Misericordia ma anche carità

Ora che finalmente è iniziato il Giubileo della Misericordia, vorrei dire due parole a sostegno della carità. Per esser chiari, quella che il dizionario spiega come “amore attivo per il prossimo che si esplica soprattutto attraverso le opere di misericordia”. Credo che “fare la carità”, cioè dare l’elemosina, sia una delle migliori possibilità che abbiamo di aiutare una persona qui e ora, senza trascurare mai il fatto che la povertà non si combatte donando monete, ma eliminandone per quanto possibile le cause.
Ci sono quelli contrari all’elemosina perché lo ritengono un modo per non risolvere il problema più generale della povertà: un atto di puro conservatorismo compassionevole, insomma.
Certo, ci sono anche i razionalisti, quelli per i quali sarebbe probabilmente più razionale prendere tutti i soldi delle elemosine e trasformarli in un investimento per combattere la povertà. Ma lascio l’argomento ai sostenitori delle idee difficoltose da realizzare e decisamente poco appassionanti. Per me resta sempre meglio un uovo oggi che una gallina non si sa mai bene quando.
Altri ritengono l’elemosina solo un modo per tacitare la propria coscienza o che contestano l’idea – diffusa da alcuni cristiani – secondo cui il povero rappresenta Dio stesso, e dunque c’è il rischio che aiuti una persona non perché ha bisogno di te, ma solo per farti bello di fronte alla divinità (un esempio cinematografico: Reality di Matteo Garrone, in cui la divinità era la tv).

Tanti altri, continuano a credere alla favola del mendicante che in realtà è ricchissimo. Avete mai sentito, o quante volte l’avete sentita, la storia dell’uomo che arriva in auto, guidata dall’autista privato, e si piazza poi a chiedere l’elemosina davanti all’ingresso di una chiesa?
Quelli – e sono tanti anche loro – che odiano l’elemosina perché vorrebbero che i mendicanti andassero a lavorare appartengono in fondo all’ultimo gruppo. Continuano a credere alla favola secondo cui tantissima gente amerebbe trascinarsi tutto il giorno in strada a chiedere soldi (o addirittura preferiscono venire nel paese nostro piuttosto che stare nel loro non perché là muoiono di fame, ma per diletto).
Per fare l’elemosina occorre provare un po’ di empatia. Ed è proprio l’empatia che fa capire che negli altri in difficoltà c’è, o ci potrebbe essere, un po’ di noi stessi. E dunque essere solidali.
Forse è anche questo che impaurisce tanti. Perché anche noi potremmo essere costretti a ricorrere all’aiuto di altri, in mezzo alla strada, esposti alla vista di tutti, spogliati nel modo più profondo possibile, dopo che davanti a se stessi (per uno che come me non crede, o meglio non sa se credere o meno, in Dio). E dunque riconoscere questa possibilità ci mette una paura terribile.
Per me, fare l’elemosina significa anche non giudicare, per quanto sia possibile farlo per un essere umano. E dare soldi anche a chi ci comprerà una birra, del vino o un altro tipo di droga. Non mi preoccupa alimentare un vizio. Mi dispiace molto di più non poter aiutare ad arrestare la disperazione, di fronte a cui pochi spiccioli restano, appunto, pochi spiccioli.
Oggi ci sono molte più persone in strada a chiedere soldi – in varia forma – che pochi anni fa. E’ certamente il segnale della crisi e dunque bisogna pensare e agire globalmente. Ma occorre fare anche qualcosa di concreto oggi, subito, per le persone in difficoltà.
Con pochi spicci non cambi il mondo, ma la giornata di una persona sì.