Così la Meloni abbatte il renzusconismo
Era tutto stato studiato in laboratorio: il primo esodo degli alfanidi, la finta diaspora dei verdiniani-cosentiniani col duo Bondi-Repetti incorporato, per poi concludere il ricongiungimento con una sfilata trionfale del duo Matteo-Silvio sotto l’Arco di Costantino. Il finto patto del Nazareno aveva sancito pubblicamente l’unione dei due poli contro il rischio grillino. “75 a 25” avevano contato al chiuso delle stanze. Il problema era far confluire in un’unica schiera elettori a lungo contrapposti, ed ecco la finta rottura per convincere la parte pura del Pd che Berlusconi era ancora un avversario. Nel frattempo Renzi salvaguardava le aziende del Cavaliere, e portava avanti le leggi più retrive nella storia della Repubblica. Poi sono arrivati due ostacoli: le elezioni amministrative e il referendum costituzionale. Anche per questo il programma renzusconiano era perdere dignitosamente Roma, così non toccava governarla; vincere a Torino, a Milano e forse a Bologna; competere a Napoli. Un bilancio che avrebbe fatto gridare alla tenuta e al rilancio del gattopardino. Poi Salvini e Meloni si sono accorti che nel Partito della Nazione non c’era posto per loro, e hanno scompaginato i piani. A Roma è molto probabile che la Meloni vada al ballottaggio contro la cinquestelle Virginia Raggi, a Torino Fassino potrebbe perdere, e a Milano potrebbe vincere Parisi, come De Magistris a Napoli. Per Matteo un insuccesso di proporzioni catastrofiche che suonerebbe come ineludibile preludio al gigantesco NO nel referendum di ottobre. Ecco perché le candidature deboli di Bertolaso a Roma e Osvaldo Napoli a Torino , le quali dovevano favorire il PD, sono state alla fine un errore; e l’agitarsi di Silvio contro la mamma Meloni, con la riapparizione in contemporanea e in alleanza dell’ex sindaco Veltroni, pare simboleggiare il grido “O Roma o morte”.