il nuovo “metodo Roma” basato su una forte integrazione tra ingegneri e archeologi. Esso consiste nel collocare i rigidi volumi delle stazioni molto in basso, a ridosso della galleria, a circa trenta metri di profondità, per evitare l’impatto archeologico. Lo strato antico soprastante viene attraversato solo con le scale mobili che possono essere disegnate con più flessibilità e in modo non invasivo anche vicino ai reperti, i quali non solo vengono tutelati ma diventano visibili per i viaggiatori.
Le stazioni si trasformano in musei sotterranei che aiutano a scoprire un’altra Roma ancora sconosciuta, ad esempio – sotto il rione Parione – i resti del teatro di Pompeo, un gigantesco monumento antico, oggi visibile per un frammento all’interno di un ristorante vicino Campo de’ Fiori.
La linea C è stata progettata per attuare il progetto Fori, secondo lo studio che lo stesso La Regina aveva commissionato negli anni Ottanta a Leonardo Benevolo. La realizzazione dell’infrastruttura di trasporto toglie ogni alibi a coloro che si nascondono dietro problemi di traffico per impedire il progetto. La funzione automobilistica può essere cancellata definitivamente, può essere archiviata come una breve parentesi, non tra le più esaltanti, della lunga storia di quel luogo. Possibile che l’epoca nostra non abbia altro di meglio di un flusso di traffico da consegnare alle generazioni successive?
Con la metro C si può realizzare la totale pedonalizzazione dell’area, eliminando lo stradone del tutto estraneo al paesaggio storico e recuperando invece la geometria e le connessioni delle piazze imperiali.
È possibile tornare a passeggiare ai Fori ascoltando il rumore dei passi sul selciato, potendo alzare lo sguardo con lo stato d’animo trasognato dei visitatori del grand tour, in un luogo moderno e antico allo stesso tempo, completamente dedicato all’incontro delle persone tra loro e con la storia.
Roma non sarà mai davvero una città moderna finché non porterà a compimento la sistemazione dei Fori. Non sarà davvero città internazionale finché non avrà l’ambizione di proporre al mondo un senso nuovo della “città eterna”. Non sarà autenticamente città storica se non riuscirà a creare una tensione creativa tra passato e futuro.
Come in un percorso psicoanalitico la persona nuova emerge da una rielaborazione del proprio vissuto, così per una città storica la vera modernità consiste proprio nel rielaborare il proprio passato, dove per rielaborare non si intende una ripresa retorica della memoria, ma un’attiva opera di riconoscimento. Nella pedonalizzazione svolge un ruolo strategico l’area compresa tra il Colosseo e largo Corrado Ricci. È un luogo paradossale, l’unico in cui si può scavare in tranquillità pur trovandosi nel cuore dell’area archeologica.
Infatti, quello che oggi vediamo come un viale era fino agli anni Trenta il sottosuolo della collina Velia, che il duce sventrò per poter aprire la visuale del Colosseo dal balcone di piazza Venezia, ed è quindi privo di reperti.
La versione originaria del progetto della linea C, secondo il “metodo Roma”, utilizzava questa opportunità disegnando sotto il viale e in connessione con la stazione Colosseo un grande foyer di ingresso al parco dei Fori, prendendo a esempio l’accesso ipogeo del Louvre sotto la piramide di Pei inaugurato pochi anni prima. I cittadini che escono dalla metropolitana trovano un grande ambiente di servizi e di accoglienza – oggi totalmente assenti e difficilmente realizzabili in superficie – e possono documentarsi sulla storia antica, vedere un filmato, utilizzare strumenti didattici per i ragazzi ecc., prima di entrare nell’area archeologica all’altezza del Foro della Pace.
Questa versione del progetto è stata abbandonata nel 2010 a favore di una soluzione di basso profilo che purtroppo verrà realizzata se non ci saranno ripensamenti: la preziosa area ipogea viene interamente bloccata dagli impianti della metropolitana, rendendo certo più facile la realizzazione della stazione, ma rinunciando per sempre alla possibilità di dare al parco dei Fori una formidabile porta sotterranea di accesso.
È la conseguenza del ritorno a una progettazione separata tra ingegneri e archeologi, i primi vedono in modo unilaterale il problema funzionale e i secondi rinunciano a proporre soluzioni limitandosi a gestire il vincoli. La scissione tra tecnica e storia è non solo una perdita di qualità, ma è la causa dell’inefficienza e dell’aumento dei costi. In mancanza di una progettazione integrata i vincoli sono diventati una manna dal cielo per il costruttore, che li ha strumentalizzati per attivare un enorme contenzioso nei confronti del committente. Tutti questi problemi derivano dall’inserimento dell’opera nella legge obiettivo che ha comportato la rinuncia a un forte controllo pubblico e ha favorito l’impresa privata.
Il Comune deve riprendere in mano il governo dell’opera dotandosi di strumenti di controllo di alta professionalità e provata credibilità. Se si fosse continuato ad applicare il “metodo Roma”, i vincoli sarebbero diventati risorse. E l’amministrazione comunale avrebbe accumulato un know how da esportare ovunque nel mondo si realizzino metropolitane in contesti archeologici.
Negli anni Novanta emerse, in seguito a studi più approfonditi, la necessità di una quarta metropolitana, la linea D che corre in direzione parallela a ovest della B, da Salario a Ludovisi, passando per Campo Marzio e Trastevere, fino a Magliana e all’Eur. È una linea molto ben calibrata che serve i quartieri a più alta densità abitativa e terziaria e determina un balzo in avanti dell’effetto rete. In uno schema astratto di priorità sarebbe dovuta venire prima della linea C, ma queste decisioni non si prendono mai su un foglio bianco. Si decise di partire con la linea C per utilizzare un vecchio finanziamento statale, ancora non speso nel 1993, che altrimenti avremmo perduto.
La giunta di destra ha utilizzato il pretesto del finanziamento della linea D per giustificare una gigantesca operazione immobiliare. Ha fatto bene l’amministrazione Marino a cancellare la speculazione, ma non deve rinunciare al progetto della quarta metropolitana. I soldi non sono un problema, si trovano se ci sono progetti credibili; a differenza di altri grandi comuni, il Campidoglio non ottiene da tempo nuovi finanziamenti per le metro perché chiede allo Stato più spesa corrente che investimenti.
Oggi nel dibattito dell’aula Giulio Cesare si è perfino diffusa l’idea che sia eccessiva la previsione di quattro metropolitane per Roma. Ricevevo la critica opposta quando ero assessore, quasi tutti mi rimproveravano un’eccessiva prudenza e mi portavano gli esempi di tante città europee più piccole e dotate di un numero maggiore di linee. Ma i miei critici non tenevano conto dell’anomalia tutta romana di una conurbazione inadatta ai trasporti di massa perché caratterizzata da una bassa densità insediativa; infatti, occupa un’area estesa come quella di Parigi con un numero di abitanti circa tre volte inferiore.
Fatico sempre a spiegare questo carattere controintuitivo nelle assemblee di periferia. I cittadini avvertono un eccesso di pieno perché vivono in insediamenti intensivi ad alta densità locale e soprattutto privi di connessioni con il contesto, ma a scala più vasta è evidente il diradamento urbano che rende il trasporto collettivo costoso e inefficace. Si paga il prezzo strutturale di una periferia costruita appositamente per l’automobile.
A causa del diradamento è necessario anche estendere il bacino di offerta delle metro esistenti con adeguati prolungamenti per la linea A – oltre il GRA a sud e verso Torrevecchia a nord – e ampie diramazioni per la linea B. È pronto il progetto di allungamento del ramo Tiburtino oltre San Basilio e verso la zona industriale. La giunta di destra lo aveva condizionato alla costruzione di milioni di metri cubi che avrebbero devastato quella periferia. La giunta Marino ha bloccato la speculazione e ha risolto i problemi che impedivano l’attuazione del progetto.
Più complessa è la scelta nella direzione ovest. Si è deciso di prolungare la metro a Tor di Valle per sostenere la realizzazione dello stadio, ma è come fare un passo senza sapere dove andare. A questo punto bisogna definire la pianificazione del quadrante ovest: decidere sulle diverse ipotesi della diramazione della linea B sulla riva destra del Tevere – all’interno verso Portuense oppure all’esterno verso Muratella – e sulla sorte della Roma-Lido che può essere trasformata in metropolitana urbana.
Negli studi di simulazione della mobilità alla fine degli anni Novanta si arrivò alla conclusione che oltre la C e la D non vi erano altre direttrici con livelli di domanda superiori ai 10.000 passeggeri/ora, ritenuta la soglia di efficienza per una metro in galleria. Le previste quattro metropolitane non sono né troppe né poche, bisogna solo realizzarle.
Tuttavia, è pur sempre una città popolosa – anche se a bassa densità – che presenta nelle direzioni radiali sprovviste di metro rilevanti flussi di mobilità di circa 3000-4000 passeggeri/ora.
Sono livelli di domanda troppo alti per essere serviti dagli autobus, proprio questo è il difetto strutturale dell’attuale rete Atac. Su tali direttrici occorre quindi una modalità di trasporto che a costi di investimento dieci volte più bassi delle metropolitane realizzi un’offerta di trasporto più potente degli autobus. Ecco perché a Roma è necessario anche il rilancio del tram.
La città trampedonale
Fu un caro maestro, Italo Insolera, a impostare nei primi anni Novanta una moderna strategia tranviaria per Roma. Mi consigliò di seguire l’esempio della città di Strasburgo che nel 1994 inaugurò il tram di nuova generazione, poi diffuso in tante altre città europee. L’innovazione era tecnologica e urbanistica. Fu progettata una nuova macchina che a un forte aumento della capacità di trasporto univa la leggerezza, la flessibilità, l’eleganza e il comfort, cioè uno standard di servizio molto diverso dai vecchi tram sferraglianti. Inoltre, l’impianto del tram fu utilizzato come occasione di riqualificazione della struttura e del paesaggio urbano.
Pensammo di introdurre a Roma la nuova tecnologia non solo come mezzo di trasporto, ma come leva di rielaborazione della vicenda urbanistica della capitale, sia con immediate realizzazioni sia nella pianificazione di lungo periodo. Il primo passo fu riportare il tram in centro storico con la linea 8, che suscitò allora molte polemiche mentre oggi è forse il mezzo di trasporto più apprezzato dai romani.
Doveva essere solo l’innesco del progetto più ambizioso dell’asse tranviario tra Termini e San Pietro [Per completare l’anello interno da Termini a San Pietro, proseguendo poi da piazza Risorgimento a via Leone IV – per servire i Musei Vaticani – e poi attraversando Prati lungo la linea che porta alla circolare esterna di via Regina Margherita. Recentemente è stato proposto un ottimo ampliamento a nord dell’anello tranviario, passando per l’auditorium, via Guido Reni, il ponte della musica e ritorno verso Prati.].
Insieme alla rete metropolitana il tram avrebbe consentito di eliminare totalmente le automobili. Si trattava di ridisegnare lo spazio pubblico sostituendo la coppia bus-auto con quella tram-pedone. Ciò comportava l’eliminazione delle strade carrabili in asfalto e i relativi marciapiedi, sostituiti da una pavimentazione allo stesso livello del pianale del tram, in modo che il pedone potesse proseguire indifferentemente a piedi o con il mezzo di trasporto senza alcuna discontinuità o barriera, come si vede nelle città francesi ormai da vent’anni.
Non si trattava solo di un’infrastruttura di trasporto, ma di uno strumento per creare il nuovo paesaggio trampedonale del centro storico. Era l’occasione per “rifare l’Ottocento”, rielaborando in chiave contemporanea l’incerta hausmannizzazione di via Nazionale e corso Vittorio Emanuele II .
L’asse tranviario centrale dovrebbe essere la struttura aperta in grado di sostenere una rete di passanti che attraversano l’intera città.
Bisogna “rifare il Novecento”, sanando l’amputazione della rete operata dalla riforma del 1930 che accompagnò la prima frattura tra centro e periferia, dalla quale iniziò la frammentazione successiva. Come per le altre modalità di trasporto, i passanti tranviari distendono le relazioni tra le diverse parti di città, superando la dipendenza gerarchica con il centro. Ma con una qualità in più rispetto alle altre modalità. La metropolitana e la ferrovia hanno un rapporto difficile con la città, la prima la evita passando sotto e la seconda la elude girando intorno. Il tram, invece, è il modo più urbano perché accetta di vivere in città e anzi ne costituisce la continuità fisica e narrativa. È l’unico strumento che può ricucire i fili strappati dell’espansione novecentesca, entrare nelle pieghe degli errori commessi per capovolgerne gli esiti. Il primo passante tranviario proietta a scala urbana l’asse ottocentesco del centro storico.
Da una parte verso via Gregorio VII per proseguire lungo l’Aurelia, almeno fino a incontrare la ferrovia tirrenica, e dall’altra nella direttrice storica della Prenestina. Questo è l’unico ramo esterno sopravvissuto allo smantellamento, dovrebbe essere prolungato fino a Tor Sapienza e riqualificato nell’ambito di un più vasto recupero della via consolare.
Nello stesso bacino, si presenta una formidabile occasione in seguito alla realizzazione della linea C, la quale sostituisce il tratto esterno della vecchia ferrovia Roma-Fiuggi e lascia come residuo il tratto interno da Centocelle alla stazione Termini, che può essere trasformato in moderno tram.
L’attuale impianto va completamente smantellato: si tratta di una tecnologia obsoleta, a scartamento ridotto e incompatibile con tutte le altre linee, con un inserimento urbano indecente, delimitato da assurde trincee sulla via Casilina. Al suo posto si deve realizzare un tram di standard europeo, restituendo alla via consolare la funzione e l’immagine di una bella strada urbana.
All’altezza del Pigneto, dove incontra la linea C e l’anello ferroviario, il nuovo tram abbandonerebbe la sede attuale per dirigersi verso la tranvia della Prenestina proseguendo poi per Termini. In tal modo si aumenterebbe l’offerta di trasporto nel tratto più denso del quartiere Esquilino e allo stesso tempo si potrebbero eliminare i binari su via Giolitti, salvando quella via dal degrado e valorizzando i suoi luoghi importanti, dal teatro Ambra Jovinelli, alla chiesa berniniana di Santa Bibiana al cosiddetto tempio di Minerva Medica, entrambi esempi notevoli di architettura seicentesca e tardoantica, oggi isolate e ridotte a spartitraffico.
Così si eviterebbe anche l’attraversamento dell’area archeologica di Porta Maggiore, che potrebbe essere sistemata come “parco della Porta”, secondo il progetto Insolera. Con la nuova tramvia, il parco di Centocelle diventerebbe la grande isola verde e archeologica della periferia orientale, pienamente accessibile dal resto della città.
Il secondo passante tranviario dovrebbe percorrere la via Nomentana fino a Montesacro e oltre, verso il Tufello e la Bufalotta, secondo un tracciato già anticipato dalla linea express 90. Oggi il tratto storico della Nomentana è l’immagine della fretta di arrivare dalla periferia al centro, lo si attraversa quasi senza guardarlo. L’attenuazione del traffico automobilistico con il tram consentirebbe di riscoprire la magia di quell’asse: un tipico viale urbano – con le sue quinte maestose da boulevard – che però annuncia già nel suo aspetto – con i grandi parchi e l’assenza di piazze e di negozi – la passeggiata fuori porta . Questa direttrice si potrebbe connettere – attraverso la stazione Termini e via Nazionale – con la linea dell’attuale 8, alla quale si potrebbe aggiungere una diramazione verso sud, all’altezza dell’ospedale Forlanini, verso la via Newton, lungo la Portuense, fino a Corviale, andando a servire un forte bacino di traffico non coperto dalle metropolitane.
Il terzo passante dovrebbe riesumare la cosiddetta linea Caravaggio, secondo il progetto elaborato alla fine degli anni Novanta e rimasto nei cassetti dell’amministrazione comunale. Prevedeva un tracciato che andava a servire un grande bacino residenziale e terziario a destra della via Colombo in direzione centro, con insediamenti di grande peso urbanistico – la sede della Regione Lazio, piazza dei Navigatori, l’ex Fiera di Roma, le attività terziarie di piazza Caravaggio e di piazzale dei Caduti della Montagnola ecc. – nonché i grandi quartieri residenziali fino a Grottaperfetta.
Questo bacino di traffico è fuori dalla portata della linea B della metro e può trovare soluzione solo con una potente linea tranviaria, la quale proseguirebbe verso Ostiense, toccando l’università Roma Tre e la riqualificazione dei mercati generali, poi il quartiere Testaccio e quindi sul lungotevere sinistro, secondo l’ipotesi proposta da Insolera. In piazza del Popolo potrebbe confluire sull’attuale linea 2 e dopo piazza Mancini attraverserebbe il ponte per servire lo stadio e attestarsi verso Vigna Clara, scambiando con la linea C. Sarebbe una forte direttrice nord-sud, con un’accessibilità perimetrale al centro storico, complementare a quella di tipo assiale delle altre linee tranviarie.
I tre passanti coprirebbero tutte le direttrici non servite dalle quattro metropolitane, scambiando tra loro mediante la circolare esterna lungo viale Regina Margherita e all’interno lungo l’asse centrale fino a Prati.
Non sarebbero solo infrastrutture di trasporto, ma creerebbero l’occasione per ripensare la funzione e l’immagine delle vecchie consolari – la Nomentana, la Casilina, la Prenestina, la Portuense, l’Aurelia, tratti della Flaminia e della Cassia e dell’Ardeatina – facendone i più bei viali di Roma contemporanea.
Dovendo aprire le strade per realizzare gli impianti tranviari si dovrà risistemare il sottosuolo per fare una buona manutenzione delle vecchie reti urbane – collettori, rete idrica ed elettrica, gas, spesso in condizioni penose – e allo stesso tempo per posare le nuove reti tecnologiche digitali. In alcuni casi sarà possibile anche realizzare nel sottosuolo parcheggi lineari lungo l’asse stradale, per togliere dalla superficie le automobili dei residenti e restituire spazio pubblico ai pedoni, senza creare offerta di nuovi parcheggi in destinazione che aumenterebbero il traffico.
In superficie si dovrà riqualificare l’architettura delle strade e potenziarne l’uso pedonale: rifacimento delle pavimentazioni, nuovo design dell’arredo urbano, uso sapiente del verde e dell’acqua, luoghi di ristoro e di pausa. Una doppia quinta di alberi sui marciapiedi dovrebbe creare l’immagine di moderni boulevard. Si dovrebbe evitare il degrado delle affissioni per convogliare le risorse della pubblicità nella qualificazione dell’ambiente stradale: servizi informativi, installazioni di arte contemporanea, pensiline del trasporto, illuminazione pubblica e privata coordinate secondo piani organici della luce, sull’esempio di Lione.
Anche gli edifici del fronte strada dovranno contribuire alla riqualificazione degli spazi, con il restauro delle facciate e la demolizione di costruzioni fatiscenti o inadeguate per realizzare nuove architetture oppure per creare nuovi spazi pubblici. Per ciascuna strada si dovrà elaborare uno stile architettonico mediante concorso internazionale.
Questa operazione cambierebbe il volto della città, come non sarebbe possibile in nessun altro modo. Le vie consolari tornerebbero a essere la trama del tessuto urbano. Il richiamo antico dei loro nomi risuonerebbe in una coraggiosa interpretazione contemporanea.
Tale rinascita si può stimolare solo col tram, in quanto strumento in grado di agire contestualmente sui processi strutturali, funzionali e simbolici. Le borgate storiche e abusive, nate per un doppio movimento di distacco dalla città e di separazione tra di loro, verrebbero riunificate dal tram come le perle di una collana. Le vie consolari ritroverebbero l’originario carattere di transito che nell’antichità costituiva l’annuncio della città per chi arrivava e il ricordo per chi partiva. Oggi, invece, l’attraversamento senza relazione è divenuto la causa principale del degrado di queste strade, appesantite dal doppio peso di un centro ingolfato e di un’immensa periferia. Le strade tornerebbero quindi a essere un segno forte di vita urbana, espressione di ciò che unisce e di ciò che differenzia gli stili di vita.
I tre passanti sarebbero perfettamente integrati con le reti delle metropolitane e delle ferrovie, garantendo anzi a queste la distribuzione capillare dei flussi e l’integrale accessibilità dei luoghi.
Ma nella periferia orientale, proprio perché è quella più diradata verso l’hinterland, bisognerebbe rafforzare l’effetto rete con un quarto passante da Cinecittà, lungo via Togliatti fino a Fidene e forse passando il Tevere per connettere il grande centro Rai della Flaminia.
Sarebbe l’unico asse trasversale e avrebbe proprio la funzione di legare tutti gli altri passanti su ferro che connettono la città con l’area regionale.
Anche in questo caso, però, la funzione di trasporto dovrebbe sorreggere una riqualificazione urbanistica, arrestando l’espansione nell’agro e completando i vecchi tessuti sbrindellati prodotti dalla folle speculazione degli anni Cinquanta e Sessanta. Trovandosi proprio al confine tra la periferia storica e quella anulare, avrebbe un effetto di ricucitura a grande scala. Si potrebbe partire dal tratto nord con il recupero del “viadotto dei presidenti”, indicato recentemente da Renzo Piano come esempio nazionale di ricucitura delle periferie. È il disegno tranviario più ambizioso che si possa immaginare per il futuro di Roma, ma non è un’opera impossibile, né dal punto di vista finanziario, né dal punto di vista realizzativo perché si tratta di viali molto larghi e in alcuni casi già predisposti per tale uso.
[…]
Oggi, pare si voglia compensare l’accorciamento della linea C con uno spezzone di tram sui Fori, ma sarebbe una tipica soluzione di piccola scala non giustificata da una pianificazione generale, che servirebbe solo a creare un alibi per non smantellare lo stradone. Si propone anche un moncherino tranviario fino a piazza Lodi, ma la linea C è connessa con la circolare alla stazione successiva di San Giovanni. La linea tranviaria proposta su viale Marconi andrebbe in sovrapposizione con la metro D e lascerebbe scoperto il bacino di Corviale. Le linee tranviarie e metropolitane devono essere integrate a larga scala, altrimenti non si ottiene l’effetto rete e a parità di costi diminuisce l’efficacia.
Riguardo alle difficoltà dell’attuazione, solitamente gli amministratori indicano tre cause: la mancanza di finanziamenti, la burocrazia e le proteste NIMBY. Ma sono alibi inconsistenti.
La prima causa è smentita dalla constatazione che quasi tutti i programmi pubblici sono frenati da finanziamenti non spesi (ad esempio i fondi strutturali europei o la stessa legge obiettivo). Più che la carenza di fondi, pesa quindi l’incapacità operativa delle pubbliche amministrazioni.
Di solito si risponde alle difficoltà chiedendo leggi speciali, procedure di emergenza e commissariamenti. Questi strumenti mirati a soluzioni particolari intaccano la generalità e l’astrattezza delle procedure, aumentano la discrezionalità degli apparati e finiscono per appesantire la burocrazia. Infine, le proteste dei cittadini sono motivate nella maggior parte dei casi da una pessima qualità progettuale delle opere, spesso disegnate con vecchi approcci funzionalisti che prescindono dai caratteri peculiari dei luoghi. Le relazioni con il contesto territoriale non sono quasi mai intrinseche al progetto, ma vengono rinviate alle cosiddette “mitigazioni”, un’espressione che implicitamente già ammette il fallimento dell’opera.
La vera causa del problema è da ricercare nello smarrimento della cultura del progetto.
Il freno alle opere dipende dalla devastazione delle capacità pianificatorie e progettuali delle pubbliche amministrazioni perseguita negli ultimi trent’anni. Occorre ricostruirla, innanzitutto svincolando la progettazione dal finanziamento. Oggi, si comincia a disegnare un’opera solo dopo aver ottenuto i fondi, accumulando già in partenza un ritardo che impedisce di bandire subito l’appalto, crea l’affanno dei soldi non spesi e devia l’attività di progettazione verso le scorciatoie e le semplificazioni. Al contrario, le amministrazioni dovrebbero progettare prima di ottenere i finanziamenti, dotandosi di una raccolta di progetti esecutivi, elaborati senza affanno, e già pronti per essere appaltati non appena si rendono disponibili i fondi.
L’estenuante cambiamento della legislazione sugli appalti ha creato un mostro burocratico che soffoca la qualità e l’operatività. Eppure dopo ogni fatto criminoso che occupa le prime pagine dei giornali vengono annunciati nuovi provvedimenti normativi che complicano ulteriormente il quadro.
Non servono nuove leggi, si devono solo cancellare gran parte delle norme scritte negli ultimi vent’anni, lasciando quelle che garantiscono la concorrenza e il potere di controllo dei cittadini.
Anche l’approvazione delle opere è oggi segnata dalla logica burocratica, essendo affidata a commissioni composte dagli uffici amministrativi preposti. La conformità normativa dovrebbe essere un prerequisito, ma il vero controllo di interesse pubblico dovrebbe riguardare la qualità del progetto, l’inserimento nel tessuto territoriale, la coerenza pianificatoria, il valore artistico, la giustificazione economica, il modello gestionale.
Il progetto di un tram in città dovrebbe essere autorizzato non da una commissione di burocrati, ma da collegi scientifici di altissimo profilo professionale composti da architetti, urbanisti, tecnologi, artisti, economisti e ingegneri gestionali.
Occorre ricostruire un’intelligenza pubblica per guidare la trasformazione. Se l’istituzione non è in grado di progettare la città non può neppure cambiarla.
[Tutte le foto sono tratte da Flickr.com e pubblicate con licenza creative commons]
Ciao Walter ho scoperto con piacere le mie foto CC nel tuo articolo… onorato:-)