Quando c’era il Selfware

“Selfware” è un neologismo sconosciuto e, a dirla tutta, nemmeno troppo ben riuscito. Però, pur nella sua poco fortunata fusione tra le due parole che lo compongono (Self e Welfare) tutto sommato rimanda abbastanza chiaramente all’idea di quello che si vuole spiegare e alla fine suona pure bene. A memoria si può riandare, per cominciare, agli inizi degli anni 90, all’elezione di Rutelli sindaco di Roma. L’ex-giovanotto radicale batte l’emergente e lanciatissimo missino Gianfranco Fini.

Rutelli governa con una maggioranza di centrosinistra ben salda, anche grazie al premio di maggioranza in consiglio comunale, la città esce fuori da una non troppo amata sindacatura Carraro (quello dei mondiali di Italia ’90), la crisi economica comincia a fare capolino (la fine della spensieratezza anni 80 era già quasi un dato acquisito), Mani Pulite iniziava a muovere i primi passi, la morte di Falcone e Borsellino era ancora fresca e l’incertezza diffusa (il sistema fino ad allora stabile stava venendo giù). Tutto questo diventò terreno favorevole per quella cosa che anni dopo venne chiamata un po’ ottimisticamente, “democrazia dal basso”.
Ci fu la moltiplicazione degli spazi occupati, centri sociali “per autogestire la cultura e proporre un modo diverso di fare politica” e creò quello che si definì “autoreddito” (con la produzione, fuori dai circuiti ordinari, di musica, cultura, arte, via via fino alla produzione biologica), quasi in una prospettiva alternativa alla globalizzazione livellatrice ormai incipiente.

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Fu quasi premonitrice questa scelta che intanto si allargava a macchia d’olio nelle città e, in particolare, nella Capitale (esisteva una mappatura di tutti gli spazi occupati e persino delle diverse caratteristiche di ognuno: da quelle politiche, perché c’erano gli anarchici così come gli ex-autonomi degli anni ’70, spesso in conflitto tra loro a quelle progettuali, a quelle di chi avanzava un’offerta di cultura popolare qualche volta obsoleta così come quelle in cui si organizzavano rave party techno-ecstasy, per semplificare).
Per non parlare poi delle numerose trattorie che improvvisati cuochi rasta o post-punk gestivano all’interno di questi spazi, spesso con capacità e fortune inimmaginabili (in alcune si mangiava e si mangia ancora oggi veramente bene e con pochi soldi).

A metà degli anni 90 montò il movimento di lotta per la casa (all’epoca quasi un residuo degli anni 70, quello delle occupazioni abusive di S.Basilio o Casalbruciato) che, grazie alla situazione economica che aveva colpito i ceti sociali più bassi, ingrossati dall’immigrazione in aumento, aveva raccolto grande diffusione persino tra il movimento degli studenti, i “no global” (la cui progettualità era rivolta principalmente alla denuncia, anche radicale e dura, delle nuove forme del capitalismo internazionale) fino a diventare negli anni recenti quasi la lotta “egemone” di tutto il movimento, in qualche modo anticapitalista, in Italia e persino in Europa.
Tutti occupavano tutto quello che c’era di “occupabile”: spazi per lo più pubblici (ma anche privati) che potevano essere “preda delle speculazioni immobiliari o delle banche”. A Roma si contarono, alcuni anni fa, almeno un centinaio di stabili occupati (palazzi, ex-scuole, ex-ospedali ecc. Mai case popolari però, nonostante il luogo comune che mette insieme “l’okkupazione” di tali strutture con la compravendita illegale di alloggi pubblici che invece in genere è in mano alla malavita, piccola o grande.

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Questo lungo e doveroso preambolo ci riporta a Rutelli, prima e seconda consiliatura, e alle politiche di confronto dell’amministrazione capitolina con queste realtà “di lotta”. L’approccio di Rutelli (ma in seguito anche di Veltroni e finanche di Alemanno, che si limitò democristianamente ad accettare lo status quo) ad esempio con la nota delibera 26 del 1995 che assegnava ad uso sociale le occupazioni “senza titolo” di patrimonio comunale, segnò un passo fondamentale (oggi rimessa in discussione in parte dalla delibera 40 del commissario Francesco Paolo Tronca).

La questione si potrebbe riassumere così: l’impossibilità del governo della città di rispondere alle nuove esigenze sociali (dell’epoca) aveva messo in moto una scelta di sussidiarietà che almeno per un lungo periodo funzionò.

La lotta per la casa fu un passo anche ulteriore: nuovi piani Fanfani per la costruzione di alloggi popolari non erano in previsione, il patrimonio immobiliare disponibile era soltanto quello privato (eviteremo di citare i soliti nomi e le imprese, compresa una parte della stampa ad esso legata, così nota a tutti da essere superfluo) e quindi, anche se a suon di sgomberi e manganellate, alla fine tutto sommato questi stabili occupati rimasero tali, fungendo appunto da welfare per un’amministrazione (ma anche un governo centrale) consapevole di non essere in grado di evadere questa enorme richiesta. Insomma: migliaia di persone che avevano bisogno di un tetto almeno ora ce l’avevano e venivano tolti dalle strade, evitando così alle istituzioni persino problemi di ordine pubblico.

Un fai-da-te che per 20 anni ha funzionato. Addirittura, grazie alle spinte “movimentiste” si arrivò a varare una legge regionale del ’98, applicata con grande difficoltà, detta dell’autorecupero e che porta il nome dell’assessore all’urbanistica di Prc, Salvatore Bonadonna: un meccanismo piuttosto farraginoso per cui stabili pubblici inutilizzati di qualsiasi tipologia vengono restaurati e trasformati in case popolari; lo scopo era quello di evitare la deportazione di ceti sociali più disagiati nelle uniche case popolari disponibili a decine e centinaia di chilometri da Roma, mantenendoli invece all’interno della cintura cittadina.

Tutto bene quindi? In parte sì, almeno per un periodo. Il meccanismo del Selfware, col tacito consenso (anche se spesso non è mancata da parte delle istituzioni la politica del bastone e della carota), ha funzionato per un po’ di anni.

Una specie di tappabuchi che alcune forme di autorganizzazione, incuneatesi nelle contraddizioni di un sistema inadeguato e quello sì, veramente imperfetto più che mai qual è il capitalismo come lo conosciamo oggi, aveva permesso e permette ancora oggi una “sopravvivenza dignitosa” a quelle fasce sociali sempre più in difficoltà.

Vivere in una struttura occupata spesso significa anche un risparmio nelle spese correnti grazie alla possibilità di forme di pagamento forfettario (e per chi non ha un lavoro o è sottopagato o sottoccupato è una boccata di ossigeno).

Insomma, i poveri si organizzano, e per un po’ ha funzionato. E ai critici si potrebbe rispondere: non si dice, un giorno sì e l’altro pure, che l’attuale sistema di welfare è ridotto a qualcosa di meno dell’elemosina? O parlare dell’aiuto ai poveri, annunciato anche dall’ultimo governo di centrosinistra che più che politica sembra qualcosa che rimanda più a Victor Hugo che a William Beveridge, l’inglese considerato il padre del welfare moderno?

Ma oggi il Selfware impatta invece con le parole d’ordine “onestà” e “legalità”, in un grande calderone che mette insieme, per dire, la corruzione di Mafia Capitale con quel tipo di “illegalità” che secondo i promotori fu necessaria e persino etica per riequilibrare quella giustizia sociale che oggi non è più possibile. E trovare un punto di sintesi tra le due visioni sembra francamente obiettivo molto difficile da conquistare.

(La prima foto si intititola “Garbatella Village. Centro sociale 1”, è stata scattata il 28 dicembre 2006 ed è di Luciano; la seconda, scattata il 6 marzo 2011, si intitola “Ex Snia” è di Bruno;  la terza è “Rome-Cinodromo_Acrobax”, è stata scattata il 24 gennaio 2013 ed è di Alexander Damiano Ricci. Tutte le foto sono coperte da licenza creative commons e sono tratte da Flickr.com)

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