Caro, anche basta

C’è un’abitudine degli ultimissimi anni, credo romana o comunque diffusissima a Roma, che trovo sempre più insopportabile, anche più dell’uso del milanese “settimana prossima” senza l’articolo determinativo, o del virale “leggermente” per intendere un’acqua minerale non frizzante ma neanche liscia. Sto parlando dell’aggiunta dell’appellativo allocutivo (Treccani dixit) “caro” o “cara” a ormai qualsiasi domanda posta dal negoziante o inserviente di turno al cliente.

“Che ti do, caro?”. “Basta, cara?”. “Come lo vuoi il cornetto, caro?”, e via careggiando. Ormai una tipica manifestazione di cordialità coatta.

Intendiamoci, l’uso di “caro” è interetnico e intercategoria. Me lo rivolge tanto l’addetto bangladese del ferramenta che il barista de’ Roma, il fornaio ciociario del mercato, eccetera. Non credo sia interclassista, non ce lo vedo un maitre d’hotel o di ristorante, o un gioielliere del centro a usarlo, ma non ho sufficiente esperienza per dirlo con assoluta certezza. 

Perché lo trovo insopportabile? Perché l’uso di “caro”, presume una vicinanza affettiva. Caro a chi, che è la prima volta che se ‘ncrociamo?, mi verrebbe da rispondere (sono anch’io romano, famo a capisse) a chi mi si rivolge così, quando metto piede nel suo negozio, appunto, per la prima volta. 

Ovviamente, nelle frasi col “caro” è esplicito anche l’uso del “tu”. Ma essendo cresciuto in ambienti sinistrorsi, in cui darsi del tu era consuetudine (talvolta pure usare compagno talvolta come epiteto talvolta come sostituto di essere umano: un po’ come il mai demodé cristiano), non mi formalizzo, anche se alle persone più anziane di me, o che incrocio per la prima volta in un ambito che non è il mio, do del lei.
No, è proprio quel “caro” che mi scoccia.

O forse dovrei pensare che sia un modo per abbreviare l’espressione piena di riguardo “caro cliente”, che serve a esprimere un immediato interesse, una prossimità improvvisa ma non per questo insincera, che si proietterà sul futuro, che travalicherà l’interesse puramente commerciale della nostra relazione? Mah, non credo.

Foto di Julien diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Certo, potrebbe trattarsi invece di ironia (e cioè col sottinteso di se se, caro pe’ modo da di’, kittesencula), e se così fosse lo apprezzerei di più, giuro.
Invece credo che sia l’ennesima riproposizione, più coatta, di “dottore”, o più semplicemente dotto’, che non è un titolo onorifico, ma una generalizzazione Tutti dottori, nessun dottore (io a “dottore” ho sempre risposto:
sì, ma oggi non opero).

Non sono nostalgico, non rimpiango i tempi del “signore” o “signora” (per signorina e signorino, i tempi sono passati da un pezzo). E ricordo quanto si infastidisse mio padre quando un mio amico delle superiori lo chiamava regolarmente “signore” (“buongiorno, signore”): non era colpa sua, era stato proprio educato così, genere piccolo Lord. Mio padre invece, che era cresciuto al Trullo, lo considerava ‘na presa pel culo, e una volta me lo disse.

Ecco, il “caro” o “cara” mi infastidisce quanto può infastidire alcune persone anziane essere chiamate nonnina o nonnino. Chi lo usa (a mia memoria, giovani commesse, soprattutto) vorrebbe esprimere magari tenerezza, ma la parola finisce per diventare mielosa, pietistica, o addirittura falsa come una moneta da tre euro, direbbe un mio amico.
E mica so’ rincojonita che me devi chiama’ nonnina!, rispose una vicina alla commessa dell’alimentari.

Ecco, voi che usate caro a piene mani, anzi, a piena bocca, vi intimo: caro, anche basta.

[La foto del titolo è di Stijn Nieuwendijk ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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